Vite d’artisti: il «vizio innominabile»

di Rudolf e Margot Wittkover

Mario Mancini
12 min readNov 8, 2020

Vai all’indice le libro mosaico “Nati sotto Saturno” di Rudolf e Margot Wittkower

Giovanni Antonio Bazzi (detto il Sodoma), “Autoritratto”, dettaglio dell’affresco “Come Benedetto risalda lo capistero che si era rotto”, Chiostro Grande, Abbazia di Monte Oliveto Maggiore.

Omosessualità e opinione pubblica

L’abisso fra la condotta desiderabile e quella effettiva appare con particolare evidenza nella lotta incessante ma sfortunata contro l’omosessualità. Dai tempi biblici questa è stata considerata sempre come un peccato; e l’elenco di Paolo da Certaldo mostra che nel Trecento la si poneva accanto ai crimini peggiori.

In un sermone del dicembre 1305 fra Girolamo esclamava a Firenze: «O quanti ci ha di quelli cittadini [di Sodoma] in questa cittade! anzi quasi si è convertita questa cittade in Sodoma». Da documenti posteriori risulta che le leggi non erano molto efficaci nel combattere questo vizio.

Nella sua predica del 1° novembre 1494 il Savonarola ammoniva pubblicamente i preti fiorentini:

lasciate le vostre pompe e i vostri conviti e desinari, i quali fate tanto splendidamente; lasciate, dico, le vostre concubine ed i cinedi… Lasciate, dico, quel vizio indicibile, lasciate quel maledetto vizio che tanto ha provocato l’ira di Dio sopra di voi; ché, guai, guai a voi!

L’eloquenza del Savonarola fece naturalmente profonda impressione nel popolo. Ma a parte i suoi diretti antagonisti, molti si ridussero a una sottomissione temporanea soltanto per timore.

Fu con evidente sollievo che «un certo Benvenuto del Bianco, uno del [magistrato] de’ Dieci nuovi, morto che fu fra Girolamo, s’accostò ad un altro di Collegio, et disse: «si potrà pure hora sodomitare».

Sebbene accorresse in folla a udire le prediche del Savonarola, la gente non mutò gran che il proprio tenore di vita. Il grande riformatore mori sul patibolo nel 1498.

Già quattro anni dopo si giudicò necessario rafforzare le leggi sulla moralità pubblica: nel 1502 il Landucci annotava nel suo diario: «fu riformato certe sante leggi contro al vizio innominabile e contro la bestemmia; e altre buone leggi».

Queste riforme non sembra producessero i risultati sperati, giacché ai primi del 1506 si dovette ricorrere a misure più severe. Citiamo ancora il Landucci:

gli Otto dettono bando della testa a uno ch’aveva fatto questa sceleranza, e furono più se non compariva, e quali ebbono animo a minacciare un padre se non dava loro el figliuolo. Non altrimenti feciono e giovani di Soddoma a Lotto, che chiedevano gli angeli a Lotto. E anche a questo meriterebbono quel medesimo che seguitò loro. Mal volentieri n’ò fatto ricordo, perch’è ’l lvizio innominabile. Dio mi perdoni.

Le pene comminate, sulla carta almeno, ai trasgressori fiorentinivariavano secondo le circostanze. Gli uomini adulti erano castrati; i ragazzi e gli adolescenti fra i quattordici e i diciotto anni d’età dovevano pagare una grossa multa di cento lire, quintuplicata per chi aveva superato i diciott’anni; i mezzani erano castigati con una multa o con la perdita d’una mano, e in caso di recidiva, di un piede; i padri che permettevano si abusasse dei loro figlioli erano trattati come mezzani; la casa dove s’era consumato il reato di sodomia veniva distrutta; chiunque fosse trovato, di giorno o di notte, in una vigna o in una stanza chiusa con un. ragazzo non suo parente era sospetto.

Altre città adottarono misure analoghe. Venezia, come Firenze, dovette rivedere le pene e inasprire la legislazione più volte, a brevi intervalli (1418, 1422, 1431, 1455), per l’aumento allarmante di questi reati.

