Una relazione veneta su Wallenstein
Relazione di Sebastiano Venier al Senato Veneto (1630)
Il genio di un grande poeta tedesco, Fredrich Schiller, rievocò cento-cinquant’anni or sono, in una potente tragedia, la straordinaria avventura di Alberto di Valdstejn, o Wallenstein, secondo la più comune denominazione tedesca (Hermanic, 1583-Eger, 1625); e da allora gli storici soprattutto tedeschi, hanno vivamente dibattuto il problema della realtà umana e della funzione storica di questa eccezionale personalità.
Boemo e protestante di nascita, Wallenstein, dopo la sua conversione, si trovò ad esercitare una decisiva funzione nel campo cattolico tedesco, mentre la sua formazione risentiva largamente degli influssi della cultura italiana del Rinascimento, e guardava da vicino quella Germania a est dell’Elba, intrisa di elementi slavi, alla quale egli sentiva di appartenere più profondamente. Quel tanto di oscuro e di indeterminato che circonda i disegni di questo credente nelle forze della natura e negli istinti, unito alla posizione politica alla quale egli assurse come capo del più grande esercito esistente nell’Europa centrale, hanno indotto a vedere in lui l’autore di un grande disegno politico, mirante a liberare la Germania dagli eserciti stranieri che la straziavano e a risolvere il problema tedesco in termini nazionali.
È tuttavia probabile che alla vigilia del suo assassinio per mano dei sicari imperiali, durante le trattative con Francia e Svezia miranti a far di lui il nuovo re di Boemia, egli avesse in realtà perduto il controllo dei propri nervi; e forse pochi ritratti sono più vicini alla realtà dell’oroscopo che di lui tracciò un astrologo di eccezione, Giovanni Keplero, e che viene così riassunto da C. Wedgwood, The Thirty Years War [La guerra dei Trent’anni], London, 1938 (rist. 1947), pp. 171-172:
Nato sotto una congiunzione di Saturno e di Giove… le stelle di Wallenstein gli diedero una peculiare mescolanza di debolezza e di forza, di vizi e di virtù. Egli era… una mente alacre e indagatrice, insofferente dei vecchi metodi e sempre alla ricerca del nuovo e dell’ignoto, segreta, malinconica, sospettosa, sprezzante degli uomini e delle loro convenzioni. Egli sarebbe stato avaro, ingannevole, avido di potere, amante di nessuno e da nessuno amato, di umore mutevole, litigioso, senza amici e crudele.
Il documento che segue è parte della relazione finale presentata al Senato Veneto da Sebastiano Venier, ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ferdinando II durante la dieta di Ratisbona del 1630. È nota l’importanza che le relazioni degli ambasciatori veneti hanno come fonti storiche. In questi documenti si avvertie l’abile intreccio di dati personali e di considerazioni politiche in cui eccellevano quegli esperti osservatori della realtà che erano appunto i diplomatici veneti. Il testo in Fontes Rerum Austriacarum, Die Relationen der Botschafter Venedigs uber Deutschland und Oesterreich [Le relazioni degli ambasciatori di Venezia sulla Germania e l’Austria], ed. Fiedler, vol. II, Wien, 1866, pp. 147–151. Su Wallenstein e su questo periodo della guerra dei Trent’anni, oltre la cit. Wedgwood, cfr. G. Pages, La guerre de trente ans (1618–1648), Paris, 1949, pp. 99-116, 120-125, 160-170; Tapié, La France de Louis XIII et de Richelieu [La Francia dì Luigi XIII e di Richelieu], Paris, 1952 pp. 271-76, 375-391; e, in italiano, G. Spini, Storia dell’età moderna, Torino, Einaudi, 1965, pp. 561–571.
[L’imperatore Ferdinando II] Neli primi anni del suo Imperio fu invilupato in grandi travagli, angustie e pericoli per le mosse del già Principe Gabor di Transilvania, et altre solevationi della Germania, nelle quali per brevità non intendo di dilatarmi, ma per industria del Baron di Volestain s’era poi ridotto in tal stato di prosperità e felicità, che per alcuni anni ha vissuto il più florido, potente e vigoroso Imperatore che habbi avuto l’Europa da un gran tempo in qua, et tale si conserverà per quello che persuade la ragione, se non si fosse lasciato indurre a spogliarsi della più florida parte delle sue Armi per mandarle in Italia a compiacimento degl’interessi altrui et a deponer il Volestain. Questo è baron di Boemia, fu semplice capitano di cavalleria nella guerra del Friuli, ma con il suo ingegno, industria e buona fortuna si è tanto avanzato in ricchezze, credito et riputatione, che a pena si può creder: offerì nei principii all’Imperatore che non haveva in esser più che 8 mila soldati in circa in tutto l’Imperio compresi 3 mila che erano pagati da Spagnoli di accrescerli senza aggravio di lui con qualche reggimenti con che solo se le dessero buoni quartieri prima nei stati patrimoniali et poi de Prencipi più deboli, tra quelli, che s’intendeva d’opprimer, et così è andato a poco a poco avanzandosi in modo, et crescendo il numero delle militie che doppo represso il poco prudente, o temerario tentativo del Re di Danimarca, s’attrovava sotto la sua autorità, et commando un numero di 150 mila soldati circa, sparsi nella Germania, con che puote impatronirsi della Pomerania; levar gli stati alli Duchi di Michelburg[1], de quali fu lui investito con titolo di Duca dall’Imperatore, et sino alli ultimi tempi, che le è stato poi levato dal Re di Svetia ne traheva d’utile intorno a 500 mila talari all’anno liberi da tutte le spese, aggravii, e pajamenti de militie, et dominon tutta la Germania
con dissegno anco di esercitar giurisditioni nel mar Baltico, et in somma per il freno alli Protestanti in particolare, o Prencipi, o città franche, disarmati per l’interposizione de Francesi, in modo che convenivano per necessità dipender da semplici cenni di lui, senza che ardissero ne anco di dolersene; et ciò non solo senza aggravio dell’Imperatore, che non dava propria paga alle militie, ma con utili e profitti immensi perché in virtù d’esse necessitava la Germania a contributioni, che stimate moderate, et ordinarie, ascendevano a 120 mila fiorini al mese, con che però non si sono accumulati denari per li bisogni, che ne potesse haver un giorno sua Maestà, ma spesi in utile, e profitto de consiglieri, et altri favoriti, che si sono arricchiti a segno incredibile.
