Vladimir Nabokov e l’Ulisse di Joyce

Il centenario del romanzo di Joyce

Mario Mancini
16 min readSep 18, 2022

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Due pagine dell’Ulisse con le annotazioni di Nabokov.

La nascita del romanzo

Trieste-Zurigo-Parigi

James Joyce nacque in Irlanda nel 1882, la lasciò ai primi del Novecento, visse quasi tutta la vita da esule nell’Europa continentale e morì in Svizzera nel 1941. L’Ulisse fu composto tra il 1914 e il 1921 a Trieste, Zurigo e Parigi; nel 1918 alcune parti cominciarono a essere pubblicate nella cosiddetta «Little Review».

È un librone di oltre duecentosessantamila parole.

Dublino

L’ambiente di Dublino è ricostruito in parte minore sulla base dei ricordi dell’esule, e, in parte maggiore, sulle informazioni fornite dalla Thom’s Dublin Directory, un annuario che, prima di affrontare l’Ulisse, i docenti vanno a consultare in segreto per stupire gli allievi con le nozioni che lo stesso Joyce trasse proprio da lì.

Per tutta la stesura dell’opera egli si valse anche di una copia del quotidiano di Dublino, l’«Evening Telegraph», di giovedì 16 giugno 1904, del costo di mezzo penny, che, tra le altre cose, quel giorno si occupava della Ascot Gold Cup (vinta da Throwaway, un outsider), di uno spaventoso disastro americano (l’incendio del battello per escursioni General Slocum) e della Gordon Bennet Cup, una gara automobilistica tenutasi a Homburg, in Germania.

16 giugno 1904

L’Ulisse è la descrizione di un’unica giornata, giovedì 16 giugno 1904, una giornata delle vite incrociate e separate di numerosi personaggi che camminano, si spostano in tram o in carrozza, stanno seduti, parlano, sognano, bevono e compiono numerose azioni fisiologiche e filosofiche più o meno importanti nel corso di quell’unica giornata e delle prime ore del giorno successivo a Dublino.

Per quale ragione Joyce scelse proprio quel giorno, il 16 giugno 1904? In Fabulous Voyager. James Joyce’s Ulysses (1947), un libro per il resto mediocre, benché scritto con le migliori intenzioni, Richard Kain mi informa che quello fu il giorno in cui Joyce conobbe la futura moglie, Nora Barnacle. E con ciò chiudiamo il lato d’interesse umano.

I protagonisti del romanzo

Leopold Bloom

L’Ulisse consiste in una serie di scene costruite attorno a tre personaggi principali; di questi, la figura dominante è Leopold Bloom, un piccolo imprenditore pubblicitario, per la precisione un piazzista di pubblicità.

In precedenza ha lavorato come rappresentante di carta assorbente per la ditta di Wisdom Hely, ora si è messo in proprio e procaccia inserzioni, ma le cose non gli vanno molto bene. Per ragioni che vi dirò fra poco Joyce gli ha assegnato origini ebraico-ungheresi.

Gli altri due personaggi principali sono Stephen Dedalus, che Joyce ha già descritto in Ritratto dell’artista da giovane (1916), e Marion, Molly, Bloom, moglie di Leopold.

In questo trittico, se Leopold è la figura centrale, Stephen e Marion sono quelle laterali: il libro inizia con Stephen e si chiude con Marion.

Stephen Dedalus

Stephen Dedalus, il cui cognome è quello del mitico costruttore del labirinto di Cnosso, la capitale dell’antica Creta, e di altri arnesi leggendari come le ali per sé e per il figlio Icaro, Stephen Dedalus, di ventidue anni, è un giovane insegnante, nonché studioso e poeta, di Dublino, il quale, ai tempi della scuola, ha conosciuto la disciplina dell’istruzione gesuitica, cui ora si ribella con ferocia, conservando tuttavia un’indole sostanzialmente metafisica.

