“Non fa differenza,” diceva Socrate, “bensì dobbiamo prima di tutto star attenti che non ci capiti un certo caso poco piacevole.” “Quale?” dico io.
E lui rispondeva: «Diventar misologi, cioè che sorga in noi avversione e antipatia per ogni discussione. Allo stesso modo altri diviene misantropo e ha avversione e antipatia per i propri simili. Oh! davvero non c’è sventura più grande di questa antipatia per ogni discussione.”
Platone, Fedone

I

Elenco alcuni punti, non in correlazione strettamente logica fra loro, che bisognerà tener presenti leggendo queste pagine (al solito così stravagantemente interdisciplinari):

a) I discorsi teorici sul cinema, fino a oggi, sono stati quasi sempre o di tipo stilistico-parenetico, o saggistico-mitico, o tecnico. Tutti avevano comunque la caratteristica di spiegare il cinema col cinema, creando un’oscura ontologia di fondo. Solo l’intervento della linguistica e della semiologia — che è molto recente — può garantire la caduta di tale ontologia e una ricerca di carattere scientifico sul cinema.

b) Ogni discorso sul cinema è, prima di tutto, reso ambiguo dalla terminologia tecnica che finora — rispettosa dei principi ontologici come lo è ogni fatto tecnico — è stata la sola possibile descrizione del fenomeno cinematografico. Non ne può ora nascere che un doppione terminologico (dato che la “tecnica” del cinema pare avere un senso molto più preciso e fattuale di quella che, forse per semplice analogia, si chiama “tecnica letteraria”). Per es. la parola “inquadratura” è una parola della terminologia tecnica del cinema. Un discorso linguistico sul cinema non può farne uso che non sia approssimativo o secondario: ne nasce quindi una lotta per la supremazia tra il termine “inquadratura” e il termine, mettiamo, “monema” (il termine “immagine”, appartenente alle indagini pseudo filosofiche del vecchio cinema, sembra ormai essere un vero e proprio arcaismo).

c) È, probabilmente, errato parlare di cinema: più esatto sarebbe parlare di “tecnica audiovisiva”, comprendente quindi anche la televisione. Inoltre la parola “cinema” tende a confondersi con l’opera cinematografica (e finora le opere cinematografiche hanno fatto “cinema”, indistintamente unite da un carattere prevalentemente “narrativo”, di “prosa”: questo da ora in avanti non sarà più il caso. Il cinema comincia ad articolarsi, a separarsi in diversi gerghi speciali).

d) L’ambizione di individuare i caratteri di una lingua cinematografica, intesa proprio come lingua, nasce da una matrice e in un ambito saussuriano, ma, nel tempo stesso è scandalosa rispetto alla linguistica saussuriana. Si richiede evidentemente di ampliare e modificare la nozione di lingua (così come la presenza delle macchine costringe in cibernetica ad ampliare e modificare la nozione di vita).

e) L’avvento delle tecniche audiovisive, come lingue, o quanto meno, come linguaggi espressivi, o d’arte, mette in crisi l’idea che probabilmente ognuno di noi, per abitudine, aveva di una identificazione tra poesia — o messaggio — e lingua. Probabilmente, invece — come le tecniche audiovisive inducono brutalmente a pensare — ogni poesia è translinguistica. È un azione «deposta» in un sistema di simboli, come in un veicolo, che ridiviene azione nel destinatario, non essendo quei simboli che dei campanelli di Pavlov.
Da ciò deriva inevitabilmente l’idea — nata per l’appunto dal cinema, ossia dallo studio dei modi che il cinema ha di riprodurre la realtà — che la realtà non sia, infine, che del cinema in natura. Il cinema, intendo, non come convenzione stilistica, ossia, tendenzialmente come cinema muto, ma il cinema in quanto tecnica audiovisiva.
Se dunque la realtà non è che cinema in natura, ne deriva che il primo e principale dei linguaggi umani, può essere considerata l’azione stessa: in quanto rapporto di reciproca rappresentazione con gli altri e con la realtà fisica.
Mi rendo ben conto dello speciale tipo di irrazionalismo che porta sempre con sé, inevitabilmente, in filosofia, la parola «agire»; tuttavia è un dato di fatto che questo si impone nel mondo moderno, e noi non possiamo ignorarlo. Non possiamo sfuggire alla violenza esercitata su di noi da una società che, assumendo la tecnica a sua filosofia, tende a divenire sempre più rigidamente pragmatica, a identificare le parole con le cose e le azioni, a riconoscere come “lingue per eccellenza” le “lingue delle infrastrutture” ecc. Non si può insomma ignorare il fenomeno di una specie di esautora– mento della parola, legato al deperimento delle lingue umanistiche delle élites, che sono state, finora, le lingue-guida.
L’azione umana nella realtà, in quanto primo e principe linguaggio degli uomini, dunque. Per es., i resti linguistici dell’uomo preistorico sono modifiche della realtà, dovute alle azioni della necessità: è in tali azioni che quell’uomo si è espresso. Le modifiche delle strutture sociali, con le loro conseguenze culturali ecc., sono il linguaggio con cui si esprimono i rivoluzionari. Lenin, in un certo modo, ha lasciato scritto un grande poema d’azione.
Le lingue scritto-parlate non sono che un’integrazione di questo linguaggio primo: le prime informazioni di un uomo io le ho dal linguaggio della sua fisionomia, del suo comportamento, del suo costume, della sua ritualità, della sua tecnica corporale, della sua azione, e anche, infine, dalla sua lingua scritto-parlata. È così che del resto la realtà è riprodotta dal cinema.

