Elsa Morante, compagna di cella di Maddalena, con ina mano un fotoromanzo in un cameo di Accattone.

BALILLA (patetico) Aricordete, Accattò! Tutti nascemo co ’na vocazione! Io so’ nato co’ l’istinto de fà er ladro, e ecchime qua… e tu non sei nato co’ l’istinto de fà er pappa, ma l’accattone, e eccote là!

Cartagine: ’A Accatò, ’a Accatò… che ciài… che ti senti?

Accattone: Ahah, mo’ sto bene…

“Io sapevo, sentivo, che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso, un senso vago e generale della parola, e allora questo aggettivo, ‘sacro’, l’ho aggiunto con la musica [di Bach]”.

Pier Paolo Pasolini

Pasolini ha realizzato, con la più opaca delle materie, un’opera di poesia.

Carlo Levi

Pier Paolo Pasolini

SENSO DI UN PERSONAGGIO IL PARADISO DI ACCATTONE
Proprio ieri sono andato a scegliere il posto dove girare le ultime inquadrature di Accattone. Fuori Roma, verso le montagne e le vallate del Lazio meridionale, e, precisamente, tra Subiaco e Olevano: ma era soprattutto su Olevano, che puntavo, come luogo dipinto da Corot. Ricordavo le sue montagne leggere e sfumate, campite come tanti riquadri di sublime, aerea garza contro un cielo del loro stesso colore. Dovevo scegliere una vallata che, in un sogno di Accattone — verso la fine del film, poco prima della sua morte — raffigurasse un rozzo e corposo paradiso. Insomma, Accattone non soltanto muore, ma va in Paradiso. Qualcuno dirà: ma questo è il colmo! Non soltanto dopo la «conversione» di Tommasino, P.P.P. ci dà un film in cui conversioni (dallo stato sottoproletario allo stato proletario e alla lotta di classe) non ce n’è, ma addirittura un film in cui si avalla «l’integrazione figurale» dello stato tradizionale e cattolico per eccellenza.

E non avrebbe torto a scandalizzarsi se le cose stessero proprio così. In realtà la «crisi» di Accattone è una crisi totalmente individuale: si compie non solo nell’ambito della sua irriflessa e inconscia personalità, ma nell’ambito della sua irriflessa e inconscia condizione sociale. Se per caso io non avessi avuto l’idea di parlare di questa crisi, essa sarebbe passata ignota a sé e agli altri come un fenomeno meteorologico in qualche zona desertica, come una frana nel cuore di qualche vulcano.

Ma, visto che tale caso (cioè la mia presenza dentro quell’anima ignota) si è dato, il fatto avrà pure qualche senso, sfuggirà pure in qualche modo alla sua casualità. È proprio necessario, anzitutto, che l’analisi di un male finisca con una terapia «pratica»? Io non sono un politico o un sociologo: ma uno scrittore. La terapia di uno scrittore differisce da quella di un politico o di un sociologo, in quanto essa fa intima parte di quell’analisi, è inscindibile da essa, ne è un elemento integrante. In altre parole la cura e la speranza implicite nell’analisi sociale di uno scrittore sono la sua «espressione»: quanto più questa è pertinente e poetica, tanto meno ha bisogno di integrazioni didattiche, didascaliche, edificanti ecc.

Con questo non voglio affatto negare che si possa prospettare anche qual è in pratica la via della lotta e della speranza: è quello che ho fatto in Una vita violenta. Ma la storia di Tommaso avveniva subito dopo i fatti di Ungheria, nel momento cioè in cui uno stato terribile di crisi annunciava albeggianti e luminose soluzioni: il rovesciamento dell’epoca staliniana, un rinnovamento interno e fecondo dei Partiti comunisti. Era un’epoca della mia vita in cui io, come scrittore, non potevo non tenere sempre costantemente presente quella prospettiva di cui parlavo e quindi questa non poteva non far parte immanente e continua della mia ispirazione. La storia di Accattone invece è più breve: ha la durata di un’estate, che è quella del governo Tambroni. Tutto, nella mia nazione, in quei mesi, pareva riprecipitato nelle sue eterne costanti di grigiore, di superstizione, di servilismo e di inutile vitalità.

