Bergson: materia e memoria
La rappresentazione dell’oggetto
Presentazione
L’argomento è l’insanabile conflitto che il pensiero astratto introduce nel processo di identificazione della materia e dello spirito. Due realtà, cioè, che la riflessione filosofica concepisce in una modalità identica. Idealismo e realismo sono le forme «filosofiche di questa identità-opposizione.
Per uscire da questa falsa opposizione Bergson prende la strada dalla percezione. E in questo luogo che Bergson tenta un’uscita dalle categorie dualistiche che ancora oppongono il colpo allo spirito.
Corpo e spirito sono differenze reali, non concetti e solo in questo modo è possibile trovare la strada della memoria che trova l’unità effettiva che costituisce il mondo.
Da: Fulvio Papi, Filosofia contemporanea, Zanichelli, Bologna, 1996, pp.268–271
Henri Bergson: materia e memoria
Questo libro sostiene la realtà dello spirito, la realtà della materia, e si propone di determinare il rapporto su un esempio preciso, quello della memoria. E dunque nettamente dualista.
Ma, d’altra parte, il corpo e lo spirito vengono qui considerati con la speranza di riuscire ad attenuare molto, se non a eliminare, le difficoltà teoriche che il dualismo ha sempre sollevato e che fanno sì che, sebbene sia suggerito dalla coscienza immediata e adottato dal senso comune, goda di una così scarsa stima presso i filosofi.
La maggior parte di queste difficoltà deriva dalla concezione, ora realistica, ora idealistica, che ci facciamo della materia. L’oggetto del nostro primo capitolo consiste nel mostrare che l’idealismo e il realismo sono due tesi ugualmente eccessive, e che è altrettanto sbagliato sia il ridurre la materia alla rappresentazione che ne abbiamo, sia il farla diventare una cosa che produrrebbe in noi delle rappresentazioni, ma che sarebbe di altra natura rispetto ad esse.
Per noi la materia è un insieme di «immagini»[1]. E per «immagine» intendiamo una determinata esistenza che è più di ciò che l’idealista chiama una rappresentazione, ma meno di ciò che il realista chiama una cosa, — un’esistenza che si trova a metà strada tra la «cosa» e la «rappresentazione».
Questa concezione della materia è semplicemente quella del senso comune. Se a una persona estranea alle speculazioni filosofiche dicessimo che l’oggetto che ha dinnanzi, l’oggetto che vede e tocca, esiste solo nel suo spirito e per il suo spirito, o anche, come pretendeva Berkeley, che esso, più in generale, esiste solo per uno spirito, desteremmo in lui un grande stupore.
Il nostro interlocutore continuerebbe a sostenere che l’oggetto esiste indipendentemente dalla coscienza che lo percepisce. Ma, d’altra parte, questo interlocutore rimarrebbe altrettanto stupito se gli dicessimo che l’oggetto è completamente differente da ciò che si percepisce, che non ha né il colore che gli attribuisce l’occhio, né la resistenza che la mano incontra.
Per lui, questo colore e questa resistenza sono nell’oggetto: non sono stati del nostro spirito, ma gli elementi costitutivi di un’esistenza indipendente dalla nostra.
Per il senso comune l’oggetto esiste quindi in se stesso e, d’altra parte, è pittoresco in se stesso così come noi lo scorgiamo: è un’immagine, ma un’immagine che esiste in sé.
Questo è precisamente il senso con cui usiamo la parola «immagine» nel nostro primo capitolo. Ci poniamo dal punto di vista di uno spirito che ignorasse le discussioni tra i filosofi. Esso crederebbe naturalmente che la materia esiste così come la percepisce; e poiché la percepisce come immagine, ne farebbe, in se stessa, un’immagine. In breve, noi consideriamo la materia prima della dissociazione tra esistenza e apparenza che l’idealismo e il realismo hanno operato su di essa.
Senza dubbio, da quando i filosofi hanno stabilito questa dissociazione, è diventato difficile evitarla. E tuttavia noi chiediamo al lettore di dimenticarla.
[…] Il giorno in cui Berkeley stabilì, contro i «mechanical philosophers», che le qualità secondarie della materia hanno per lo meno altrettanta realtà delle qualità primarie, fu realizzato un grande progresso in filosofia. Il suo torto fu quello di credere che per questo fosse necessario trasportare la materia all’interno dello spirito e farla diventare una pura idea. Senza dubbio, confondendola con l’estensione geometrica, Descartes aveva collocato la materia troppo lontano da noi. Ma per avvicinarla, non c’era affatto bisogno di farla coincidere con il nostro stesso spirito.