f) Non è chi non veda, a questo punto, come la semiologia del linguaggio dell’azione umana — qui proditoriamente descritto — verrebbe poi a essere la più concreta delle filosofie possibili. E non è chi non veda, in conseguenza, quanto di comune avrebbe una simile filosofia, dovuta a una descrizione semiologica, con la fenomenologia: con il metodo di Husserl, magari lungo la linea esistenzialistica sartriana. Se non è una storia che il soggetto della filosofia fenomenologica sono “io in carne e ossa”, cioè sono io che decifro il linguaggio dell’azione umana o della realtà come rappresentazione.

g) La tesi esposta in queste pagine è che esista una vera e propria “langue” audiovisiva del cinema, e che si può, di conseguenza descriverne o abbozzarne una grammatica (non certo — da parte mia — normativa). Ma è stato un saggio di Christian Metz: «Le cinéma: langue ou langage?” (“Communications”, n. 4), che mi costringe a rivedere, a ripensare e a rifiutare molti punti di tale mia tesi.

Il disaccordo fra Metz e me si presenta come profondo, ma forse non insanabile: forse la conciliazione è possibile nel terreno franco offerto dalla nozione di “discours” fornita dal Buyssens, “Les langages e le discours”, che io trovo citato da Metz ma che non ho avuto modo di leggere ancora direttamente: forse la “substance” di cui egli parla ha qualcosa di comune con il “linguaggio dell’azione, o della realtà stessa» cui accennavo qui sopra: e che si pone quindi come “qualcosa di linguistico” che non è però né “langue” né “parole”. E Metz stesso, in nota a questa ipotesi del Buyssens, esclama: “Langue, discours, parole: tutto un programma!” Inoltre Metz, per abbandonare la sua rigida definizione del cinema come semplice “langage d’art”, potrebbe fare lo sforzo di considerare il cinema come un enorme deposito di “lingua scritta” di cui si sia dissolto il corrispondente orale: “lingua scritta” composta soprattutto da testi di narrativa, di poesia e di saggistica documentaria. Su tale materiale archeologico, solo perché composto di semplici testi di “langages d’art” ci si dovrebbe forse subito rassegnare a non ipotizzarvi una possibile “langue”?

II

Dunque il mio rozzo schema grammaticale nasce, per crisi e negativamente, dalla lettura dello splendido saggio di Christian Metz che, definendo il cinema linguaggio, e non lingua, crede possibile farne una descrizione semiologica, e non una grammatica.

I punti che vorrei discutere della teoria di Metz, mi sembrano i seguenti:

i) Metz smonta le precedenti teorie linguistiche del cinema, non bene individuando il fatto che esse erano soprattutto e in parte inconsapevolmente teorie stilistiche: che il loro codice non era linguistico ma prosodico. E che comunque molti aspetti della comunicazione cinematografica, date le particolari circostanze in cui è nato il cinema, (ripetiamo infatti che il cinema è solo una lingua “scritta”) sono di derivazione prosodico-stilistica. (Cosa che del resto succede spesso anche per la convenzione linguistica: molti modi espressivi entrano nel codice, perdendo la loro iniziale espressività ecc. ecc. e divenendo quindi processi convenzionali.)

ii) Metz parla di una “impressione di realtà” come caratteristica della comunicazione cinematografica. Io non direi che si tratta di una “impressione di realtà”, ma di “realtà” tout court — come vedremo meglio in seguito.

iii) Metz ricorre a Martinet, ben a ragione, per dimostrare che il cinema non può essere una lingua. Infatti Martinet dice che non può esserci lingua là dove non si presenti il fenomeno della “doppia articolazione”. Ma io ho da fare a questo due obbiezioni: prima, e principale, che (come ho detto nel preambolo) è necessario allargare e magari rivoluzionare la nostra nozione di lingua, e essere pronti ad accettare magari anche l’esistenza scandalosa di una lingua senza doppia articolazione, seconda, che non è vero, poi, che questa seconda articolazione nel cinema non ci sia. Una forma di seconda articolazione si ha anche nel cinema: e questo è il punto, credo più rilevante, della mia relazione.

Ma ecco cosa voglio dire, affermando che anche il cinema possiede una “seconda articolazione”.

Non è vero che l’unità minima del cinema sia l’immagine, quando per immagine si intenda quel “colpo d’occh io” che è l’inquadratura: o insomma ciò che si vede con gli occhi attraverso l’obiettivo. Tutti — Metz e io compresi, abbiamo sempre creduto questo. Invece: l’unità minima della lingua cinematografica sono i vari oggetti reali che compongono una inquadratura.

Credo che non possa esistere una inquadratura composta da un solo oggetto: perché non c’è un oggetto, in natura, composto solo di se stesso, e che non sia ulteriormente divisibile o scomponibile, o che almeno non presenti di sé diverse “forme”.

Per quanto l’inquadratura sia dunque in dettaglio, essa è sempre composta di vari oggetti o forme o atti reali.

Se io inquadro il primo piano di un uomo che parla, e dietro intravedo dei libri, una lavagna, un pezzo di carta geografica ecc., non posso dire che tale inquadratura sia l’unità minima del mio discorso cinematografico: perché se io escludo o l’uno o l’altro degli oggetti reali dell’inquadratura, cambio l’inquadratura in quanto significante.