Se pensiamo per esempio che le prostitute veneziane trovavano più conveniente indossare abiti maschili per attirare i clienti, potremo concludere sicuramente che i colpevoli non erano soltanto i pochi pontefici, principi, artisti e uomini di studio che compaiono nei libri di storia, ma venivano largamente dalle schiere anonime e dimenticate della gente comune.

Nonostante il non equivoco atteggiamento della Chiesa, delle autorità e dei cittadini perbene verso il «peccato innominabile», le leggi erano applicate con molta rilassatezza: che era dovuta in parte a una certa generale apatia di fronte alle trasgressioni in un mondo avvezzo ai delitti, alle violenze e agli eccessi d’ogni specie; e in parte alla tolleranza delle classi colte, ispirate dagli umanisti, per le quali l’amore omosessuale aveva la sanzione dei filosofi greci.

Leonardo

La denuncia contro Leonardo

Queste considerazioni possono spiegare in certa misura perché non si abbia quasi notizia di artisti sottoposti a processo, sebbene le loro abitudini di vita e le loro passioni fossero tanto poco segrete quanto quelle degli altri cittadini.

Fra le rare eccezioni si annovera il processo in cui fu implicato il giovane Leonardo. Poiché la denuncia contro di lui fu presentata anonima, quasi tutti gli studiosi di Leonardo l’hanno liquidata come un’infame calunnia, citando l’assoluzione dell’artista come prova della sua innocenza.

Gli atti conservati negli archivi fiorentini non permettono però conclusioni cosi categoriche. Le denunce anonime, per quanto spregevoli possano apparirci, erano nella Firenze di allora una base perfettamente legale per un procedimento giudiziario.

Chiunque pensasse di avere validi elementi di accusa contro un trasgressore poteva infilare la sua denuncia scritta dentro il «tamburo», una specie di cassetta per le lettere di questa forma installata a tale scopo in Palazzo Vecchio. Le denunce venivano quindi esaminate, e se si trovavano i testimoni la giustizia entrava in azione.

Una denuncia del genere venne imbucata il 9 aprile 1476 contro Iacopo Saltarelli, che lavorava come modello per artisti, e quattro cittadini fiorentini. Era redatta in questi termini:

Notifico a Voi Signori officiali come egli è vera cosa che Iacopo Saltarelli fratello carnale di Giovanni Saltarelli, sta con lui all’orafo in Vacchereccia [via Vacchereccia, che andava da Por Santa Maria a piazza della Signoria], dirimpetto al buco [o tamburo delle denunce]: veste nero d’età d’anni 17, o circa. Il quale Iacopo va dietro a molte misserie et consente compiacere a quelle persone lo richiegono di simili tristizie. Et a questo modo à avuto a fare di molte cose, cioè servito parecchie dozine di persone delle quali ne so buon date, et al presente dirò d’alchuno:
Bartholomeo di Pasquino orafo, sta in Vacchereccia.
Lionardo di Ser Piero da Vinci, sta con Andrea de Verrocchio.
Baccino farsettaio, sta da Or San Michele in quella via che v’è due botteghe grandi di cimatori, che va alla loggia de’ Cierchi: ha aperto bottega di nuovo di farsettaio.
Lionardo Tornabuoni, dicto il teri: veste nero.
Questi ànno avuto a soddomitare decto Iacopo: et cosi vi fo fede.

Sembra che i testimoni necessari non si facessero avanti, poiché gli imputati furono rilasciati: «absoluti cum conditione ut retamburentur», assolti a patto che non si tornasse a trovare qualcosa nel «tamburo». Il 7 giugno 1476 la stessa accusa fu impostata un’altra volta, ma fu di nuovo accantonata condizionalmente. Negli archivi non si sono trovati altri documenti.

Non fa meraviglia che a nessuno venisse la voglia di sostenere la de

nuncia. Uno di certo, e molto probabilmente due degli accusati erano figli di padri influenti, che erano in condizione di difendere i loro traviati rampolli dallo scandalo del carcere e di mali peggiori.