È in questo momento che io mi sono affacciato a guardare quello che succedeva dentro l’anima di un sottoproletario della periferia romana (insisto a dire che non si tratta di una eccezione ma di un caso tipico di almeno metà Italia): e vi ho riconosciuto tutti gli antichi mali (e tutto l’antico, innocente bene della pura vita). Non potevo che constatare: la sua miseria materiale e morale, la sua feroce e inutile ironia, la sua ansia sbandata e ossessa, la sua pigrizia sprezzante, la sua sensualità senza ideali, e, insieme a tutto questo, il suo atavico, superstizioso cattolicesimo di pagano.

Perciò egli sogna di morire e di andare in Paradiso. Perciò soltanto la morte può «fissare» un suo pallido e confuso atto di redenzione. Non c’è altra soluzione intorno a lui, come intorno a un enorme numero di persone simili a lui. È molto, ma molto più raro, un caso come quello di Tommasino che un caso come quello di Accattone. Con Tommasino ho dato un dramma, con Accattone ho dato una tragedia: una tragedia senza speranza, perché mi auguro che pochi saranno gli spettatori che vedranno un significato di speranza nel segno della croce con cui il film si conclude.

Da Accattone-Mamma Roma-Ostia, Milano Garzanti, 1993

Carlo Levi

Ho visto Accattone, il film di Pier Paolo Pasolini, appena montato, ancora prima delle ultime rifiniture, degli ultimi tagli, di quel lavoro di minuta revisione che, eseguito di lì a poco dall’autore, lo ha portato a compiutezza.

Ho avuto l’immediata certezza di trovarmi di fronte a un’opera singolare e importante, che pone dei problemi di linguaggio e di tecnica espressiva, e costringe a meditarli, che si può considerare e analizzare con gli stessi criteri di un libro o di un quadro, perché, ed è quello che più conta, è, con chiara evidenza, l’opera di un poeta.

Anzitutto colpisce la sua autenticità diretta, che non viene soltanto dalla scelta dei personaggi veri, e dal modo piano e naturale della narrazione, ma da una identificazione che non consente diaframmi estetizzanti. Avevo visto alcuni dei film così detti pasoliniani, cioè quelli che hanno utilizzato elementi dei suoi libri e del suo mondo e ai quali anche Pasolini ha dato un contributo come soggettista o sceneggiatore. Accattone non somiglia ad essi, non è pasoliniano. Perché quel mondo poetico (o, in se stesso, come materia, antipoetico) che è il contenuto della intuizione di Pasolini, non diventa qui mai esterno, ornamentale, né si devia in spettacolo o erotismo, ma si esprime in modo necessario, e trova un suo linguaggio.

Il linguaggio espressivo è il problema fondamentale di quest’opera. Il mondo di Accattone è un mondo precedente al linguaggio. Un sottoproletariato di uomini non ancora entrati nell’esistenza e nella coscienza. È il mondo delle borgate, accampato attorno alla città, in attesa eterna di entrarvi, respinto nel suo limbo dalle cose, dalla loro violenza ed offesa, e da se stesso, dalla sua estrema debolezza, prima e fuori dei drammi della libertà. La parola espressiva, che è libertà e coscienza, non esiste ancora in questo mondo. Di qui la necessità, nei libri di Pasolini, di creare una lingua, che non è veramente un dialetto, ma, in forme dialettali, un mondo di pre-espressione, limitato, qualunque sia la sua apparenza verbale, al grido, alla interiezione, alla manifestazione della pura vitalità, non ancora articolata e organizzata.

Questo mondo di «rumore e furore» o, se si vuole, di «rabbia», non può possedere una lingua, ma solo le parole del rumore e del furore o della rabbia. Ma ha un aspetto, una apparenza, un discorso di gesti, di facce, di atteggiamenti, di stereotipie, di costumi, di magliette, di motociclette, di baracche e casupole, di fontanelle, di spiazzi, di polvere, di prati stenti; e il grigio del fango, della miseria, della malattia; e insieme una sua energia vitale, anarchica e desolata, non mai spenta nella destituzione, nell’uso strumentale del corpo; irrazionale e pura, a volte esplosiva. Questi aspetti sono evidenti all’occhio di chi guarda, sono l’espressione completa e diretta delle cose nel loro vivere e essere reali, nel loro pericolante crepuscolo, assai più delle parole, delle imprecazioni, del ragionamento, del dialogo. In questo senso si potrebbe forse sostenere che Pasolini abbia trovato nel film Accattone, ancor meglio che nei libri, la forma propria di quel mondo, che è più di cose e atti che di immagini verbali.