Ora, posso certo, se voglio, cambiare l’inquadratura. Non posso però cambiare gli oggetti che la compongono, perché essi sono oggetti della realtà. Posso escluderli o includerli, ecco tutto. Ma sia che io li includa o che li escluda, ho con essi un rapporto assolutamente particolare e condizionante. Scandaloso dal punto di vista linguistico. Perché nella lingua che sto usando con l’inquadrare quest’“uomo che parla” — la lingua del cinema — la realtà, nei suoi oggetti e forme reali particolari, permane, è un momento stesso di quella lingua.

Pretendere di esprimerci cinematograficamente senza usare gli oggetti, le forme, gli atti della realtà, includendoli e incorporandoli nella nostra lingua, sarebbe altrettanto assurdo e inconcepibile, che pretendere di esprimerci linguisticamente senza usare le consonanti e le vocali, cioè i fonemi (i materiali della seconda articolazione).

Il monema “maestro” non può prescindere dall’m, dall’a, dall’e, dall’s, e insomma da tutti i fonemi che lo compongono: così come la mia inquadratura del maestro, non può prescindere dalla faccia del maestro, dalla lavagna, dai libri, dal lembo di carta geografica ecc., che la compongono.

Possiamo chiamare tutti gli oggetti, forme o atti della realtà permanenti dentro l’immagine cinematografica, col nome di “cinèmi”, per analogia appunto a “fonemi”.

I fonemi di una lingua sono pochi, una ventina, circa, nelle principali lingue europee. Essi sono obbligatori, noi non abbiamo altre scelte: possiamo tutt’al più cercare di imparare dei fonemi che ci sono estranei e ci suonano barbarici — le fricative faringali, le glottidali, i dies ecc. ecc. — ma non faremmo che allargare di poco le nostre possibilità di scelta.

I cinémi hanno questa stessa caratteristica di obbligatorietà: non possiamo che scegliere che i cinémi che ci sono, ossia gli oggetti, e forme e gli atti della realtà che noi cogliamo coi sensi.

A differenza dei fonemi, però, che sono pochi, i cinémi sono infiniti, o almeno innumerevoli. Ma questa non è una differenza qulitativamente rilevante. Infatti come le parole o monemi sono imposte da fonemi, e tale composizione costituisce la doppia articolazione della lingua, così i monemi del cinema — le inquadrare — sono composte da cinémi. La possibilità di composizione è talmente varia per i fonemi e per i cinémi (faccio notare che le possibilità di composizione dei monemi linguistici potrebbero essere un numero infinitamente maggiore di quanti in realtà sono).

La caratteristica principe dei fonemi è l’intraducibilità: ossia la brutalità e indifferenza naturale. Anche un oggetto della realtà, in quanto cinema, di per se stesso, è intraducibile, cioè un pezzo bruto di realtà. Si tratta di un tipo di intraducibilità diverso, certo meno categorico. Ed è questo, forse, il punto debole o discutibile della mia teoria. Ma tutto sommato, comunque, mi pare che anche: cinémi — i dati ultimi del linguaggio cinematografico, quelli corrispondenti ai fonemi della lingua — hanno caratteristiche, in sé diverse, da quelle appunto dei fonemi, tuttavia mi pare che la doppia articolazione sia così assicurata alla lingua del cinema. (Se pure di questo c’è bisogno.)

Devo aggiungere ancora, tuttavia:

La lingua del cinema forma un «continuo visivo» o «catena immagini» è, cioè, lineare, come ogni lingua, il che implica una successività — che si svolge necessariamente nel tempo — dei moneni e dei cinémi. Per i monemi — o inquadrature — la dimostrazione è ovvia. Per i cinémi, o oggetti e forme del reale — di cui i monemi, o inquadrature, sono composti — occorre notare: è vero che essi apparentemente compaiono tutti insieme, e non in successione allo sguardo, e insomma ai sensi: ma c’è tuttavia una successione di percezione: li avvertiamo fisicamente insieme, ma non c’è dubbio che un grafico cibernetico della nostra percezione indicherebbe una curva di successività. Nel monema che ho preso come esempio, l’inquadratura del P.P. del maestro, noi in realtà cogliamo successivamente i cinémi della faccia, poi quello della lavagna, poi quello dei libri, poi quello della carta geografica (oppure in diverso ordine): è insomma una addizione di particolari reali che ci indicano che si tratta di un maestro.

Sappiamo poi che la “doppia articolazione” oltre che garantire economicità alla lingua, ne garantisce insieme la stabilità. Ma il cinema non ha bisogno di un simile processo di stabilizzazione collettiva nell’indicare un oggetto, perché egli adopera l’oggetto stesso come parte del significante: con ciò dunque il “valore del significato” è definitivamente garantito !

Sappiamo ancora — sempre sulle orme del Martinet — che ogni lingua ha una sua articolazione particolare, e che di conseguenza “le parole di una lingua non hanno equivalenti esatti in un’altra”. Ma ciò contraddice forse alla nozione di lingua cinematografica? No, niente affatto: perché il cinema è una lingua internazionale o universale, unica per chiunque l’adoperi. Non si dà quindi fisica– mente la possibilità di confrontare la lingua del cinema con un’altra lingua del cinema.

Sempre parafrasando il Martinet, che rappresenta il momento finale e definitorio della linguistica saussurriana, potremmo dunque concludere queste prime note, con la seguente definizione della lingua del cinema: «La lingua del cinema è uno strumento di comunicazione secondo il quale si analizza — in maniera identica nelle diverse comunità — l’esperienza umana, in unità riproduttrici il contenuto semantico e dotate di una espressione audiovisiva, i monemi (o inquadrature); l’espressione audiovisiva si articola a sua volta in unità distintive e successive, i cinèmi, o oggetti, forme e atti della realtà, che permangono, riprodotti nel sistema linguistico, — i quali sono discreti, illimitati, e unici per tutti gli uomini a qualsiasi nazionalità questi appartengano.”