Leonardo Tomabuoni, di cui non sappiamo nient’altro, era con ogni probabilità il figlio di Piero, cugino primo di Lorenzo il Magnifico; e il padre di Leonardo da Vinci era un notaio assai noto, che lavorava per la Signoria.

Chi avrebbe osato crearsi dei nemici simili? D’altronde il reato, anche se era stato effettivamente commesso, non avrebbe certo suscitato una tempesta di indignazione. Considerando il clima morale e letterario a cui erano abituati i giudici di Leonardo, è da supporre che molte accuse del genere fossero trattate come ordinaria amministrazione, e lasciate cadere.

Se Leonardo fosse accusato a diritto o a torto non si saprà probabilmente mai; ma che egli potesse sentirsi attratto da persone non degne è dimostrato almeno da un fatto ben documentato.

La relazione di Leonardo con Salai

Nel 1490 l’artista prese in casa con sé Gian Giacomo Caprotti, un bel ragazzo di dieci anni dai capelli ricci. Subito il giorno dopo Leonardo ordinò per lui degli abiti nuovi; e il ragazzo s’affrettò a rubare il denaro messo da parte per il suo guardaroba.

Nel corso del primo anno egli rubò due punte d’argento dallo studio, del denaro a uno straniero, e un pezzo di pelle turca con cui Leonardo doveva farsi degli stivali, e che Gian Giacomo vendette per venti soldi, per comperarsi dei dolciumi.

In quello stesso anno il ragazzo acquistò anche ventiquattro paia di scarpe, alcune delle quali presumibilmente vendette. Il suo maggior piacere era d’andare bighellonando per le strade.

Questo ragazzo dal viso angelico compare nelle miscellanee di Leonardo come Salaij o Salai, un nome che ha causato molte perplessità finché si è dimostrato in modo convincente che esso era derivato dal Morgante del Pulci, dove è usato come sinonimo di Satana.

Tuttavia nel corso degli anni Leonardo comperò a questo piccolo demonio un anello e una collana, calzoni alla moda e stoffa da camicie, e un mantello damascato d’argento.

Sebbene nelle sue note lo chiami ladro, bugiardo, testardo e ghiottone, lo portò con sé in tutti i suoi viaggi per l’Italia, forni una dote a sua sorella, installò il padre come fittavolo nella propria vigna, e lo ricordò generosamente nel testamento.

Salai rimase con Leonardo fino al 1516, ossia per ventisei anni. Mori nel 1524 di una ferita d’arma da fuoco, non si sa se accidentale o meno. I suoi lineamenti sono conservati in numerosi disegni e pitture, alcuni di mano di Leonardo.

Perché Leonardo sopportò per tanto tempo un giovane di cui conosceva cosi bene i difetti? Senza dubbio egli fu dapprima fortemente attratto dalla perfezione fisica del ragazzo, ed ebbe al tempo stesso ripugnanza per questa attrazione — non già, crediamo, perché egli avesse particolari obbiezioni contro l’omosessualità, ma perché disapprovava, come ripete spesso nei suoi scritti, ogni «piacere lascivo».

Un’allegoria del Piacere e Dolore (o Lascivia e Pentimento) di poco posteriore al 1490 rappresenta i suoi pensieri in forma pittorica. Ma non c’è bisogno di ricorrere alle ipotesi per decifrare questo disegno enigmatico: lo stesso Leonardo ci ha fornito una didascalia esplicativa.

Considerare le sue ponderate parole come «libere associazioni» e «fantasie avute stando in letto» è un far torto al suo acuto raziocinio, e mette in falsa luce tutta la sua personalità.

Dal disegno e dal testo non si ricava che egli indulgesse a «fantasie sessuali», come è stato affermato; ma vi si scorge in forma allegorica uno sforzo cosciente di chiarire le proprie sensazioni.

Fra la «vita istintuale» di un uomo o dell’altro v’è poca differenza; ma una differenza enorme fra il confuso sognatore a occhi aperti, e chi sa razionalizzare i suoi stimoli e formularli in un’opera d’arte. È questa differenza che distingue taluni uomini dalla maggioranza, e non i desideri subcoscienti che essi hanno in comune col resto dell’umanità.

