Che cos’è la scrittura?

di Roland Barthes

Mario Mancini
9 min readNov 8, 2020

Da: Il grado zero della scrittura, Parte prima

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I ritagli di Matisse: La Piscine, 1952

Si sa che la lingua è un insieme di norme e di abitudini comune a tutti gli scrittori di una stessa epoca. Quanto dire che la lingua è paragonabile a una Natura che passi nella sua interezza attraverso la parola dello scrittore senza per questo darle alcuna forma o, almeno, alimentarla: è come un cerchio astratto di determinate verità; soltanto al di fuori di esso comincia a depositarsi la densità di un verbo solitario.

Essa racchiude tutta la creazione letteraria press’a poco come il cielo, il suolo e la loro linea di congiunzione disegnano per l’uomo un habitat familiare. E assai più che una riserva di materiale essa è un orizzonte, cioè un limite e un luogo di sosta insieme, in una parola la distesa rassicurante di un’economia.

A rigore lo scrittore non vi attinge niente: la lingua per lui si riduce a una specie di linea la cui trasgressione potrebbe designare una metanatura del linguaggio: è l’area di un’azione, la definizione e l’attesa di un possibile.

Lungi dall’essere il luogo di un impegno sociale, è solo un riflesso senza scelta, la proprietà indivisa dell’umanità e non degli scrittori; resta al di fuori del rituale della Letteratura; è un oggetto sociale per definizione, non per elezione.

Nessuno senza predisposizione può inserire la propria libertà di scrittore nell’opacità della lingua, perché attraverso di essa è la Storia intera che prende consistenza, completa e unita come una Natura.

Cosi per lo scrittore la lingua è solo un orizzonte umano che a distanza dà luogo a una certa familiarità, assolutamente negativa, del resto; dire che Camus e Queneau parlano la stessa lingua significa sottintendere, mediante un’operazione differenziale, tutte le lingue arcaiche o futuristiche che essi non parlano: sospesa tra forme abolite e forme sconosciute, la lingua dello scrittore è più un limite estremo che una base; è il luogo geometrico di tutto quello che egli non potrebbe dire senza perdere, quale Orfeo che si volti indietro, la stabilità di significato della sua andatura e il gesto essenziale della sua potenziale socialità.

La lingua è dunque al di qua della Letteratura. Lo stile ne è quasi al di là: le immagini, il lessico, il periodare di uno scrittore, nascono dalla sua natura fisica e dal suo passato e diventano gradualmente le stesse componenti automatiche della sua arte.

Cosi sotto il nome di stile si forma un linguaggio autarchico che attinge solo nella mitologia personale e segreta dell’autore, in questo stadio ipofisico dell’espressione, dove si forma la prima congiunzione di termini e di cose, dove si stabiliscono una volta per tutte i grandi temi verbali della sua esistenza.

Qualunque sia il suo grado di raffinatezza, lo stile ha sempre qualcosa di bruto: è una forma senza uno scopo, il prodotto di una sollecitazione non di un’intenzione, è come una dimensione verticale e solitaria del pensiero.

I suoi riferimenti sono al livello di una biologia o di un passato, non di una Storia: è l’elemento materiale dello scrittore, il suo splendore e la sua prigione, è la sua solitudine.

Indifferente e trasparente in relazione alla società, comportamento chiuso dell’individuo, lo stile non è affatto il prodotto di una scelta, di una riflessione sulla Letteratura. È la parte privata del rituale, si leva dalle profondità mitiche dello scrittore, e si espande indipendentemente dalla sua responsabilità.

È la voce decorativa di una carne sconosciuta e segreta; funziona come una Necessità; quasi che in questa specie di crescita floreale, lo stile fosse solo il termine di una metamorfosi, cieca e ostinata, elemento di infralinguaggio che si elabora al limite della carne e del mondo.

Lo stile è propriamente un fenomeno di ordine germinativo, è trasmissione di un Umore. Cosi le sue allusioni si diramano in profondità. Il discorso, invece, ha una struttura orizzontale, i cui segreti sono sulla stessa linea dei suoi termini, e ciò che esso nasconde è svelato dalla durata della sua intera estensione: tutto vi è offerto, destinato a un’usura immediata, e il verbo, il silenzio e il loro movimento sono trascinati verso un senso abolito, in un transfert senza traccia e senza ritardo.

Lo stile, al contrario, ha solo una dimensione verticale, affonda nel ricordo circoscritto dell’individuo, compone la sua opacità a partire da una certa esperienza della materia. È solo esclusivamente metafora, cioè equazione tra l’intenzione letteraria e la struttura fisica dell’autore (e si ricordi che la struttura è il deposito di una durata).