È un giovanotto piuttosto astratto, dogmatico perfino da ubriaco, un libero pensatore imprigionato nel proprio ego, declamatore geniale di aforismi repentini, fisicamente gracile, e sudicio come un santo (l’ultimo bagno l’ha fatto in ottobre e adesso siamo in giugno), un giovane caustico e nervoso — che il lettore non riesce mai a vedere con chiarezza, una proiezione della mente dell’autore piuttosto che un essere pulsante creato, nuovo di zecca, dalla fantasia di un artista.

I critici tendono a identificare Stephen con il giovane Joyce, ma, vera o no, è una cosa priva di importanza. Come dice Harry Levin: «Joyce ha perso la religione, ma ha conservato le categorie», il che si può dire anche di Stephen.

Molly Bloom

Marion (Molly) Bloom, moglie di Bloom, è irlandese da parte di padre ed ebreo-spagnola da parte di madre. Fa la cantante concertista.

Se Stephen è un intellettuale e Bloom è mediamente colto, Molly è decisamente di scarsa cultura e anche molto grossolana; ma ognuno di loro ha il proprio lato artistico.

Per quanto riguarda Stephen, la parte artistica è quasi troppo bella per essere vera: nella vita reale non si incontra mai nessuno che anche solo si avvicini al perfetto controllo artistico del suo modo consueto, quotidiano di esprimersi.

Bloom, di media cultura, non è un artista come Stephen, ma lo è molto più di quanto i critici abbiano compreso: qua e là il suo flusso di coscienza scorre molto vicino a quello di Stephen, come spiegherò più avanti.

E Molly, nonostante la banalità, le idee convenzionali, la grossolanità, sa provare emozioni intense davanti alle cose superficialmente piacevoli della vita, come vedremo nell’ultima parte del suo straordinario soliloquio, col quale termina il libro.

Bloom, l’ebreo errante

Prima di entrare nel merito del contenuto e dello stile dell’opera, voglio dire ancora una cosa a proposito del personaggio principale, Leopold Bloom.

Quando Proust descrisse Swann, ne fece un individuo con caratteristiche individuali uniche. Swann non è un tipo né dal punto di vista letterario, né dal punto di vista razziale, nonostante sia figlio di un operatore di borsa ebreo.

Nel costruire il personaggio di Bloom, Joyce si proponeva di collocare tra gli irlandesi endemici della sua città natale, Dublino, uno che fosse irlandese, come lui, ma anche un esule, una pecora nera nell’ovile, sempre come lui.

Pertanto decise razionalmente di scegliere come tipo del diverso l’Ebreo errante, il prototipo dell’esule. Eppure vedremo come Joyce sia a volte rozzo nel raggruppare ed evidenziare le cosiddette caratteristiche razziali.

Un’ultima considerazione a proposito di Bloom: i tanti che tanto hanno scritto sull’ Ulisse sono individui o molto puri o molto pervertiti.

Tendono a considerare Bloom un essere umano normalissimo, e pare che Joyce stesso si proponesse di descrivere una persona comune, una persona come tante.

Bloom e il sesso

È tuttavia evidente che in campo sessuale Bloom è, se non sull’orlo della pazzia, quantomeno un buon esempio clinico di estrema ossessione e perversione sessuale, con curiose complicazioni di ogni specie.

Bloom è rigorosamente eterosessuale, naturalmente — non omosessuale come la maggior parte delle donne e degli uomini di Proust (omo dall’aggettivo greco per «uguale», e non dal termine latino per «uomo», come credono alcuni studenti) –, ma, entro gli ampi limiti dell’amore per l’altro sesso, si abbandona ad atti e sogni che sono decisamente subnormali in senso zoologico, evolutivo.

Non ho intenzione di tediarvi con un elenco dei suoi desideri singolari, dirò solo questo: nella mente di Bloom e nel libro di Joyce il tema del sesso si mescola e si intreccia spesso con quello della latrina.

Sia ben chiaro che non ho assolutamente niente contro la cosiddetta schiettezza in un romanzo; anzi, dico che non ce n’è abbastanza, e la poca che c’è è a sua volta diventata banale e convenzionale nel modo in cui viene usata dai cosiddetti scrittori «forti», i prediletti dei club del libro, i cocchi delle socie dei circoli culturali.