Da ciò deriva (sempre parafrasando il Martinet) che:

1) La lingua del cinema è uno strumento di comunicazione doppiamente articolato e dotato di una manifestazione consistente nella riproduzione audiovisiva della realtà;

2) La lingua del cinema è unica e universale, e non hanno quindi ragione di esistere confronti con altre lingue: la sua arbitrarietà e convenzionalità riguarda solo essa stessa.

III

Prima di buttar giù la paginetta del mio schema grammaticale per la lingua del cinema, devo dunque ribadire quanto ho a tratti, implicitamente detto qui sopra, enunciandolo in termini più definitivi e violenti.

È ben noto che quella che noi chiamiamo lingua, in genere, è composta da una lingua orale e da una lingua scritta. Sono due fatti ben diversi: la prima è naturale, e, vorrei dire, esistenziale. Essa ha per mezzo di comunicazione la bocca e per mezzo di percezione ‘orecchio: il canale è dunque bocca-orecchio. Al contrario della lingua scritta, la lingua orale ci riconduce senza soluzione di continuità storica alle origini, al momento in cui tale lingua orale non era che “grido”, o lingua delle necessità biologiche, o meglio ancora, dei riflessi condizionati. C’è un momento, permanente, della lingua orale che resta tale. La lingua orale è cosi un “continuo statico”, come la natura — al di fuori cioè della evoluzione storica. C’è un momento della nostra comunicazione orale che è dunque puramente naturale.

La lingua scritta è una convenzione che fissa tale lingua orale, e sostituisce il canale bocca-orecchio, col canale riproduzione grafica dell’orecchio.

Ebbene, anche il “cinèma” può pretendere a una simile dicotomia, stranamente — e forse qualcuno penserà follemente — analoga a questa.

Per farmi comprendere devo riferirmi all’enunciazione (cfr. sopra) che esiste prima di tutto un linguaggio dell’azione (che diciamo così per analogia, semiologica, con le espressioni «linguaggio della moda», «linguaggio dei fiori» ecc. ecc.): ho parlato di un poema d’azione a proposito di Lenin… Ebbene, forse spinto dalla ondata di empirismo da una parte, e di moralismo, dall’altra, che rivestono il mondo di questi anni, voglio insistere su questo punto.

Il primo linguaggio degli uomini mi sembra dunque il loro agire. La lingua scritto-parlata non è che un’integrazione e un mezzo di de agire. Anche il massimo di distacco della lingua da tale agire umano — ossia il momento puramente espressivo della lingua — la poesia — non è a sua volta che una nuova forma di azione: se, nel momento in cui il lettore l’ascolta o la legge, insomma la percepisce, la libera di nuovo dalla convenzione linguistica e la ricrea come dinamica di sentimenti, di affetti, di passioni, di idee: la riduce a entità audiovisiva, cioè riproduzione della realtà, azione — e cosi il cerchio si chiude.

Quello che occorre fare dunque, è la semiologia del linguaggio dell’azione o tout court della realtà. Ossia allargare talmente l’orizzonte della semiologia e della linguistica da perdere la testa al solo pensiero o da sorridere con ironia, com’è giusto che gli addetti ai lavori facciano. Ma ho detto fin da principio che questa ricerca linguistica del cinema, mi importa, più che in se stessa, per le implicazioni filosofiche che richiede (magari anche se io le vedo non in quanto filosofo, ma in quanto poeta impaziente del suo specifico lavoro…).

In realtà noi il cinema lo facciamo vivendo, cioè esistendo praticamente, cioè agendo. L’intera vita, nel complesso delle sue azioni, è un cinema naturale e vivente: in ciò, è linguisticamente l’equivalente della lingua orale nel suo momento naturale o biologico.

Vivendo, dunque, noi ci rappresentiamo, e assistiamo alla rappresentazione altrui. La realtà del mondo umano non è che questa rappresentazione doppia, in cui siamo attori e insieme spettatori: un gigantesco happening, se vogliamo.

E come noi, linguisticamente, pensiamo — fra noi, in silenzio, con parole per cosi dire stenografiche, rozze e estremamente veloci, e anche estremamente espressive seppure inarticolate — così abbiamo anche la possibilità, interna a noi, di abbozzare un monologo cinematografico: i processi dei sogni e della memoria, sia involontaria che, soprattutto, volontaria, sono degli schemi primordiali di una lingua cinematografica, intesa come riproduzione convenzionale della realtà. Quando noi ricordiamo, proiettiamo dentro la nostra testa, delle piccole, interrotte, contorte o lucide sequenze di un film.

Ora tali archetipi di riproduzione del linguaggio dell’azione, o tout court della realtà (che è sempre azione), si sono concretati in un mezzo meccanico e comune, il cinematografo. Esso non è dunque che il momento “scritto” di una lingua naturale e totale, che è l’agire nella realtà. Insomma il possibile e non meglio definito “linguaggio dell’azione” ha trovato un mezzo di riproduzione meccanica, simile alla convenzione della lingua scritta rispetto alla lingua orale.