Quindi è sempre un segreto. Ma il versante silenzioso del suo riferimento non ha nulla in comune con la mobilità e la continua differibilità del linguaggio; il suo segreto è un ricordo racchiuso nella persona dello scrittore.

La virtù allusiva dello stile non è un fenomeno di velocità, come nel discorso, dove ciò che non è detto resta ugualmente un vuoto del linguaggio, ma un fenomeno di densità, perché quanto ha precisa e profonda consistenza sotto lo stile, raccolto con rigidezza o tenerezza nelle sue figure, è dato dai frammenti di una realtà assolutamente estranea al linguaggio.

Il miracolo di questa trasmutazione fa dello stile una sorta di operazione metaletteraria, che innalza l’uomo alle soglie della potenza assoluta e della magia. Per la sua origine biologica, lo stile si situa al di fuori dell’arte, cioè al di fuori dell’impegno che lega lo scrittore alla società.

È perciò possibile che un autore preferisca la sicurezza dell’arte alla solitudine dello stile. E il vero tipo dello scrittore senza stile è Gide, la cui «maniera» artigianale realizza modernamente un certo ethos classico esattamente come Saint-Saéns ha rifatto Bach, o Poulenc Schubert

All’estremo opposto, la poesia moderna — quella di un Hugo, di un Rimbaud o di uno Char — è satura di stile e non è arte se non in rapporto a un’intenzione di Poesia.

Proprio l’autorità dello stile, quale legame assolutamente libero del linguaggio e del suo equivalente fisico, impone lo scrittore come una Freschezza al di sopra della Storia.

L’orizzonte della lingua e la verticalità dello stile delimitano quindi per lo scrittore una natura, in quanto egli non può scegliere né l’uno né l’altra.

La lingua funziona negativamente, è il limite iniziale del possibile, lo stile è una Necessità che lega l’umore dello scrittore al suo linguaggio.

Là egli trova la familiarità della Storia, qui quella del proprio passato. In ambedue i casi si tratta proprio di una natura, cioè di un insieme familiare e coerente di gesti, dove l’energia è solo di ordine operativo, impiegata qui a decifrare, là a trasformare, mai a giudicare o ad attestare una scelta.

Ora ogni forma è anche Valore; per questo tra lingua e stile c’è posto per un’altra realtà formale: la scrittura. In qualsiasi forma letteraria è richiesta la scelta generale di un tono, di un ethos se si vuole, ed è appunto dove lo scrittore si individua con chiarezza perché è dove si impegna.

Lingua e stile sono il prodotto naturale del Tempo e dell’individuo biologico, ma l’identità formale dello scrittore si precisa con esattezza solo al di fuori del dominio delle regole di grammatica e delle costanti dello stile, là dove il testo nella sua interezza, depositato e racchiuso dapprima in una natura linguistica perfettamente innocente, è destinato a diventare alla fine un segno totale, la scelta di un comportamento umano, l’affermazione di un Bene determinato, impegnando così lo scrittore nell’evidenza o comunicazione di una felicità o di un malessere, e legando la forma regolare e insieme unica della sua parola alla vasta Storia degli altri.

Lingua e stile sono due forze cieche, la scrittura è un atto di solidarietà storica. Lingua e stile sono oggetti, la scrittura è una funzione: è il rapporto tra la creazione poetica e la società, è il linguaggio letterario trasformato dal suo destino sociale, è la forma colta nella sua intenzione umana e legata così alle grandi crisi della Storia.

Per esempio Mérimée e Fénelon sono divisi da fenomeni di lingua e da caratteristiche accidentali di stile, e tuttavia adottano un linguaggio carico di una stessa intenzionalità, fanno appello a una stessa idea della forma e della sostanza, accettano uno stesso ordine di convenzioni, sono sollecitati dai medesimi riflessi tecnici, impiegano insomma con gli stessi gesti, a un secolo e mezzo di distanza, uno strumento identico, senza dubbio un po’ modificato nel suo aspetto ma non nella sua situazione né nel suo uso: in breve essi hanno una stessa scrittura.

Al contrario, quasi contemporanei, Mérimée e Lautréamont, Mallarmé e Céline, Gide e Queneau, Claudel e Camus, che hanno parlato o parlano la nostra lingua a un medesimo stadio storico, usano scritture profondamente diverse; tutto le divide: il tono, l’andamento, il fine, la morale, il carattere del loro discorso, in modo che la comunanza di epoca o di lingua è ben poca cosa di fronte a scritture così opposte e così ben definite dalla loro stessa opposizione.