È un mondo squallido di destituzione, di afasia, e di estremità assoluta. Mentre nei libri di Pasolini esiste sempre un tentativo di liberazione esterno o ideologico (il partito, la malattia, ecc.), qui l’orizzonte della vicenda è chiuso, senza sviluppo o redenzione (i vaghi tentativi falliscono, Accattone non riesce — non lo può fisicamente — a lavorare, e neppure a rubare, che sarebbe già una specie di lavoro responsabile), e la liberazione non è che la morte, o il sogno premonitore della morte.

Ma la liberazione, che non c’è nella vicenda dei personaggi, è interna all’opera: è una liberazione poetica, che si sente correre in tutto il film, che affiora più evidente in molti luoghi, nei visi, nei tetri paesaggi delle borgate, nella città come natura e foreste; e soprattutto in alcuni momenti intensissimi.

Due volte scoppia, assurda e inattesa, una risata, che è il grido della vitalità pura nei momenti più neri di un mondo di solo bisogno: quando gli amici affamati e infidi cuociono gli spaghetti, e quando i tre ladri impossibili si siedono delusi e stanchi sul bordo del marciapiede, e uno, con la maglietta a righe, si leva una scarpa. Per raggiungere questa intensità Pasolini si è servito di una tecnica diretta, asciutta, apparentemente ingenua, riprendendo (credo consapevolmente) alcuni dei modi di quella che fu l’avanguardia del grande periodo del cinematografo tra il ’30 e il ’35: modi poi (chissà perché) abbandonati e giudicati antiquati.

Ora, riprendendoli, essi cambiano senso: non sono dell’avanguardia fuori tempo. Ecco, per esempio, il sogno, che è forse il capitolo più espressivo di tutta l’opera. Ha degli illustri precedenti, a partire da Charlot. Vi si giunge improvvisi, senza preparazione veristica. I napoletani, questa brutale violenza dal tremendo sorriso, muoiono nudi sotto le macerie dei muri crollati, e Accattone muore, seguendo il proprio funerale fino al cimitero domenicale. Accanto al cancello due bambini seminudi si stringono, macilenti e teneri, con l’evidenza di un’apparizione. Ma al di là del muro, oltre la fossa, si apre un paese di paradiso: il paradiso dei poveri, un paesaggio meridionale nudo e squallido, ampio, solitario e silenzioso.

E, senza soluzione di continuità, la vicenda reale riprende, il vano seguirsi delle ore vuote, la vitalità senza appigli, e la morte violenta. Così questo mondo si esprime nei suoi modi, con l’aspetto della sofferenza, col buio degli occhi, con la violenza di una vita muta, senza parola e senza sbocco, e col sogno. Questi personaggi, e Accattone particolarmente, sono, miracolosamente, simpatici. Non avrebbero alcun motivo di esserlo: dovrebbero piuttosto essere odiosi, senza luce, fuori di ogni possibile convenzione o volontà di vita morale.

Ma invece noi siamo con loro, e partecipiamo, e ci auguriamo che Accattone riesca ad essere un ladro, e abbiamo pietà dove non c’è nessuna pietà. Questa, penso, è una prova sicura. È il frutto e il segno di quell’amore intellettuale per cui Pasolini ha realizzato, con la più opaca delle materie, un’opera di poesia.

Da Accattone-Mamma Roma-Ostia, Milano Garzanti, 1993

Filippo Sacchi

Non avevo visto né Morte di un amico La notte brava. Ossia, ero entrato, ma dopo un quarto d’ora, convintomi che più di metà del dialogo romanesco mi sfuggiva, me n’era venuto via. Mi rifiuto di parlare di un film di cui non capisco il linguaggio: a meno che non abbia sottotitoli. Ma con Accattone Pasolini mi ha giocato un brutto tiro: ha pubblicato in volume il copione col dialogo testuale. Allora ho fatto a questo modo: ho letto il libro, poi sono andato a vedere il film, poi ho riletto il libro. Così ho capito tutto. È stata una piccola corvée che potevo scansarmi. Pazienza. Però avverto che è l’ultima volta che lo faccio.

