Bergson: il razzo creatore

Vita, intelligenza, intuizione nell’esperienza umana

Mario Mancini
8 min readFeb 12, 2025

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Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912, Albright–Knox Art Gallery, New York

Presentazione

Rispetto alle teorie evoluzioniste di stampo positivista che vedono l’uomo come entità animale derivante da un complessivo disegno della natura. Bergson, attraverso la metafora del «razzo creatore» delinea i tratti di un cammino della vita tutto interno.

L’evoluzione creatrice dispiega la propria forza trasformando la materia. A volte, come nel caso delle specie non evolute, i molluschi ad esempio, essa ricade su se stessa senza possibilità dì ulteriori trasformazioni o evoluzioni: altre volte. come nel caso dell’uomo, raggiunge il proprio intento dando vita ad un’entità autonoma che si manifesta nella forma della libertà.

Le specie animali sono imprigionate alle loro risposte istintuali ad una forma della vita riproduttiva, che continua a riavvolgersi su quanto è già conosciuto. Solo l’uomo, dotato d’intelligenza e d’intuizione, è in grado di elaborare autonomamente le istanze creative ottenendo, attraverso il sociale, forme di rito per lui sempre più favorevoli.

La scienza basata sull’intelligenza, sulla capacità cioè di trovare strutture astratte, leggi universali per la comprensione della natura e la capacità intuitiva, trasformativa della materia, operano in un connubio. La coscienza, quale elemento di raccordo, consente all’uomo l’uscita dalla ripetizione nella comprensione di nuovi disegni cosmici, nell’invenzione di nuove relazioni e di nuovi ordini di realtà.

Da: Fulvio Papi, Filosofia contemporanea, Zanichelli, Bologna, 1996, pp. 272–275

Henri Bergson: L’evoluzione creatrice

All’origine della vita sta la coscienza, o, per meglio dire, la supercoscienza. Coscienza o supercoscienza è il razzo i cui frammenti spenti ricadono in materia; coscienza è ciò che permane del razzo stesso, che attraversa i frammenti e li illumina in organismi. Ma tale coscienza, che è un’esigenza di creazione, si rivela a se medesima solo là dove la creazione è possibile. Si assopisce quando la vita è condannata all’automatismo: si risveglia appena rinasce la possibilità di una scelta. […]

Come si deve intendere tale relazione tra l’organismo e la coscienza? […] Un essere vivente è un centro d’azione: rappresenta una certa somma di contingenza introducentesi nel mondo, ossia una certa quantità di azione possibile, quantità variabile con gli individui e soprattutto con le specie. Il sistema nervoso d’un animale disegna le linee flessibili sulle quali correrà la sua azione […]; i suoi centri nervosi indicano, con il loro sviluppo e la loro conformazione, la scelta più o meno vasta che esso ha tra azioni più o meno numerose e complesse.

Ora poiché, in un essere vivente, il risveglio della coscienza è tanto più completo quanto più vasto è il suo potere di scelta e più considerevole la quantità di azione di cui esso dispone, non è meraviglia che lo sviluppo della coscienza sembri modellarsi su quello dei centri nervosi. Siccome, d’altra parte, ogni stato di coscienza è, da un certo punto di vista, una domanda rivolta all’attività motrice e financo un principio di risposta, non c’è fatto psichico che non implichi l’intervento dei meccanismi corticali. Tutto lo sembra. procedere, pertanto, come se la coscienza scaturisse dal cervello e come se le particolarità. dell’attività cosciente si modellassero su quelle dell’attività cerebrale. In realtà, la coscienza non scaturisce dal cervello; ma cervello e coscienza si corrispondono, perché misurano egualmente — l’uno con la complessità della sua struttura, l’altra con l’intensità del suo risveglio — la quantità di scelta di cui l’essere vivente dispone.

Appunto perché uno stato cerebrale esprime soltanto quanto c’è di azione nascente nello spazio psichico corrispondente, lo stato psichico ha maggior valore dello stato cerebrale. La coscienza d’un essere vivente è solidale col cervello nel senso in cui un coltello acuminato è solidale con la sua punta: il cervello è la punta acuta, con la quale la coscienza penetra nel tessuto compatto degli eventi, ma non è maggiormente coestensivo alla coscienza di quanto non lo sia la punta rispetto al coltello[1]. […]

Radicale è altresì la differenza tra la coscienza dell’animale, anche il più intelligente, e la coscienza umana. La coscienza, infatti, è proporzionale alla capacità di scelta di cui l’essere vivente dispone; è coestensiva alla frangia di azione possibile che circonda l’azione reale; è sinonimo di inventività e di libertà.