Essendosi spinto fin qui, Berkeley si trovò nell’impossibilità di rendere conto del successo della fisica e obbligato a ritenere l’ordine matematico dell’universo un puro accidente, mentre Descartes aveva visto nelle relazioni matematiche tra i fenomeni la loro stessa essenza. La critica kantiana divenne allora necessaria per dar ragione di questo ordine matematico e per restituire un fondamento solido alla nostra fisica — cosa che d’altra parte poté essere realizzata solo limitando la portata dei nostri sensi e del nostro intelletto.
Ma la critica kantiana, per lo meno su questo punto, non sarebbe stata necessaria, così come, per lo meno in questa direzione, lo spirito umano non sarebbe stato condotto a limitare la propria portata e la metafisica non sarebbe stata sacrificata alla fisica, se si fosse presa la decisione di lasciare la materia a metà strada tra il punto in cui la spingeva Descartes e quello verso cui la attirava Berkeley, se, insomma, la si fosse lasciata là dove la vede il senso comune.
Ed è proprio qui che anche noi cerchiamo di vederla.
Nel primo capitolo definiamo questo modo di considerare la materia, mentre nel quarto ne traiamo le conseguenze.
Ma, come abbiamo preannunciato, la questione della materia viene qui trattata solo nella misura in cui riguarda il problema che viene affrontato nel secondo e nel terzo capitolo di questo libro, e cioè il vero e proprio oggetto del presente studio: il problema della relazione tra lo spirito e il corpo[2].
Questa relazione, sebbene abbia costituito costantemente un problema nella storia della filosofia, in realtà è stata pochissimo studiata. Se si tralasciano le teorie che si limitano a constatare l’«unione tra l’anima e il corpo» come un fatto irriducibile e inspiegabile, e quelle che parlano in modo vago del corpo come di uno strumento dell’anima, sulla relazione psicofisiologica non resta quasi nessun’altra concezione al di là dell’ipotesi «epifenomenista» o dell’ipotesi « parallelista», che nella pratica — intendendo con ciò l’interpretazione dei fatti particolari — pervengono alle stesse conclusioni.
[…] A dire il vero questo è proprio ciò che più comunemente viene ammesso sia dai filosofi che dagli scienziati. Ma sarebbe comunque il caso di chiedersi se esaminati senza pregiudizi, i fatti suggeriscano realmente un’ipotesi di questo genere. Che lo stato di coscienza e il cervello siano solidali, è un fatto incontestabile. Ma c’è solidarietà anche tra l’abito e il chiodo a cui è appeso, poiché, se togliamo il chiodo, l’abito cade.
Per questo si dirà forse che la forma del chiodo delinea quella dell’abito o che in qualche modo ci permette di prevederla? Così, che il fatto psicologico sia attaccato a uno stato cerebrale non ci può far trarre la conclusione di un «parallelismo» tra le due serie, psicologica e fisiologica.
Quando la filosofia pretende di basare questa tesi sui dati della scienza, fa un vero e proprio circolo vizioso: e infatti, se la scienza interpreta la solidarietà — che è un fatto — nel senso del parallelismo — che è un’ipotesi e per di più assai poco intelligibile — ciò è dovuto, consciamente o inconsciamente, a ragioni d’ordine filosofico.
Perché da un certo tipo di filosofia è stata abituata a credere che non esista un’ipotesi più plausibile, più conforme agli interessi della scienza positiva. Ora, non appena domandiamo ai fatti delle indicazioni precise per risolvere il problema, ci troviamo trasposti sul terreno della memoria.
E c’era da aspettarselo, dal momento che — come cerchiamo di dimostrare in quest’opera — il ricordo rappresenta precisamente il punto di intersezione tra lo spirito e la materia.
Ma la ragione di ciò non ha molta importanza: credo che nessuno possa contestare che nell’insieme dei fatti in grado di fare un po’ di luce (sulla relazione psicofisiologica), quelli che concernono la memoria, sia allo stato normale che allo stato patologico, occupino un posto privilegiato.
Non solo qui i documenti sono di un’abbondanza estrema (si pensi solamente all’incredibile quantità di osservazioni raccolte sulle diverse afasie), ma in nessun altro caso come in questo l’anatomia, la fisiologia e la psicologia sono riuscite a soccorrersi vicendevolmente così bene. Ben presto, a colui che accosti senza idee preconcette, sul terreno dei fatti, il vecchio problema dei rapporti tra l’anima e il corpo, quest’ultimo gli sembrerà convergere tutto sulla questione della memoria, e più particolarmente sulla memoria delle parole: è da qui, infatti, che senza alcun dubbio dovrà sorgere la luce in grado di illuminare i lati più oscuri del problema[3] Si vedrà come cerchiamo di risolverlo noi.
In generale, ci sembra che nella maggior parte dei casi lo stato psicologico debordi di gran lunga dallo stato cerebrale. Voglio dire che lo stato cerebrale non ne delinea che una piccola parte, quella che riesce a tradursi grazie a dei movimenti di locomozione. Provate a prendere un pensiero complesso che si svolga in una serie di ragionamenti astratti. Questo pensiero viene affiancato da una rappresentazione d’immagini, per lo meno allo stato nascente.