Comunque non ne sono pentito. Il film mi è piaciuto e mi interessa. Come regista principiante — anche se per verità è un pezzo che bazzica nel cinema, e il tirocinio fatto accanto a Bolognini e a Rosi avrà pur contato per qualcosa — non c’è dubbio che Pasolini mostri doti serie. A me non importa niente se qualche volta tira in lungo le carrellate, o affastella il montaggio: se ci sono compiacimenti cerebrali o insistite crudezze. Mi basta che egli sia riuscito a concretare cinematograficamente dei personaggi e a mettere intorno ad essi aria, evidenza e tempo. Basta come titolo di abilitazione il modo con cui ha impiantato ed è riuscito a condurre lungo tutto il film il tipo dell’accattone, Franco Citti, che se non sbaglio non è mai stato attore; e come ne rende il complesso torbido e disperato, fatto di rivolta, di cinismo e di isteria; e come ne padroneggia e modella la maschera. Soltanto spiriti inaciditi e settari possono negare a molte immagini di questo film un’intima carica di asprezza, di angoscia e di umana simpatia.

Credo che ormai sarebbe ingenuo venire a raccontare Accattone al lettore. È da un anno che periodicamente l’Italia è costretta ad occuparsene. Il nostro è un Paese buffo. In nessun altro Paese normale un film come questo sarebbe diventato un affare di Stato. Cos’è, dopo tutto, Accattone? Un racconto di bassifondi di periferia. Chi non ama queste cose avrebbe detto tutt’al più alla moglie: “Ecco, avevo ragione io di andare a vedere Marilyn”. Gli altri spettatori, ormai abituati al genere, lo avrebbero pappato tranquillamente. Quanto ai bassifondi, bella novità, perfino Dante ha i suoi bassifondi, se vi ricordate Taide e l’umorista Barbariccia. E La Moscheta? Andate, se vi capita, a vedere La Moscheta: viene fuori che a paragone delle “borgate” padovane del Cinquecento non soltanto il Quarticciolo, ma Bronx e lo East End diventano quasi paraggi raccomandabili.

Com’è potuto montarsi allora tutto questo chiasso?

Ma perché si direbbe che, in Italia, precipuo oggetto dell’arte del governo sia dar la caccia a ogni film in cui è sospettato che possa esserci lo zampino di quel tipo pericolosissimo che ha sostituito, nel repertorio delle questure, l’anarchico di una volta, e che è detto intellettuale di sinistra. Appena si profila quel sospetto, immediatamente ministri, sottosegretari, dicasteri, polizia si mobilitano per fargli la vita dura. Guardate il caso di Accattone, sgradito quando ancora non se ne sapeva niente, sabotato in sede di progetto, contrastato perché non arrivasse a Venezia nemmeno alla sezione informativa, poi messo in quarantena in censura, infine licenziato sì, ma segnato a dito e con tutte quelle precauzioni di cui, uscendo di galera, è circondato il soggetto pericoloso.

Qual è l’effetto di queste persecuzioni censorie? Primo, di generalizzare a poco a poco nel pubblico il legittimo sospetto che non esistano intellettuali se non di sinistra. Secondo, di ingrandire pubblicitariamente l’opera colpita, talvolta molto al di là di suoi meriti reali. Terzo, di provocare per forza il malumore e la reazione di tutti gli intellettuali, non importa se di sinistra o no, seccati di questa burbanzosa sufficienza ufficiale ai loro riguardi, stufi di sentirsi sorvegliati a vista per il solo fatto che, essendo loro ufficio maneggiare idee, queste possono non combaciare con quelle del governo. Così tutto si inacerbisce e diventa polemica e ripicco. Tipico quel che si vide al Lido: grossi calibri letterari mobilitati in massa per venire a tenere al Palazzo della Mostra, il giorno della proiezione di Accattone, una conferenza stampa-comizio per manifestare a favore di Pasolini e magnificare il suo film. Sono forme di imbonimento demagogico che si accordano poco con l’aurea dignità delle lettere. Ma sinché durerà questa incomprensione, sinché si manterrà la pretesa che arti, romanzo, teatro, cinema debbano marciare come garba a qualche ministro di turno, continueremo sempre ad assistere a queste assurde diatribe che assurgono per mesi ad avvenimenti nazionali, quasi come le alluvioni del Polesine o l’elezione del Presidente della Repubblica.

Curiosamente, Accattone è stato sonorizzato con musiche di Bach. L’andante in re minore del lI Concerto Brandeburghese, messo a fare da sfondo ai colloqui tra Stella e Vitto, tra un’inquadratura del magnaccia al baretto e un campo lungo delle passeggiatrici in attesa, ha l’aria di un ticchio da discomani snob. E invece, pare impossibile, è perfetto. Perché Bach è eterno, come il sole, la luna, il mare, il vento. Va bene con tutto.