Però non accetto nel modo più deciso che Bloom sia considerato un individuo normale perché non è vero che i pensieri di un individuo normale indugiano continuamente su cose fisiologiche: quello che non accetto è il «continuamente», non il disgustoso.

Tutta questa particolarissima robaccia patologica appare artificiosa e superflua in questo contesto specifico. Consiglio agli schizzinosi di trattare con assoluto distacco il particolare assillo di Joyce.

I temi del romanzo

L’Odissea

L’Ulisse è una costruzione magnifica e duratura, che però è stata un po’ sopravvalutata da quei critici che sono più interessati alle idee, ai concetti generali e agli aspetti umani di un’opera piuttosto che all’opera d’arte in sé.

Voglio mettervi in guardia soprattutto dal vedere nelle banali peregrinazioni e nelle avventure di scarsa importanza di Leopold Bloom in una giornata estiva a Dublino una parodia ben riuscita dell’ Odissea, con il piazzista Bloom nella parte di Odisseo, ovvero Ulisse, maestro di stratagemmi ed espedienti, la moglie adultera di Bloom nei panni della casta Penelope, e Stephen Dedalus in quelli di Telemaco.

Che nel caso di Bloom vi sia una vaga e assai generica eco omerica del tema del girovagare è ovvio, come suggerisce il titolo stesso del romanzo, e nel corso della storia ci sono, tra molte altre, numerose allusioni ai classici; ma sarebbe un’assoluta perdita di tempo cercare paralleli stretti in ogni personaggio e in ogni episodio.

La tediosità della critica

Non c’è nulla di più tedioso di un’allegoria tirata per le lunghe basata su un mito ormai frusto; tanto che, quando partì dell’opera erano già state pubblicate e Joyce vide cosa elucubravano degli sproloquiatoti eruditi e pseudo-eruditi, si affrettò a eliminare i titoli pseudo-omerici dei capitoli.

Un’ultima cosa: uno dei suddetti sproloquiatori, un tale di nome Stuart Gilbert, tratto in inganno da un elenco compilato ironicamente da Joyce stesso, scoprì che in ogni capitolo vi era un organo predominante — l’orecchio, l’occhio, lo stomaco, ecc. -, ma noi ignoreremo queste stupidaggini barbose. Tutta l’arte è, in un certo senso, simbolica; ma noi grideremo «Al ladro» al critico che trasforma deliberatamente il simbolo raffinato di un artista nell’allegoria stantia di un pedante — le mille e una notte in un convegno di para-massoni.

Bloom e il destino

Allora, qual è il tema principale del libro? È molto semplice.

1. Il passato irrimediabile. Il figlio neonato di Bloom è morto molto tempo prima, ma l’immagine è ancora impressa nel suo sangue e nella sua mente.
2. Il presente tragico e assurdo. Bloom ama ancora la moglie Molly, ma lascia che il destino compia il suo corso. Sa che nel pomeriggio, alle 14.30 di quel giorno di metà giugno, Boylan, il baldo impresario e agente della moglie, andrà a trovarla, e lui non fa nulla per impedirlo. Cerca scrupolosamente di non intralciare il destino, ma in realtà per tutta la giornata è sempre lì lì per imbattersi in Boylan.
3. Il futuro patetico. Bloom si imbatte in continuazione anche in un altro giovanotto: Stephen Dedalus, e a poco a poco comprende che questa può essere un’altra piccola attenzione da parte del destino. Se è destino che la moglie abbia degli amanti, allora l’artistico, sensibile Stephen sarebbe meglio del rozzo Boylan; anzi, Stephen potrebbe dare lezioni a Molly, potrebbe aiutarla a imparare la pronuncia italiana per la sua professione di cantante; in breve: potrebbe affinarla, come pensa pateticamente Bloom.

Ecco, questo è il tema principale: Bloom e il destino.