E queste stesse immagini non si rappresentano alla coscienza, senza che i movimenti attraverso i quali potrebbero giocarsi a loro volta nello spazio, attraverso i quali cioè imprimerebbero al corpo questo o quell’atteggiamento e libererebbero tutto il movimento spaziale che esse contengono implicitamente, non si delineino allo stato di abbozzo o di tendenza.
Ecco, a nostro avviso, che cosa indica in ogni istante lo stato cerebrale di questo pensiero complesso che si svolge. Probabilmente, se uno potesse penetrare all’interno di un cervello, e scorgere ciò che vi accade, verrebbe informato su questi movimenti abbozzati o preparati; e nulla prova che verrebbe informato su qualcos’altro.
E anche se fosse dotato di un’intelligenza sovrumana, anche se possedesse la chiave della psicofisiologia, su ciò che si svolge nella coscienza corrispondente, non potrebbe ricevere che quegli scarsi schiarimenti che l’andare e il venire degli attori sulla scena ci fornirebbero su un’opera teatrale.
Il che significa che il rapporto tra il mentale e il cerebrale non è costante più di quanto non sia semplice. A seconda della natura dell’opera rappresentata, i movimenti degli attori ci informano più o meno su di essa: quasi del tutto, se si tratta di una pantomima; quasi per nulla, se l’opera è una raffinata commedia.
Nello stesso modo, il nostro stato cerebrale contiene il nostro stato mentale in misura maggiore o minore, a seconda che tendiamo a esteriorizzare in azione o a interiorizzare in conoscenza pura la nostra vita psicologica. Esistono quindi differenti toni della vita mentale, e la nostra vita psicologica può giocarsi a differenti altezze, ora più vicino, ora più lontano dall’azione, secondo i gradi della nostra attenzione alla vita[4]. È questa una delle idee direttrici della presente opera, proprio quella stessa che ci è servita come punto di partenza.
[…] All’inizio delle nostre ricerche, noi non avremmo creduto che a proposito dell’esistenza o dell’essenza della materia, potesse esistere una qualche connessione tra l’analisi del ricordo e le questioni che si dibattono tra realisti e idealisti, o tra meccanicisti e dinamisti. E tuttavia tale connessione è reale: è persino intima; e tenendone conto, un problema metafisico decisivo si trova ad essere trasposto sul terreno dell’osservazione in cui, invece di alimentare indefinitamente le dispute tra le scuole nel campo chiuso della pura dialettica, potrà essere progressivamente risolto.
La complessità di alcune parti della presente opera deriva dall’inevitabile intrico di problemi che si produce allorché si affronta la filosofia da questa angolatura.
Crediamo però, che se non si abbandonano i due principi che abbiamo preso noi stessi come filo conduttore di queste ricerche, non sarà difficile attraversare questa complessità, che deriva dalla complessità stessa della realtà. Il primo di questi principi consiste nel fatto che l’analisi psicologica deve orientarsi senza posa sul carattere utilitario[5] delle nostre funzioni mentali, essenzialmente rivolte verso l’azione.
Il secondo consiste nel fatto che, risalendo nella sfera della speculazione, le abitudini contratte nell’azione vi creano dei problemi fittizi, nel fatto che la metafisica deve cominciare col dissipare queste oscurità artificiali.
da H. Bergson, Materia e memoria, in Opere 1889–1896, Mondadori, Milano, 1986, pp. 143–150
[1] La materia, vista dalla filosofia, è secondo Bergson un concerto, un astratto, fonte di percezioni sensoriali, che se legate più profondamente al pensiero, alla memoria, si connotano qualitativamente.
[2] La differenza tra «cosa» e «rappresentazione della cosa» porrebbe una distinzione tra piano corporeo e piano mentale, nel tentativo, per Bergson insensato, di tradurre ciò che costitutivamente è altro, in un’immagine che raddoppia il solo astratto senza prendere in considerazione la materia nella sua realtà.
[3] Jakobson ha condotto, in anni posteriori le analisi di Bergson, studi rivolti alle relazioni profonde tra pensiero e linguaggio. L’afasia, come già intuisce Bergson è una patologia della memoria dei nomi, della forma cioè attraverso la quale il pensiero organizza la realtà.
[4] Il pensiero è qualitativo, come i mo- ti interiori della coscienza.
[5] Le differenze si rapportano a toni, sfumature e non ad oggettività quantificabili. Mente e corpo funzionano in una sintonia perfetta, che consente all’individuo la solidarietà tra interno ed esterno. La distinzione, rileva Bergson, è comunque a posteriori, astratta poiché l’individuo non è se non nell’unità del suo essere.