Non so se ci sia qualcosa di mostruoso, di irrazionalistico e di pragmatico, in questo mio riferirmi a una “lingua totale dell’azione”, di cui le lingue scritto-parlate non siano che una integrazione, in quanto simbolo strumentale di essa: e di cui invece la lingua cinematografica sarebbe l’equivalente scritto o riprodotto, che ne rispetterebbe la totalità, è vero, ma anche il mistero ontologico, l’indifferenziazione naturale ecc.: una specie di memoria riproduttiva senza interpretazione. Certo, può darsi che io obbedisca a una necessità delirante del mondo contemporaneo, che tende appunto a togliere espressività e filosoficità alla stessa lingua, e a detronizzare dalla guida linguistica le lingue delle sovrastrutture per collocarvi al loro posto quelle delle infrastrutture, povere, convenzionali e pratiche: esse sì, pura e semplice integrazione dell’azione vivente! Ma tant’è, queste cose mi sono venute in mente, e bisogna che le dica. Dal grande poema d’azione di Lenin, alla piccola pagina di prosa d’azione di un impiegato della Fiat o di un ministero, la vita sta indubbiamente allontanando dai classici ideali umanistici e si sta perdendo nel pragma. Il cinematografo (con le altre tecniche audio-visive) pare essere la lingua scritta di questo pragma. Ma è forse anche la sua salvezza, appunto perché lo esprime — e lo esprime dal suo stesso interno: producendosi da esso e riproducendolo.

Ma basta, e veniamo all’abbozzo del mio schema grammaticale. (Si badi bene che tale schema grammaticale sta a una grammatica come stanno ad essa le due paginette dell’indice, coi titoli dei capitoli.)

IV

Fondamento e determinazione della grammatica cinematografica è il fatto che le unità minime della cinelingua sono gli oggetti, le forme e gli atti della realtà, riprodotte e divenute elemento stabile fondamentale del significante.

Questo permanere, attraverso la riproduzione meccanica, della realtà nella lingua del cinema — anziché divenire, come nella lingua scritto-parlata, meramente simbolica — dà a tale lingua una costituzione del tutto particolare.

La lingua scritto-parlata non è un calco e non e una nomenclatura: ma credo si possa dire, senza orrore dei linguisti, che essa, nei modi morfologici, grammaticali e sintattici, è per cosi dire parallela alla realtà che esprime. Ossia, la catena grammaticale significanti è parallela alla serie di significati. La sua linearità — linearità attraverso cui percepiamo la realtà stessa.

Un grafico dei modi grammaticali della lingua scritto-parlata potrebbe essere dunque una linea orizzontale, parallela alla linea della realtà — o mondo da significarsi, o tout court, con audace neologisino. Significando (parola con cui sarebbe così giusto indicare sempre, umilmente, la Realtà).

Invece: il grafico dei modi grammaticali della lingua del cinema potrebbe essere una linea verticale: una linea, cioè, che pesca nel Significando, lo assume continuamente, incorporandolo in sé attraverso la sua immanenza nella riproduzione meccanica audiovisiva.

Che cosa pesca, nella realtà, la grammatica della cinelingua? Pesca le sue unità minime, le unità della seconda articolazione: gli oggetti, le norme, gli atti della realtà, che abbiamo chiamato “cinemi”. Dopo averli pescati, li trattiene in sé, incapsulandoli nelle sue unità di prima articolazione, i monemi, ossia le inquadrature.

In quest’asse verticale pescante nella realtà, che è la grammatica della cinelingua, distingueremo i quattro seguenti modi:

i) Modi dell’ortografia o della riproduzione;

ii) Modi della sostantivazione;

iii) Modi della qualificazione;

iv) Modi della verbalizzazione o sintattici.

Questi quattro momenti della grammatica sono, s’intende, solo idealmente successivi.

i) Modi della riproduzione (o ortografici).

Consistono in quella serie di tecniche — che si acquisiscono nell’apprendistato — atte a riprodurre la realtà: conoscenza della macchina da presa, degli effetti della ripresa, problemi di luce ecc. ; pratica, inoltre, nella composizione del materiale profilmico. (A questo proposito vorrei ricordare che l’analogia del cinema con le arti figurative, è sempre stata una nozione equivoca. La composizione del mondo, in pieni e vuoti ecc. davanti alla macchina da presa, ha qualche analogia con la pittura solo nel senso che sia il cinema che la pittura “riproducono” la realtà, con mezzi a loro propri. E questa riproduzione della realtà dà al cinema — e forse anche alla pittura — la caratteristica di quella lingua abnorme e particolare che è una lingua solo scritta “la lingua scritta dell’azione”. Ci sono dunque alcuni elementi — chiamiamoli compositivi — che sono nella matrice sia del cinema che della pittura: è a quelli che il cinema si riferisce — solo indirettamente, quindi, e per decisione stilistica dell’autore, attraverso le esperienze già fatte della pittura.) Oltre alle norme della ripresa cinematografica, fanno parte dei modi ortografici, le norme della ripresa sonora. Poiché la riproduzione della realtà, indispensabile per ottenere le unità di seconda articolazione, è una riproduzione audiovisiva. (Non mi sembra perciò affatto giusto, in nessun modo, che il vero cinema sia il cinema muto. Esso è semmai la forma vera del film d’arte, appartiene comunque alla storia della stilistica del cinema; e non stupisce che l’abbandono del muto abbia dato tanto dolore agli autori. Esso infatti era una sorta di metro, di prosodia fortemente limitativa, e, proprio in quanto tale, fortemente fantastica. Il film muto può dunque restare tuttora una «scelta» stilistica dell’autore che ami una forte e ossessiva selettività del campo prosodico).