Ogni capitolo è scritto in uno stile diverso, o meglio, in uno stile diverso predominante. Non c’è un motivo particolare dietro questa scelta — perché un capitolo sia narrato in modo diretto, un altro ricorrendo al flusso di coscienza, un altro ancora attraverso il prisma della parodia.

Non c’è una ragione specifica, ma si potrebbe sostenere che il costante spostamento del punto di vista permetta una conoscenza più variegata, nuovi scorci vividi da punti d’osservazione diversi.

Se avete mai provato, stando in piedi, a piegarvi fino a guardare indietro con la testa fra le ginocchia e il viso rivolto all’insù, avrete visto il mondo in una luce completamente diversa.

Provate a farlo in spiaggia: è molto divertente guardare le persone da capovolti; sembra che a ogni passo stacchino i piedi dalla colla della gravitazione, senza per questo diventare ridicole. Bene, questo stratagemma di cambiare la visuale, di cambiare il prisma e il punto di vista, può essere paragonato alla nuova tecnica letteraria di Joyce, al tipo di nuova contorsione che ci consente di vedere un’erba più verde, un mondo più vivace.

L’imbattersi dei personaggi

I personaggi si imbattono continuamente l’uno nell’altro durante le loro peregrinazioni nel corso di una giornata dublinese. Joyce non se li lascia mai sfuggire di mano; infatti, vanno e vengono, si incontrano, si separano, si incontrano di nuovo, come parti vive di una composizione ben studiata, in una specie di lenta danza del destino.

Una delle caratteristiche più singolari del libro è il ripresentarsi di un certo numero di temi, temi che sono assai più delineati, assai più volutamente seguiti di quelli che cogliamo in Tolstoj o Kafka. Tutta l’opera, come capiremo man mano, è un intreccio intenzionale di temi ricorrenti e di avvenimenti insignificanti sincronizzati.

Joyce usa tre stili principali di scrittura.

Lo stile di scrittura

1. Diretto, lucido e logico

Il Joyce originale: diretto, lucido, logico e placidamente fluido. Questa è la struttura portante del primo capitolo della prima parte e del primo e terzo capitolo della seconda; anche in altri capitoli incontreremo parti lucide, logiche e placide.

2. Flusso di coscienza

Formulazione incompleta, rapida, discontinua del pensiero per rendere il cosiddetto flusso di coscienza, o per meglio dire, i gradini della coscienza.

Ne troviamo esempi in quasi tutti i capitoli, seppur di solito associati ai personaggi principali. Parleremo di questa tecnica quando tratteremo il suo esempio più famoso, il soliloquio finale di Molly, nel terzo capitolo della terza parte; fin da ora, però, possiamo dire che esso esagera la componente verbale del pensiero.

L’uomo non pensa sempre per parole ma anche per immagini, mentre il flusso di coscienza presuppone un flusso di parole che può essere trascritto; ma è difficile credere che Bloom parli continuamente fra sé.

3. Parodie di varie forme non narrative

Sono titoli di giornale (4° capitolo della seconda parte), musica (8° capitolo della seconda parte), dramma sacro e farsesco (12° capitolo della seconda parte), struttura catechistica di domande e risposte (2° capitolo della terza parte).

E, inoltre, parodie di autori e stili letterari: il narratore satirico nel 9° capitolo della seconda parte; lo scrittore da rivista per signore nel 10° capitolo della seconda parte; una serie di autori e periodi letterari specifici nell’11°capitolo della seconda parte e il giornalese elegante nel !° capitolo della terza parte.

Allitterazioni ritmiche

In qualsiasi momento, passando da uno stile all’altro, o rimanendo entro i confini di una data categoria stilistica, Joyce può decidere di intensificare uno stato d’animo introducendo un motivo lirico musicale, con allitterazioni e accorgimenti ritmici, in genere per rendere sentimenti malinconici.