27 novembre 1961

Paolo Gobetti

Era naturale che la prima opera di Pasolini regista, tenuto presente il contributo che questo scrittore, già come sceneggiatore, aveva dato al più recente cinema italiano, fosse attesa con particolare interesse, tanto da una parte del mondo del cinema che considera come un suggello di nobiltà letteraria la scelta fatta dei mezzi filmici a opera di uno scrittore, quanto dal mondo della letteratura che sente di aver conquistato una bella posizione in quell’arte ancor nuova, ma non più plebea e anzi così ricca di rinnovato fascino, che è il cinema. Se a ciò aggiungiamo la tensione polemica creata da quanti in nome di un malinteso moralismo condannano a priori tutta l’opera di questo artista, sarà chiaro che l’atmosfera in cui il film di Pasolini venne presentato a Venezia nel 1961 era indubbiamente la più sfavorevole per un giudizio veramente obbiettivo e spassionato. Va detto innanzi tutto che lo scrittore, alle prese con il nuovo mezzo espressivo, ha dimostrato un’eccezionale sicurezza tecnica nel raccontarci con notevole efficacia la sua favola, in modo tutto immediato, ottenendo da volti e materiale una vivacità d’espressione quale raramente i più consumati maestri dell’arte delle immagini sanno raggiungere. L’impressione quindi è di aver a che fare con un film realista, dove si rivela il dramma di quella particolare umanità sottoproletaria, ancora assolutamente pre-sociale, che popola le borgate cresciute alla periferia di Roma. È quello stesso mondo che Pasolini ha descritto nei suoi romanzi; e che qui ha ancor più limitato, concentrando la sua attenzione su quello che gli è parso l’essenziale, l’esemplare. Ma è anche un mondo che finisce col non avere rapporti con il resto della società, un mondo che non conosce la dialettica né dello spazio né del tempo. Più che una fetta della realtà romana finisce col sembrarci la meravigliosa, armoniosa costruzione della fantasia dello scrittore. Accattone è forse quello che voleva essere, senza riuscirci, Miracolo a Milano: una favola in immagini reali. Ma, come il film di De Sica-Zavattini, esso non riesce a stabilire il contatto, il confronto col mondo esterno; la sua polemica si esaurisce nel chiuso del ghetto che descrive, qualcosa che può profondamente scandalizzare le belle dame della buona società borghese, ma che questa stessa società borghese non fa tremare più di quanto la possano turbare le artificiose costruzioni di un Cocteau, di cui Pasolini supera di gran lunga, in immaginazione ed efficacia, la vena fantastica.

Forse l’unica apertura sul reale in tutto il film la si ha proprio là dove esso tratta l’irreale, e cioè nel sogno di Accattone che segue il proprio funerale e si trova nell’aldilà: quella terra bruciata del meridione che è l’immagine più autentica dell’opera. Ma che è anche l’immagine in cui è racchiusa l’accettazione della nostra società, in cui più forte si sente un certo spirito cattolico: che ci ha sorpreso e colpito in un film che è stato da varie parti acclamato come una violenta denuncia della nostra società attuale. Secondo noi, la polemica è assai meno corrosiva: la stessa figura di Accattone — tanto fascinosa nella sua incapacità di lavorare — esprime si una denuncia della società che lo respinge senza misericordia, ma con la sua sensibilità cosi primordiale, con la sua fondamentale ingenuità e quasi innocenza pre-peccato originale, indica anche un’aspirazione alla bontà, alla moralità che implica una posizione tutt’altro che ribelle e rivoluzionaria. Al di là di queste perplessità sul mondo poetico e ideologico del regista, e al di sotto di certe asprezze di forma, certe immaturità di linguaggio, Accattone ci è parso un film assai piacevole, dai dialoghi affascinanti, dal racconto avvincente; un’opera quindi che rivela un nuovo regista e porta un positivo contributo al cinema italiano, anche se, lo ripetiamo ancora una volta, non ha una funzione di rottura.