ii) Modi della sostantivazione

Chiamo sostantivazione questo momento della grammatica, per analogia coi «sostantivi» della lingua. In realtà il nome non è esatto, e bisognerebbe inventarne un altro. Le inquadrature, o monemi, possono rappresentare oggetti, forme o atti della realtà, ossia la realtà immobile o in movimento, la realtà particolareggiata o indistinta ecc. ecc.: tuttavia in quanto inquadratura, essa ha la caratteristica sempre uguale di creare, con le unità di seconda articolazione, un monema. Questo monema è in sé sostantivo, aggettivo o verbo — secondo le nostre abitudini — insieme. Tuttavia, come vedremo, l’aggettivazione e la verbalizzazione intervengono sul monema in un secondo momento: il suo primo momento è quello di essere semplicemente monema, ossia parola, tout court, che, per la sua particolare natura, dovuta all’essere composta da oggetti, è prevalentemente sostantivale.

Credo che nei «modi della sostantivazione» si debbano distinguere due fasi:

1) Limitazione delle unità di seconda articolazione, ossia dei cinèmi. Ciò significa che chi parla cinematograficamente deve fare sempre una scelta degli illimitati oggetti, forme e atti della realtà, in funzione di quello che vuole dire. Insomma deve anzitutto cercare di fare, della lista dei cinèmi una lista chiusa. Ciò non sarà mai possibile, e si raggiungerà dunque solo una chiusura relativa, o una tendenza alla chiusura. Da ciò, regolarmente, deriva una «lista aperta» delle unità di prima articolazione, o monemi cinematografici (inquadrature): queste potranno essere dunque infinite. Ma la limitazione preventiva o potenziale, dei cinèmi, farà in modo che, diciamo cosi, la «infinitosemìa» delle parole cinematografiche, trovi un limite proprio nelle unità di seconda articolazione che le costituiscono : una limitazione delle quali, produce quindi, insieme, una «lista aperta» dei monemi, e la loro tendenza a una almeno particolare e transeunte forma di monosemia. Esempio: voglio descrivere una scuola. Ecco che subito opero una limitazione delle infinite cose della realtà: una scelta di tali cose nell’ambito dell’ambiente scolastico. L’inquadratura del maestro con dietro lavagna, carta ecc. è un monema, che si presenta come tendenzialmente mono-semico: un insegnante. Mentre insomma la «natura» dei fonemi è in noi, fatto soggettivo di chi parla — ossia del suo corpo — la «natura» dei cinèmi è nella realtà fuori di noi, nel mondo sociale e fisico. Di tale realtà conserva i caratteri ineliminabili. Con ciò voglio dire che se il cinema, come lessico, ossia come serie di monemi (e semantemi e morfemi) è una lingua unica e universale, sempre come lessico, è differenziata etnicamente e storicamente. Non troverò tra gli oggetti-cinèmi del mondo occidentale un burnus. Lo troverò invece in oriente. Da ciò la sostituzione delle differenze di lingua nazionale, con delle varianti etnico-storiche.

2) La costituzione, dal carattere sempre transeunte, di una serie di sostantivi, isoipsi, nel loro momento di pura e semplice inquadratura, intesa come insieme di cinèmi, e non presa in considerazione nei suoi valori di qualità, di durata, di opposizione e di ritmo. L’inquadratura, come insieme di cinèmi puro e semplice, è dunque una parola di carattere sostantivale, non qualificata, né messa in relazione col resto del discorso attraverso i legami sintattici (o di montaggio).

Cosi concepita l’inquadratura o monema sostantivale, corrisponde a quella che nelle lingue scritto-parlate si chiama proposizione relativa. Ogni inquadratura insomma rappresenta «qualcosa che è»: un maestro che insegna, degli scolari che ascoltano, dei cavalli che corrono, un ragazzo che sorride, una donna che guarda ecc. ecc. o semplicemente: un oggetto che è li. Questa serie di proposizioni relative formate da un unico monema è il cosiddetto «materiale» del film. Tali monemi-proposizioni relative, come raccolta lessicale, sono idealmente fissi: se la macchina li coglie in movimento devono essere considerati tanti quanti sono le ideali inquadrature da cui il movimento di macchina è formato.

Sia ben chiaro infine che non c’è coincidenza tra «monema» e inquadratura: un’inquadratura è molto spesso un piano-sequenza, sia pur minimo, in cui si accumulano due o più monemi, o proposizioni relative.

La prima forma di sintassi — ossia, tecnicamente, di montaggio –si ha dunque all’interno dell’inquadratura, per accumulazione di relative coordinate.

iii) Modi della qualificazione

Anche nei modi della qualificazione si possono distinguere varie fasi (non cronologiche, naturalmente). I modi della qualificazione servono come dice la parola a qualificare i sostantivi raccolti nel modo sopra descritto, e sono appunto diversi.

1) Qualificazione profilmica. Questa si usa soprattutto nei film narrativi (ossia non documentari). Consiste nello sfruttamento puro e semplice, oppure nella trasformazione, della realtà da riprodurre. Ossia nel «trucco» degli oggetti e delle persone. Nell’esempio già usato, se il maestro è troppo giovane, mentre deve essere anziano, viene truccato con dei capelli bianchi ecc. Se l’inquadratura non pare abbastanza comunicativa al regista — per essere quel sostantivo-proposizione relativa ch’egli vuole raccogliere — vengono fatti spostare degli oggetti (per esempio, la lavagna, nella solita inquadratura presa ad esempio, non si vede abbastanza? Ebbene viene appesa più in basso ecc.). La qualificazione profilmica tende tuttavia ad appartenere più alla prosodia e alla stilistica del film che alla grammatica.