A Stephen è spesso associato uno stile poetico, ma anche Bloom ce ne dà un esempio quando si sbarazza della busta della lettera ricevuta da Martha Clifford:

«Si diresse sotto l’arcata della ferrovia e, estratta la busta, la strappò velocemente e ne gettò i pezzetti verso la strada. I frammenti si allontanarono svolazzando e affondarono nell’aria umida: uno sfarfallio bianco, poi tutti precipitarono a terra».

Oppure, qualche frase più oltre, a concludere la descrizione di un fiume di birra fuoriuscita da un barile:

«Serpeggiante fra le melme della spianata, una pigra spira di liquido che si raccoglieva in pozze trasportando i fiori ampli-petali della sua schiuma».

Ma in qualsiasi altro momento Joyce può inserire artifici verbali, giochi e trasposizioni di parole, doppi sensi, echi, atroci accoppiamenti di verbi o imitazioni di suoni.

In questi, come nell’eccesso di riferimenti locali e di espressioni straniere, si arriva talvolta a un’inintelligibilità inutile a causa di particolari non esposti con sufficiente chiarezza, ma inseriti a uso esclusivo degli iniziati.

Da: Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, Milano Adelphi, 2018, pp. 395–402

Tra i vari capitoli che Nabokov riassume e analizza, ve ne proponiamo uno che è tra i più problematici da comprendere: il capitolo 12° della parte seconda.

Parte seconda, Capitolo 12

Come interpretare il capitolo

Non conosco nessun commentatore che abbia compreso correttamente questo capitolo. Per quanto mi riguarda, rifiuto categoricamente e totalmente l’interpretazione psicoanalitica, poiché non faccio parte della setta dei freudiani con i loro miti mutuati da altri, i loro ombrelli frusti, e le buie scale di servizio.

Non è possibile interpretare il capitolo come una descrizione degli effetti dell’ubriachezza o della lussuria sul subconscio di Bloom per i seguenti motivi:

1. Bloom è perfettamente sobrio e al momento impotente.
2. Bloom non può assolutamente essere a conoscenza di certi avvenimenti, personaggi e fatti che compaiono come visioni nel capitolo.

Suggerisco quindi di considerare il 12° capitolo come un’allucinazione dell’autore, una deformazione divertente di vari suoi temi.

Il libro è di per se stesso sogno e visioni e questo capitolo non è che un’esagerazione, un’evoluzione da incubo dei personaggi, degli oggetti, e dei temi in esso contenuti.

Ora: fra le ventitré e mezzanotte.
Luogo: Nighttown comincia all’inizio di Mabbot Street, nella zona est di Dublino, a nord del Liffey, vicino alla zona portuale, circa un chilometro e mezzo a ovest di Eccles Street.
Stile: commedia da incubo, con implicito riferimento alle visioni contenute in un lavoro di Flaubert, La tentazione di sant’Antonio, scritto una cinquantina di anni prima.
Azione: l’azione può essere suddivisa in cinque scene.

Scena prima

Personaggi principali: due soldati inglesi, Carr e Compton, che nella quinta scena aggrediranno Stephen. C’è una passeggiatrice che impersona l’innocente Cissy Caffrey del 10° capitolo, e ci sono Stephen e il suo amico, lo studente di medicina Lynch.

Già in questa prima scena i due soldati stuzzicano Stephen: «Fate largo al parroco». «Olà, signor parroco!».

Stephen ha l’aspetto di un sacerdote, essendo vestito a lutto per la morte della madre (sia lui che Bloom sono vestiti di nero). Un’altra prostituta somiglia a Edy Boardman. Compaiono anche i gemelli Caffrey: monelli di strada, fantasmi che somigliano ai gemelli, che si arrampicano sui lampioni.

Notate che queste associazioni di pensiero non avvengono nella mente di Bloom, che aveva visto Cissy e Edy sulla spiaggia ma non è presente in questa prima scena, mentre Stephen, che è presente, non può sapere niente riguardo alle due ragazze.

L’unico avvenimento degno di nota in questa prima scena è il fatto che Stephen e Lynch si stanno dirigendo a una casa di malaffare di Nighttown dopo che gli altri, Buck Mulligan compreso, sono andati altrove.