Queste scritture sono in effetti diverse ma paragonabili, perché sono il risultato di un identico movimento, dato dalla riflessione dello scrittore sulla funzione sociale della propria forma, e dalla responsabilità che egli assume scegliendola.

Al centro della problematica letteraria che comincia solo con essa, la scrittura è dunque essenzialmente la morale della forma, è la scelta dell’area sociale nel cui ambito lo scrittore decide di situare la Natura del proprio linguaggio.

Ma quest’area sociale non è affatto quella di un’effettiva consumazione. Non si tratta cioè di scegliere il gruppo sociale per cui scrivere, perché lo scrittore sa bene che, salvo il caso di una rivoluzione, ciò può essere unicamente per un solo tipo di società.

La sua scelta è di coscienza non d’efficacia. La sua scrittura è un modo di pensare la Letteratura, non di divulgarla. O meglio ancora: appunto perché lo scrittore non può modificare affatto i dati obiettivi della consumazione letteraria (anche se ne ha coscienza questi dati puramente storici gli sfuggono) egli riconduce di proposito l’esigenza di un linguaggio libero alle sorgenti di questo linguaggio e non al termine della sua commerciabilità.

Cosi la scrittura è una realtà ambigua: da una parte essa nasce incontestabilmente da un confronto tra lo scrittore e la società, dall’altra, da questa finalità sociale, essa rinvia lo scrittore, mediante una sorta di tragico transfert, alle sorgenti strumentali della sua creazione.

Nell’impossibilità di fornirgli un linguaggio liberamente consumato, la Storia gli propone l’esigenza di un linguaggio liberamente prodotto.

Perciò la scelta in primo luogo, e quindi la responsabilità di una scrittura, designano una Libertà, ma questa Libertà ha diversi confini nei diversi momenti della Storia.

Allo scrittore non è concesso di scegliere la propria scrittura come in un arsenale delle forme letterarie, fuori del tempo. Le scritture possibili di un dato scrittore si definiscono sotto la pressione della Storia e della tradizione; anzi, c’è una Storia della scrittura, ma questa storia ha due aspetti: nel momento stesso in cui la Storia generale propone — o impone — una nuova problematica del linguaggio letterario, la scrittura resta ancora piena del ricordo dei propri precedenti usi, perché il linguaggio non è mai innocente: le parole hanno una seconda memoria che si prolunga misteriosamente pur nell’evidenza dei nuovi significati.

La scrittura è precisamente questo compromesso tra un atto di libertà e un ricordo, è quella libertà piena di ricordi che non è libertà se non nell’attimo della scelta, ma già non più nella sua durata. Io oggi posso senza dubbio scegliermi tale o tal altra scrittura e in questo gesto affermare la mia libertà, pretendere a una ingenuità o a una tradizione, ma io stesso non posso già più svilupparla in una durata senza diventare, a poco a poco, prigioniero delle parole altrui e persino delle mie.

Un residuo ostinato, derivato da tutte le scritture precedenti e dallo stesso passato della mia scrittura, copre l’attuale voce delle mie parole. Ogni traccia scritta precipita come un elemento chimico dapprima trasparente, neutro e innocente, nel quale la sola durata fa sì che a poco a poco si veda tutto un passato in sospensione, tutta una crittografìa sempre più densa.

Come Libertà, la scrittura è dunque appena un momento. Ma questo momento è tra i più espliciti della Storia, perché la Storia è sempre prima di tutto una scelta e i limiti di questa scelta.

E perché la scrittura deriva da un gesto significativo dello scrittore, la Storia ne affiora molto più sensibilmente che da qualsiasi altro settore della Letteratura.

L’unità della scrittura classica, omogenea per secoli, la pluralità delle scritture moderne — moltiplicatesi da cento anni fino al limite dello stesso fatto letterario — questa specie di esplosione della scrittura francese corrisponde proprio a una grande crisi della Storia nella totalità, visibile in un modo molto più confuso nella Storia letteraria propriamente detta.

Ciò che differenzia il pensiero di un Balzac da quello di un Flaubert è una variazione di scuola; ciò che contrappone la loro scrittura è una rottura essenziale, nel momento stesso in cui due strutture economiche divergono, implicando nella loro articolazione mutamenti decisivi di mentalità e di coscienza.

Fonte: Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Milano, Lerici editore, 1960, pp. 81–88.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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