Ora, nell’animale, l’invenzione è soltanto una variazione sul tema dell’abitudine. Chiuso nelle abitudini della specie, l’animale riesce, senza dubbio, ad allargarne i limiti con la propria iniziativa individuale, ma si sottrae all’automatismo per un istante solo: quello necessario per creare un automatismo nuovo. Appena aperte, le porte della sua prigione si richiudono. Tirando la sua catena esso riesce solo ad allungarla.

Con l’uomo, invece, la coscienza spezza la catena. Nell’uomo, e nell’uomo soltanto, essa si libera. Fino a lui, tutta la storia della vita era stata quella di uno sforzo della coscienza per sollevare la materia e di uno schiacciamento più o meno completo della coscienza da parte della materia ricadente su di essa. L’impresa era paradossale — se pur in questo caso si può parlare, fuor che per metafora, di «sforzo» e di «impresa». Si trattava di creare con la materia. che è sinonimo di necessità, uno strumento di libertà, di costruire un meccanismo che trionfasse del meccanicismo, di servirsi del determinismo naturale per passare attraverso le maglie della rete che esso aveva tesa[2].

Dovunque, fuor che nell’uomo, la coscienza si è lasciata prendere alla rete attraverso le cui maglie voleva passare; è rimasta prigioniera dei meccanismi, che essa stessa aveva costruiti.

L’automatismo, di cui essa pretendeva servirsi ai fini della libertà, la avviluppa e la incatena. Essa non ha la forza di affrancarsene, perché l’energia, da essa accumulata per l’azione, viene quasi tutta impiegata nello sforzo di conservare l’equilibrio infinitamente sottile ed essenzialmente instabile, a cui essa ha condotto la materia.

L’uomo, invece, non solo conserva la propria macchina, ma riesce a servirsene come gli piace. Ciò egli lo deve, senza dubbio, alla superiorità del suo cervello, che gli permette di costruire un numero illimitato dì meccanismi motori, di contrapporre continuamente nuove abitudini alle antiche e di dominar l’automatismo, opponendolo a lui stesso. Lo deve al linguaggio, che fornisce alla coscienza un corpo immateriale in cui incarnarsi, affrancandola così dall’obbligo di fissarsi esclusivamente sui corpi materiali, il cui flusso prima la travolgerebbe, poi lo inghiottirebbe. Lo deve alla vita sociale, che immagazzina e conserva gli sforzi degli individui debbono tutti innalzarsi e, con questa eccitazione iniziale, impedisce ai mediocri dì assopirsi e stimola i migliori a salire più in alto, Ma il nostro cervello, il nostro linguaggio e la nostra società sono soltanto segni esteriori diversi di una sola e medesima superiorità interna.

Essi esprimono, ciascuno a suo modo, la vittoria unica, eccezionale che la vita ha riportato in un certo momento della sua evoluzione; simboleggiano la differenza di natura, e non di grado, che distingue l’uomo dal resto dell’animalità; ci permettono d’indovinare che, mentre tutti gli altri esseri, giunti all’estremità del largo trampolino su cui la vita ha preso lo slancio, si sono arrestati, trovando la corda troppo alta, solo l’uomo ha saltato l’ostacolo.

È in questo senso tutto particolare che l’uomo può essere considerato il «termine» e il «fine» dell’evoluzione. La vita trascende la finalità, come qualsiasi altra categoria; è essenzialmente una corrente lanciata attraverso la materia, che si sforza dì ricavarne quanto può. Non c’è stato, quindi, a rigor di termini, né progetto né piano[3]. D’altra parte, è evidente che il resto della natura non è stato coordinato all’uomo: noi lottiamo al pari delle altre specie, abbiamo lottato contro le altre specie. Infine, se l’evoluzione della vita avesse, nel suo cammino, urtato contro altri ostacoli, se, di conseguenza, la corrente della vita si fosse divisa in altro modo. noi saremmo stati fisicamente e moralmente assai diversi da quello che siamo. Per queste diverse ragioni, sarebbe errato considerare l’umanità, quale si offre oggi al nostro sguardo, come già preformata nel movimento evolutivo.