Da Cinema Novo, 1960

Gian Piero dell’Acqua

È la storia di un «ragazzo di vita», cioè di uno di quei sottoproletari romani che Pasolini, verso la fine degli anni cinquanta, fece protagonisti di alcune sue opere, da Ragazzi di vita a Una vita violenta. “Accattone” è un tipo derelitto dalla società, anzi, la società non sa neppure che cosa lui sia, perché ne è sempre vissuto fuori. li suo essere buono o cattivo, onesto o disonesto, calmo o nervoso è sempre e soltanto subordinato a una sola coscienza: quella di essere “fuori”. Pasolini narra questo personaggio immaginandolo nella solitudine tanto disperata quanto inconsapevole dei suoi giorni uguali, ravvivati da improvvisazioni, per modo di dire, attivistiche (gesti di malavita, furtereili: ma in genere sempre contraddittori: “Accattone” si invaghisce della ragazza che vuoi derubare), spenti nell’ozio, accesi interiormente da misteriosi bagliori di subconscio e di sogno. Fino alla morte.

Opera prima (cinematografica) di un “dilettante” di ingegno quale Pasolini, Accattone si presentò con una carica poetica non tutta dispiegata nel linguaggio del film, ma anche per questo più tenera e sincera, se non ingenua: ciò che non si poteva già più dire, perché il mondo e i personaggi pasoliniani avevano già trovato sistemazione nell’ambito della crisi del neorealismo letterario, figurativo e cinematografico. L’atteggiamento della critica cinematografica verso questa prima opera dello scrittore fu prevalentemente limitati-vo: anche perché il terreno “sociale” scelto da Pasolini fu inteso, talvolta, come testimonianza ulteriore di “impegno”. In realtà, l’impegno più profondo dell’autore era di natura linguistico-formale in primo luogo, e consisteva in un approccio nuovo — tutt’altro che schematico e stilizzato, questo — alla macchina da presa e alle sue possibilità.

“Accattone” è un “ragazzo di vita”: ladro, teppista, magnaccia (quando può) ma un giorno si invaghisce della ragazza che intendeva derubare. Per lei si mette alla ricerca di un lavoro, ma la fatica lo stronca. Ritorna a rubare. Razzia un camion, ma la polizia gli è alle costole. Accattone fugge ma muore durante l’inseguimento. Prima prova registica di Pier Paolo Pasolini, lo scrittore, a quell’epoca, non aveva ancora quarant’anni ma era già molto noto, per i volumi di poesie, i racconti e le sceneggiature dei film di Fellini e Bolognini. Era anche tra i personaggi “pubblici” uno dei più vituperati d’Italia. Cosicché gli avversari politici liquidarono Accattone come una semplice rimasticatura delle sue cose precedenti. In realtà, al di là di uno stile ancora esitante, il film aveva una sua forza, una sofferenza che ne hanno fatto una delle opere più rappresentative degli anni Sessanta (non solo del cinema italiano).

Gian Luigi Rondi

Accattone è un tale che campa sfruttando una prostituta. Il giorno in cui costei finisce in prigione, lui resta all’asciutto e mette subito gli occhi addosso ad un’altra ragazza da avviare al marciapiede: la trova, ma l’ingenuità di questa riesce a far breccia nel suo animo e dopo un po’ eccolo rinunciare alle sue intenzioni. Per vivere tenta di lavorare, ma, inadatto, rinuncia subito; così ruba, e, colto sul fatto, muore in un incidente mentre fugge a pazza velocità su di una moto rubata. Il personaggio e le sue gesta sono di Pien Paolo Pasolini, che, parte inventandoli ex novo, parte desumendoli da taluni suoi romanzi, li ha portati sullo schermo con uno stile arido e disadorno di decisa derivazione neorealista. Ad esser sinceri, però, di tutto il film la sola cosa che convince è proprio questo stile, avaro di compiacenze, stringato, particolarmente efficace nell’indicare l’evoluzione di un carattere o un passaggio narrativo con scarsissimi accenni, in modo breve e essenziale, in una cornice di strade e di case (le più periferiche borgate romane) disegnata con asprezza incisiva. Il resto, invece — il protagonista, cioè, nonostante il suo dibattersi fra il bene ed il male, e l’ambiente, il mondo miserando e sgradevole del lenocinio e della prostituzione organizzata — potrà essere tollerabile sulla pagina scritta, ma trasportato sullo schermo, con la diversa dimensione che subito gli conferisce il cinema, e ad opera di un autore che non sembra conoscere misure (anche quando fa del neorealismo), suscita solo irritazione e fastidio, e, oltre a provocare il dissenso del pubblico, non può non trovare in disaccordo anche la critica: nonostante i pregi narrativi cui prima si accennava. Gli interpreti, parlanti sempre una lingua che appena fuori di Roma nessuno arriverà a intendere, sono tutti non professionisti, e non vanno più in là del tipico e del caratteristico.