Scena seconda

Bloom appare su un palcoscenico, in cui è rappresentata ima strada obliqua con lampioni inclinati; è ansioso di parlare con Stephen e lo sta seguendo.

La scena inizia con la descrizione realistica del suo ingresso: ansante per avere corso dietro a Stephen, Bloom acquista uno zampetto di maiale e uno di pecora dal macellaio Othousen e davvero evita per un pelo di essere investito da un tram. Poi compaiono i suoi defunti genitori — è un’allucinazione dell’autore, e di Bloom.

Compaiono anche diverse donne di sua conoscenza, comprese Molly e Mrs Breen, e Gerty, nonché la saponetta al limone, il gabbiano, e altri personaggi secondari, tra i quali addirittura Beaufoy, l’autore del racconto di «Titbits».

Non mancano allusioni religiose. Ricorderete che il padre di Bloom era un ebreo ungherese convertito al protestantesimo, mentre la madre era irlandese. Bloom, all’origine protestante, si è convertito al cattolicesimo. Fra l’altro, è massone.

Scena terza

Bloom arriva alla casa di malaffare. Zoe, una giovane prostituta in sottoveste color zaffiro, lo riceve sull’uscio in Lower Tyrone Street, un punto che non esiste più.

Nell’allucinazione dell’autore, Bloom, il più grande riformatore del mondo (allusione al suo interesse per vari miglioramenti civici), è incoronato imperatore dai cittadini di Dublino, ai quali illustra i suoi programmi di riassetto sociale, ma è poi denunciato come libertino empio, e infine dichiarato donna.

Il dottor Dixon (l’interno della clinica ostetrica) legge il suo certificato sanitario:

«Il professor Bloom è l’esempio perfetto del nuovo uomo femminilizzato. La sua indole morale è semplice e amabile. Molti lo giudicano un buon uomo e una brava persona. Nel complesso, è un individuo piuttosto bizzarro, schivo ma non frenastenico. Ha scritto una lettera davvero bellissima, una vera e propria poesia, al delegato giudiziario della Società per la protezione dei sacerdoti emendati, che chiarisce cigni cosa. Si astiene praticamente da tutto e posso garantire che dorme su un pagliericcio e si nutre del cibo più spartano che esista: piselli secchi freddi acquistati in negozio. D’inverno come d’estate indossa una maglietta di crine e il sabato si flagella. A quanto mi risulta, un tempo è stato nel riformatorio di Glencree perché trasgressore di prima categoria. Un’altra voce dichiara che è stato un figlio assai postumo. Invoco clemenza in nome della parola più sacra che i nostri organi vocali siano mai stati chiamati a pronunciare. Sta per avere un bambino.
(Agitazione e confusione generale. Le donne svengono. Un americano ricco organizza una colletta per strada in favore di Bloom…)».

E così via. Alla fine della scena Bloom, nella realtà del libro, segue Zoe nel bordello in cerca di Stephen.

Ora abbiamo scoperto come funziona il meccanismo del capitolo: qualche particolare di realtà si anima all’improvviso con ricchezza di particolari; un’allusione prende vita autonoma. Così, la «vera conversazione sulla soglia del bordello tra Zoe e Bloom viene interrotta dall’interpolazione dell’Ascesa e Caduta di Bloom prima del suo ingresso nella casa di malaffare.

Scena quarta

Nel bordello Bloom incontra Stephen e Lynch. Appaiono diverse visioni. L’autore evoca il nonno di Bloom, Leopold Virag.

In un’altra allucinazione dell’autore, Bella Cohen, una massiccia tenutaria con i baffetti, evoca i peccati che Bloom ha commesso nel passato, e in uno scambio divertente di sessi è terribilmente crudele nei confronti dell’impotente Bloom.

Nel fluido tema musicale tanto caro a Joyce compaiono anche naiadi e cascate. Si comincia a intravedere un barlume di realtà.