Non si può neppur dire che essa rappresenti il termine dell’evoluzione interna, perché l’evoluzione si è effettuata su più linee divergenti e, se all’estremità di una di queste è la specie umana, altre linee sono state seguite da altre specie. È in un senso ben diverso che consideriamo l’umanità come la ragion d’essere dell’evoluzione. A noi la vita, nel suo insieme, appare come un’onda immensa che si sia propagata a partire da un centro e che, su quasi tutta la sua circonferenza, si sia arrestata: in un punto solo l’ostacolo è stato forzato e l’impulso è passato liberamente. Da per tutto, fuor che nell’uomo, la coscienza ha finito con l’arrestarsi come in una gola chiusa; solo con l’uomo ha proseguito il suo cammino. […]

Nell’uomo, la coscienza è soprattutto intelligenza: avrebbe dovuto, avrebbe potuto essere anche intuizione. Intuizione e intelligenza rappresentano due direzioni opposte dell’attività cosciente: la prima, procede nel senso stesso della vita; la seconda, in senso inverso, e, come tale, è naturalmente regolata sul movimento della materia. Un’umanità compiuta e perfetta sarebbe quella in cui tali forme dell’attività cosciente raggiungessero ambedue il loro pieno sviluppo.

Tra una umanità così fatta e la nostra si posson, del resto, concepire molti gradi intermedi, corrispondenti a tutti i gradi immaginabili dell’intelligenza e dell’intuizione. In ciò sta la parte di contingenza propria della struttura mentale della nostra specie. Un’evoluzione diversa avrebbe potuto condurre a un’umanità o ancor più intellettiva o più intuitiva.

Di fatto, nell’umanità di cui facciam parte, l’intuizione è quasi completamente sacrificata all’intelligenza. Sembra che la coscienza abbia consumato il meglio della sua forza nella lotta per conquistar la materia e per riconquistare se stessa. Tale conquista, date le condizioni particolari in cui si è effettuata, esigeva che la coscienza si adattasse alle abitudini della materia e concentrasse su questa la propria attenzione: ossia, che si determinasse specialmente come intelligenza,

Tuttavia, l’intuizione sussiste sempre, ancorché vaga e, soprattutto, discontinua, simile a una lampada quasi spenta, che si rianimi solo a tratti, per brevi istanti. E si rianima, in sostanza, ogni qualvolta un interesse vitale è in giuoco[4].

Sulla nostra personalità, la nostra libertà, il posto che occupiamo nell’universo, sulla nostra origine e fors’anche sul nostro destino, essa getta una luce debole e oscillante, ma che vale a rompere l’oscurità della notte in cui ci lascia l’intelligenza.

da H. Bergson, L’evoluzione creatrice, trad. italiana di P. Serini, U.T.E.T., Torino, 1971, pp. 199–207 e passim)

[1] Bergson non può che esprimersi attraverso metafore. Il razzo, metafora della forza creatrice che investe l’universo, «il coltello solidale con la propria punta» per spiegare e rendere chiara la relazione esistente tra cervello, elemento fisico e coscienza, elemento spirituale.

[2] L’uomo spezza la ripetitività dell’istinto che porta l’animale ad agire in modo sempre identico. L’uomo continua invece a mutare il proprio orizzonte di comprensione della realtà, e in base alle nuove comprensioni ricompone e ristruttura le proprie forme di vita.

[3] Bergson esprime qui la convinzione che tutto nella natura proceda non attraverso un disegno, un piano cosmico, una finalità, ma che la vita si manifesti nell’immediato e quindi attraverso i risultati positivi che ottiene dalla trasformazione della materia.

[4] Intelligenza e intuizione sono i due poli che per Bergson caratterizzano il modo, le forme attraverso le quali l’uomo è in grado di leggere il mondo. Il loro connubio consente una comprensione filosofica della realtà, rivalutata da Bergson, rispetto al Positivismo, come analisi precipua delle forme della coscienza.

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Mario Mancini
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Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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