Da Il Tempo, 23 novembre 1961

Stefano Lo Verme

Vittorio Cataldi, soprannominato Accattone, è un giovane sottoproletario che vive nelle borgate della periferia di Roma, dove trascorre le giornate con i suoi amici, facendosi mantenere dalla prostituta Maddalena. Dopo che Maddalena è stata arrestata e messa in prigione, Accattone incontra Stella; innamoratosi di lei, l’uomo decide di trovarsi un lavoro onesto con cui possa guadagnarsi da vivere.

Era il 1961, quando al Festival di Venezia il celebre scrittore Pier Paolo Pasolini presentava al pubblico il suo primo film da regista, Accattone. Girato con spese minime nei quartieri popolari di Roma, con un cast composto volutamente da attori non professionisti (scelti da Pasolini per la loro spontaneità), alla sua uscita Accattone fu contestato con durezza e dovette affrontare diversi problemi con la censura. Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, il folgorante esordio di Pasolini dietro la macchina da presa è considerato universalmente come una delle migliori opere prodotte dal cinema italiano negli anni ’60, oltre che come il maggiore capolavoro nella carriera del regista bolognese.

La pellicola, sceneggiata dallo stesso Pasolini con la collaborazione di Sergio Citti, è ambientata interamente nelle strade storiche della periferia romana dell’epoca (via Casilina, l’Appia Antica, Ponte degli Angeli, Testaccio e il Pigneto) nel corso di un’estate. Personaggio principale del film è Vittorio Cataldi, detto Accattone, interpretato dall’esordiente Franco Citti (fratello minore di Sergio): un giovanotto come tanti, uno di quei “ragazzi di vita” partoriti dal sottoproletariato romano, che si trova a barcamenarsi in un’esistenza divisa fra le scorribande con gli amici del quartiere e l’immobilità dello squallore quotidiano, senza alcuna apparente prospettiva per il futuro. Neppure l’amore, inaspettato e sincero, che Accattone prova per Stella (Franca Paust) gli permetterà di sfuggire ad un destino inesorabilmente amaro: il tentativo di riscatto del protagonista, infatti, si concluderà in un inevitabile fallimento, suggellato dalla tragica sequenza finale.

Ad uno stile registico semplice, ma straordinariamente efficace nella sua rappresentazione del mondo delle borgate romane degli anni ’50 e ’60 (un argomento centrale anche nella produzione letteraria di Pasolini), si unisce la splendida fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli ed una suggestiva colonna sonora costituita da musiche di Johann Sebastian Bach, che contribuiscono ad infondere un’evocativa tensione religiosa alla storia narrata. Breve cameo della poetessa Elsa Morante in una delle scene all’interno della prigione. L’attore Sergio Citti è doppiato da Paolo Ferrari.

Walter Veltroni

«In Accattone ho voluto rappresentare la degradazione e l’umile condizione umana di un personaggio che vive nel fango e nella polvere delle borgate di Roma. Io sapevo, sentivo, che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso, un senso vago e generale della parola, e allora questo aggettivo, ‘sacro’, l’ho aggiunto con la musica». Con queste parole, scritte su Bianco e Nero del 1967, Pier Paolo Pasolini un aspetto, forse quello centrale, del suo primo film.

Siamo alla Borgata Gordiani, alla Marranella, al Pigneto, dove Roma finiva con una condizione urbana e umana disperata e affascinante. Pasolini cerca, nella freddezza dei borghetti e della loro vita, quella società elementare, rustica che avrebbe poi invocato nelle «lucciole ». La vita è a tinte forti, violenza e passione, tradimento e amicizia. I toni grigi e soffusi sono roba della borghesia ipocrita. Le movenze dell’esistenza nelle borgate possono essere scandite solo con un tono epico. Pasolini lo trova, usando la macchina da presa come uno strumento utile non a raccontare, a descrivere, ma a rappresentare, a mettere in tragedia una vita quotidiana.

Anche per questo nel film la musica di Bach, accompagna, come Pasolini disse, il carattere sacro della degradazione. Chi vedrà Accattone stia attento a una detenuta bella, con una gran massa di capelli neri, uno sguardo intenso. È Elsa Morante.

Da Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1994

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.