2) Qualificazione filmica. Questa qualificazione del sostantivo- proposizione relativa in cui consiste il monema cinematografico, si ottiene attraverso l’uso della macchina da ripresa, ed ha caratteristiche ben note.

Sono qualificazioni filmiche le scelte degli obiettivi con cui riprendere quell’insieme di unità reali che è l’inquadratura.

È qualificazione filmica la distanza dell’obiettivo dall’insieme delle unità reali che si devono inquadrare: ossia, le definizioni p.p.p., p.p., m.f., f.i.. Totale ecc. sono definizioni tecniche della qualificazione.

Continuiamo con l’esempio del maestro: con i modi della sostan- tivazione abbiamo fatto una scelta di oggetti, forme e atti della realtà, che, inquadrati insieme, cioè divenuti monema, formano il sostantivo-proposizione relativa: «un maestro che insegna». Con la qualificazione sopra descritta, possiamo dunque avere «un maestro che insegna ridendo» o «un maestro che insegna arrabbiato» (qualificazione profilmica), e «un maestro che insegna da vicino», «un maestro che insegna da lontano», «un maestro che insegna una cosa inaspettata» ecc. (qualificazione filmica).

Resta da dire che la qualificazione filmica può essere attiva o passiva. È attiva quando è la macchina da presa che si muove o che comunque prevale (per esempio: uno zum «sul maestro che insegna», o una carrellata sul «maestro che insegna»). È passiva quando la macchina da presa è ferma e non si sente, mentre si muove l’oggetto della realtà (per esempio: la macchina da presa ferma sul maestro che si avvicina e si allontana insegnando). Si ha naturalmente anche una qualificazione «deponente» quando il movimento della macchina e il movimento dell’oggetto della realtà si elidono a vicenda o comunque hanno uguale valore.

Vorrei a questo punto, che fosse ben chiaro un fatto. L’attività e la passività si riferiscono alla realtà riprodotta. Ossia, se sul p.p. del maestro che si muove, la macchina da presa è fissa, la qualificazione è attiva perché è il maestro che agisce: se invece sul p.p. del maestro si muove la macchina, — avvicinandosi, allontanandosi, panoramicando ecc. — allora la qualificazione filmica è passiva, perché stavolta il maestro subisce la macchina da presa.

Se predomina la qualificazione attiva, il film è di tendenza realistica, perché in esso è la realtà che agisce, il che implica una fiducia da parte dell’autore nell’oggettività del reale (cfr. John Ford).

Se predomina invece la qualificazione passiva, il film è lirico-soggettivo, perché in esso è l’autore, con il suo stile, che agisce, il che implica da parte sua una visione soggettiva del reale (cfr. Godard).

iv) Modi della verbalizzazione (o sintattici)

La definizione tecnica di questi modi è il «montaggio».

Ma anche stavolta dobbiamo distinguere due tipi o due fasi di montaggio.

1) Montaggio denotativo.

Esso consiste in una serie di attacchi, per natura ellittici, tra varie inquadrature o monemi, dando loro prima di tutto una «durata» e poi una concatenazione il cui scopo è la comunicazione di un discorso articolato. È insomma il momento sintattico: la coordinazione e subordinazione.

Il primo effetto di questo «montaggio denotativo» o puramente sintattico è che i monemi perdono la loro caratteristica di prima fase, ossia quella di essere dei sostantivi-proposizioni relative, e divengono tout court i monemi tipici del film, con la relativa qualificazione.

Poiché la caratteristica unica e fondamentale del montaggio è istituire un rapporto di opposizione, è appunto attraverso tale rapporto di opposizione che esso adempie alla sua funzione sintattica.

Il montaggio denotativo infatti mette in rapporto di opposizione, accostandole per ellissi, le due inquadrature: «il maestro che insegna», gli «scolari che ascoltano» ecc. Ma proprio in questo rapporto di opposizione nasce la sintassi, ossia, finalmente, la frase «il maestro insegna agli scolari».

Questa serie, del resto molto semplice di «opposizioni», richiede dunque un tipo di sintassi che possiamo chiamare aggiuntiva (in quanto si oppone a quella accumulativa, che abbiamo detto verificarsi quando le «relative» si accumulano dentro una stessa inquadratura, intesa come un pur minimo piano-sequenza).

Tali aggiunzioni sono quelle che i tecnici del montaggio chiamano «attacchi»; attaccano cioè una inquadratura all’altra, stabilendone la durata. Ne risulta una serie di proposizioni o di «insieme di proposizioni» che si potrebbero meglio chiamare «complementi sintattici», in quanto stanno appunto tra la proposizione e il complemento.

Do un esempio: ho due inquadrature o monemi: le proposizioni relative «il maestro che guarda» e «gli scolari che guardano». Se aggiungo la seconda alla prima, la proposizione «gli scolari che guardano» diventa il complemento oggetto e ho dunque il discorso «il maestro che guarda gli scolari».

Da questo esempio risulta abbastanza chiaro che la sintassi del cinema è a fortiori progressiva. Essa forma delle «serie» di proposizioni, o meglio di complementi sintattici: questa serie, successiva per un seguito di aggiunzioni, è, appunto, progressiva, perché per es. se io metto prima la proposizione-complemento oggetto, il senso nell’insieme cambia («gli scolari che guardano il maestro»). La speciale sintassi del cinema è dunque una rozza serie lineare e progressiva: tutto ciò che nella lingua è parentesi, cambiamento di tono, linea melodica, cursus ecc. è adempiuto, nel cinema come linguaggio espressivo, — come vedremo –, dai ritmi, ossia dai rapporti reciproci delle durate delle proposizioni.