Bloom recupera il proprio talismano, la patata, da Zoe. Stephen cerca di sperperare il proprio denaro. (Notate che né Stephen né Bloom mostrano alcun interesse per le donne attorno a loro).

Bloom riesce a recuperare il denaro e lo tiene in serbo per Stephen. Una sterlina e sette scellini. «Non me ne importa un accidenti» di niente dice Stephen. Seguono altre allucinazioni dell’autore: perfino Boylan e Marion compaiono in una visione.

Nella dimensione di vita reale della scena Stephen imita comicamente l’inglese dei parigini. Poi le allucinazioni dell’autore cominciano ad assillare Stephen. Terrificante apparizione della madre di Stephen.

LA MADRE (sulle labbra il sorriso indefinibile della follia della morte) Un tempo ero la bellissima May Goulding. Ora sono morta.
STEPHEN (atterrito) Lemure, chi sei? Che stregoneria è questa?
BUCK MULLIGAN (scuote il berretto da giullare) Questa sì che è una beffa! Quel cane di Kinch ha ucciso quella povera cagna di sua madre. Lei ha tirato le cuoia. (Lacrime di burro fuso gli cadono dagli occhi sulla focaccina). La nostra meravigliosa, dolce madre! Epi oinopaponton.
LA MADRE (gli si avvicina, alitandogli teneramente addosso, lieve, il fiato di cenere bagnata) Dobbiamo passarci tutti, Stephen. Più donne che uomini nel mondo. Anche tu. Tempo verrà.
STEPHEN (soffocato dallo spavento, dal rimorso e dall’orrore) Mamma, dicono che ti abbia ucciso io. Lui ha offeso il tuo ricordo. È stato il cancro, non io. Il destino.
LA MADRE (un rivoletto dì bile verde le scorre lentamente giù da un angolo della bocca) Mi cantasti quella canzone. L’amaro mistero dell’amore.
STEPHEN (ansiosamente) Dimmi la parola, mamma, se adesso la sai. La parola nota a tutti gli uomini.
LA MADRE Chi ti salvò la sera in cui saltasti sul treno a Dalkey con Paddy Lee? Chi ebbe compassione di te quando ti sentivi triste fra gente sconosciuta? La preghiera è onnipotente. La preghiera per le anime che soffrono nel manuale delle Orsoline, e quaranta giorni di indulgenza. Pentiti, Stephen.
STEPHEN Che spirito maligno! Iena!
LA MADRE Prego per te nell’altro mondo in cui mi trovo. Fa’ che Dilly ti prepari il riso bollito ogni sera dopo il lavoro di testa che fai. Per anni e anni ti ho amato, o figlio mio, mio primogenito, quando eri nel mio grembo».

La scena prosegue ancora per un poco, finché a un certo punto Stephen spacca la lampada con il bastone.

Scena quinta

Stephen e Bloom, usciti dal bordello, si trovano ora poco distante da lì, in Beaver Street.

Stephen, ancora ubriaco, vaneggia, e i due soldati inglesi Carr e Compton decidono che ha insultato il loro re, Edoardo VII (che compare anche nell’allucinazione dell’autore). Uno dei due, Carr, aggredisce Stephen e lo colpisce con un pugno, facendolo cadere a terra.

Appaiono in lontananza delle guardie. Questo accade nella realtà. Sempre nella realtà, Kelleher, l’assistente dell’impresario di pompe funebri, si trova per caso da quelle parti e li aiuta a convincere le guardie che Stephen era solo andato a fare un po’ di baldoria, i giovani sono giovani.

La scena termina con Bloom che si china su Stephen steso a terra, il quale mormora: «Chi? Il vampiro pantera nera» e cita frammenti di Chi va con Fergus di Yeats.

Il capitolo si conclude con un’allucinazione di Bloom, nella quale il defunto figlio Rudy gli compare come un fatato adolescente undicenne, un changeling, che lo guarda negli occhi senza vederlo e bacia la pagina del libro che sta leggendo da destra a sinistra.

Da: Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, Milano Adelphi, 2018, pp. 478–483

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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