Gli sforzi coscienti di Leonardo erano rivolti a soggiogare la sensualità; quelli di Michelangelo a intensificarla. Dopo anni di tentativi e di errori, Michelangelo trovò nel Cavalieri la risposta ideale alla sua ricerca del «perfetto» amore.

Dopo qualche fallimento iniziale, Leonardo riuscì a padroneggiare i propri «istinti animali» così completamente, da riuscire verosimilmente a mantenere il suo distacco anche nei contatti quotidiani col piccolo «Satana», che egli continuò a tenere presso di sé come utile mescolanza di modello, servitore, e garzone di studio.

Non sentiva più attrazione né repulsione; aveva domato il «piacere» insieme alla «sofferenza e al pentimento».

Giovanni Antonio Bazzi, il Sodoma

La parzialità di Leonardo per il suo poco lodevole scolaro doveva essere nota a molti dei suoi committenti, ma non produsse in loro alcun turbamento, né scemò la stima che essi avevano per il suo genio.

La stessa imperturbabilità, cosi difficilmente comprensibile per molti studiosi dell’Ottocento, si manifesta nell’atteggiamento dei mecenati di Giovanni Antonio Bazzi (1477–1549).

Il suo soprannome, «Sodoma», è stato fonte di perplessità per gli ammiratori della sua arte. Uno dei più celebri pittori senesi, egli lavorò anche con molto successo a Milano, Firenze e Roma, dove nel 1518 fu onorato da papa Leone X col titolo di cavaliere, sebbene a quella data fosse ormai conosciuto dappertutto come il «Sodoma» da cinque anni almeno.

Lodato un tempo dagli storici dell’arte come uno dei più bei pittori del Rinascimento, egli ha perduto negli ultimi tempi un poco della sua fama forse esagerata; e le censure del Vasari non suonano oggi cosi ingiuste e dispettose come ai critici d’una generazione precedente.

Se Giovannantonio — scrive di lui il Vasari — come ebbe buona fortuna, avesse avuto, come se avesse studiato poteva, pari virtu, non si sarebbe al fine della vita sua, che fu sempre stratta [strana] e bestiale, condotto pazzamente nella vecchiezza a stentare miseramente.

Ma neanche il virtuoso Vasari fu turbato apertamente dalla «bestialità» del Sodoma. Bonariamente egli riferiva che il pittore era:

uomo allegro, licenzioso, e teneva altrui in piacere e spasso con vivere poco onestamente; nel che fare, perocché aveva sempre attorno fanciulli e giovani sbarbati, i quali amava fuor di modo, si acquistò il soprannome di Sodoma; del quale non che si prendesse noia o sdegno, se ne gloriava, facendo sopra esso stanze e capitoli, e cantandogli sul liuto assai comodamente. Dilettossi oltre ciò d’aver per casa di più sorte stravaganti animali, tassi, scoiattoli, bertucce, gatti mammoni, asini nani, cavalli, barberi da correr palii, cavallini piccoli dell’Elba, ghiandaie, galline nane, tortore indiane ed altri siffatti animali, quanti gliene potevano venire alle mani. Ma oltre tutte queste bestiacce, aveva un corbo, che da lui aveva così bene imparato a favellare, che contraffaceva in molte cose la voce di Giavannantonio, e particolarmente in rispondendo a chi picchiava la porta.
Tutti questi animali «erano tanto domestichi, che sempre stavano intorno altrui per casa, facendo i più strani giuochi, ed i più pazzi versi del mondo, di maniera che la casa di costui pareva proprio l’arca di Noè.

Può sembrare abbastanza assurdo che il Vasari parlasse contemporaneamente della licenziosità del Sodoma e del suo divertente zoo privato; ma è questo un segno sicuro che l’una «bizzarria» non era migliore o peggiore dell’altra agli occhi del suo tempo.

Inoltre il tenere animali esotici aveva un certo pregio snobistico. La gente ricca pagava grosse somme per animali e uccelli importati dall’Africa e fino dall’India; i meno abbienti si contentavano di bestie più a portata di mano.