2) Il montaggio ritmico (o connotativo)

È difficile stabilire il reale rapporto tra montaggio denotativo e montaggio ritmico o connotativo: fino a un certo limite essi coincidono. Da un certo limite in poi il montaggio ritmico parrebbe essere tipico di una espressività da contrapporsi alla pura e semplice denotazione.

Il montaggio ritmico definisce le durate delle inquadrature, in se stesse e relativamente alle altre inquadrature del contesto.

La «durata» stabilita dal montaggio ritmico è dunque innanzitutto una ulteriore qualificazione. Infatti se mi fermo sull’inquadratura del «maestro che insegna» per il solo tempo necessario a percepirla, la qualificazione è profilmica, se mi fermo più, o meno, del necessario, la qualificazione diventa, comunque, espressiva, se mi fermo molto più o molto meno del necessario la qualificazione diventa filmica attiva, cioè fa sentire la presenza di quella macchina da presa che pure, inquadrando, poteva anche essere ferma. La sua presenza si sente appunto nell’irregolarità della durata dell’inquadratura per se stessa.

Quando invece la «durata» non è considerata in se stessa, ma relativamente alle altre inquadrature del film, allora entriamo nel vero e proprio campo del montaggio ritmico.

Anche nel film più aridamente comunicativo e inespressivo — ossia nella cinelingua più potenzialmente strumentale — c’è la presenza di un ritmo, che nasce dai rapporti di durata delle varie inquadrature fra loro, e dalla durata dell’intero film. Il ritmo, in quanto puro e semplice rapporto di durata fra le varie inquadrature, è necessario alla stessa comunicazione più prosaica e pratica del film.

Il «ritmema» assume dunque nella lingua del cinema un valore particolare, sia nel montaggio comunicativo, che nel montaggio ritmico portato al limite dell’espressione. In quest’ultimo caso esso diventa la figura retorica principe del cinema, laddove in letteratura esso appare secondario o almeno in second’ordine.

V

Certo, considerando il cinema come «parole» indifferenziata, senza quelle complessità che hanno le «paroles» reali, i gerghi specifici, i dialetti, le lingue tecniche, le lingue letterarie, con le loro sottospecie formate per es. dalle lingue della prosa e dalle lingue della poesia ecc. ecc., è difficile differenziare tale «parole» da una «langue» almeno potenziale. E mi sembra appunto che sia questo che spinge Metz a vedere nel film o una «parole» o un «linguaggio», ossia di credere possibile per il film o una stilistica o una semiologia: non una grammatica.

L’indifferenziazione delle varie «paroles» cinematografiche è stato un fatto — ma non perentorio, a dire il vero, e non oggettivamente accertabile — fino a oggi. Ma da qualche anno tale differenziazione sta attuandosi. Si stanno delineando almeno una «lingua della prosa» (differenziata in lingua della prosa narrativa, e lingua della prosa saggistico-documentaria — il «cinèma vérité» ecc.), e una «lingua della poesia». È appunto la possibilità di parlare grammaticalmente con assoluta indifferenza, con gli stessi identici termini, di due prodotti su cui invece il discorso stilistico deve ricorrere a definizioni diverse — a proposito insomma di due fatti così differenziati come il cinema di prosa e il cinema di poesia, — che mi sembra confermata la validità della mia tesi di una «langue» cinematografica come codice codificabile al di là della concreta presenza dei diversi tipi di messaggi cinematografici.

Voglio prendere due piccoli excepta da un film di prosa e da un film di poesia: e analizzarli. Vedremo che l’analisi stilistica può ricorrere a parole e termini diversi e opposti, mentre l’analisi grammaticale ricorre alla stessa identica terminologìa.

Così come l’esame stilistico di un pezzo di poesia, classica o moderna, e di un pezzo di saggistica o narrativa: per quanto diversi siano gli stilemi (e stravaganti fino all’impossibile certi stilemi della poesia contemporanea), i termini sostantivo, aggettivo, verbo, coordinazione, subordinazione ecc. suoneranno indifferentemente per l’analisi grammaticale della prosa e della poesia. Segno certo della presenza del codice linguistico sottostante i messaggi, e loro astrazione.

Passiamo alla proiezione di due sequenzine, quella in prosa da Il tempo si è fermato di Ermanno Olmi, e quella in poesia da Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci.

Bene, il film di Olmi è un film «in prosa», il film di Bertolucci è un film «in poesia».

Del film di Olmi prendiamo l’inizio, un breve tratto.

Non so ancora con quali abitudini si possa fare l’analisi grammaticale e sintattica di un film, ma, secondo quanto ho esposto, cercherò di fare un esperimento tanto forzatamente generico quanto tipico.

Vediamo intanto insieme le prime 11 inquadrature del film.

Come dicevo, la «grammatica» del cinema è una grammatica verticale: essa pesca idealmente sempre nella realtà. Seguiamo dunque tratto per tratto questa linea verticale, tenendo presente che la successione è solo ideale (così come quando uno scolaro fa di un periodo prima l’analisi grammaticale, poi l’analisi logica e poi l’analisi del periodo).

[…]

(1965)

Da Pier Paolo Pasolini, Empirismo critico, Milano, Garzanti, 1991, pp. 198–216

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.