Anche Piero di Cosimo, Leonardo e il Rustici si dilettavano di raccogliere animali curiosi, e come il Sodoma li usavano all’occasione come modelli.

Che il Sodoma fosse effettivamente uno snob appare dal suo modo di vestire. Dopo aver lodato l’opera del pittore per la Farnesina di Agostino Chigi, la quale mostrava che il Sodoma «aveva di buonissimi tratti ed era molto aiutato dalla natura», il Vasari prosegue:

Ma egli ebbe sempre l’animo alle baie, e lavorò a capricci, di niuna cosa maggiormente curandosi che di vestire pomposamente, portando giubboni di broccato, cappe tutte fregiate di tela d’oro, cuffioni ricchissimi, collane, ed altre simili bagatelle, e cose da buffoni e cantambanchi; delle quali cose Agostino, al quale piaceva quell’umore, n’aveva il maggiore spasso del mondo.

La descrizione vasariana della condotta del Sodoma rimase molto tempo senza contraddittori. Un centinaio d’anni dopo il Vasari lo storico senese Ugurgieri parlava dell’artista come d’un uomo capriccioso e faceto, che viveva alla giornata; e a sostegno di questa reputazione ricordava che per il gran credito, e autorità che aveva nella patria per l’eccellenza nell’arte, si pigliava alcuna licenza, e gli era comportata da maestrati; perché dovendosi non so in che tempo denunziare al pubblico l’avere di tutti i Cittadini si trova questa ridicola denunzia fatta dal Sodoma l’anno 1531:

Dinanzi voi spettabili Cittadini sopra lo fare la lira vi si dice per me Maestro Gio. Antonio Sodoma di Bucaturo.
E prima un horto a fonte nuova, che io lo lavoro, e gli altri ricogliono.
Una casa in litigio con Niccolò de’ Libri per mio abitare in Vallerozzi.
Trovomi al presente otto cavalli; per soprannome sono chiamati caprette, ed io sono un castrone a governarle.
Trovomi una scimmia, ed un corvo, che favella, che lo tengo che insegni a parlare a un asino Teologo in gabbia.
Un gufo per far paura a’ matti, un Barbagianni, e del Locco non vi dico niente per la scimia di sopra.
Trovomi due pavoni, due cani, due gatti, un terzuolo, uno spargiere e sei galline con diciotto pollastrine.
E due galline moresche, e molt’altri uccelli, che per lo scrivere saria confusione. Trovomi tre bestiacce cattive, che sono tre Donne.
Trovomi poi da trenta figliuoli grandi, e per traino Vostre Eccellenze permetteranno bene, che hone havere di grosso. Oltre che secondo li statuti chi ha dodici figli non è tenuto a gravezze di comune. Pertanto a voi mi raccomando. Bene valete.
Sodoma Sodoma derivation M. Sodoma.

Della reazione delle autorità cittadine non è rimasta notizia. È difficile che essa si informasse al parere di quello studioso tedesco, convinto che il soprannome del pittore fosse «del tutto ingiustificato», giacché «l’animo sensibile dell’artista… era incapace di aberrazioni sessuali e di azioni contro la legge», e che si industria a farci «capire psicologicamente» che l’animo «forte e dolente» del Bazzi «portava il nome di Sodoma come una sfida».

In un caso almeno un artista dovette pagare con la vita il «peccato innominabile», probabilmente non tanto per averlo commesso, quanto per essere stato colto in flagrante nelle peggiori circostanze immaginabili. Jerome Duquesnoy (1602–54), fratello di Francois, commise sodomia in una cappella della cattedrale di Bruges, e fu condannato a morte per strangolamento.

Il rispettabile Sandrart dice di lui: «La decenza ci impedisce di nominare ciò che egli fece. Mori come era vissuto: esempio e ammaestramento a tutti, che la virtu e il vizio raccolgono la propria ricompensa»

Fonte: Rudolf e Margot Wittkover, Nati sotto Saturno. La figura dell’artista dall’antichità alla Rivoluzione francese, Einaudi, 1963, pp. 186–193

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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