In tutti i tempi avanti l’assoldar militie, et davar denari per contributioni dependeva dalle diete, e dalli circoli che liberamente rissolvendo ciò, che stimavano servizio dell’Imperio o negavano, o concedevano a misura e con termine; per il che li Imperatori per l’adietro non hanno potuto né contra Turchi, né fuori della Germania operare quello, che havevano in pensiero; ma il presente in virtù di tante forze, e di tener oppressa tutta in un tratto quella gran Provincia se ne era reso assoluto patrone, con cavarne da essa quel tutto, che le fosse caduto in pensiero sino all’ultimo suo potere. In sei anni fecero li Elettori toccar con mano all’Imperatore nella Dieta di Ratisbona che 240 milioni di raistallari[2] si erano cavati di con- tributione dalla Germania, oltre altri interessi, et aggravii de particolari, che non vi sono compresi, in virtù di che poteva bene il Volestain, oltre l’avanzar grand’oro, trattarsi con la grandezza che faceva; che non era inferiore a quella di qual si voglia altro Prencipe della Germania; oltre che donava frequentemente le decene di mi- gliara de tallari, et al conte di Verdembergh per comprar una signoria ne donò 200 mila in una sol volta.
Non contento di ciò l’Imperatore, o per dir meglio il suo consiglio, insuperbito nelle prosperità e felicità, senza pensar, né al rispetto dell’Imperio Ottomano, come si conveniva, né a tanti altri accidenti, come haverebbe persuaso la prudenza, si pose in ferma rissolutione di voler che in essecutione dell’antico accordato di Possau[3], li Protestanti restituissero li beni Ecclesiastici, che possedevano, che voleva dire riddurli in estrema povertà, o miseria; con voler di più, che dalla Stiria, Carintia, et Austria, stati patrimoniali di sua Maestà, sgombrassero tutti li Protestanti, con obligo di render li loro beni in breve tempo, et violentar anco li populi nel Regno, et Provincie di Boemia ad abbandonar la loro religione, che si giudicava esser pensiero di Cesare di voler effettuar anco altrove. Quanto scontento ricevessero li Baroni delle sopradette Provincie di convenir o mutar la religione, nella quale erano nati, o il proprio nido, e vedersi sottoposti a mille spese, et interessi per esser tollerati per qualche tempo, et per fine attrovarsi in necessità di vender li loro beni con gran danno, et discapito a profitto de Ministri, e dipendenti da Cesare, che impadronendosene a vilissimi pretti, faceva credere anzi essequirsi per tal fine politico, et interessi loro, che per zelo di religione, le SS. V.V. EE.me se lo possono immaginare per loro prudenza.
Li Prencipi parimenti, che si vedevano pressati a restituire, quello che havevano hereditato da loro antenati, et che serviva al mantenimento del loro decoro et grandezza, senza di che anzi convenivano restar miserabili, et infelici, se ne rissentivano, e contristavano sommamente, massime considerando anch’essi che non dovevano tali beni restituirsi ad Ecclesiastici, perché fossero essequite le pie menti, et volontà de’ testatori, ma perché aricchiti li vescovi in particolare fossero goduti da figliuoli, et adherenti di Cesare, con esser forsi impiegati in non miglior uso di quello facevano essi, vedendo esser assigurati all’arciduca Leopoldo, figliuolo di sua Maestà, sei grossissimi Vescovati, cioè Argentina, Possa[4], Noistot, Arbestat, Magdemburg et Brem, et quello di Vratislavia ad un figliuolo del re di Polonia nipote[5], onde argomentavano, che si trattasse d’impoverirli per arricchir se stessi sotto pretesto di religione: li popoli poi in particolare di Boemia, della Slesia, et dell’Austria maggiormente infette s’attrovavano in ultima desperatione, perché si vedevano necessitati con violenza a mutar religione, o esser sottoposti alla perdita de loro beni, et a tutti li maggior aggravi delle militie, che a guisa di pecore li cacciavano violentemente alle chiese alle messe, et alla communione, il che mi confermò un buon religioso de nostri con gran displicenza, et i capi di quelle militie, benché di professione cattolica si gloriavano con derisione di esser da più di San Paolo, perché convertivano le terre intiere in un istante, come seguiva in apparenza per sottrarsi, o diminuire li loro danni, et pregiudizi con l’essempio di questi dubitavano anco altri sotto altri Prencipi, che le fosse per succeder un giorno l’istesso, onde non è meraviglia, che vedendosi tocchi al vivo nella coscienza, e nella robba, si siano posti in ultima desperatione, che somministrandole forza, vigore, et animo li habbia resi rissoluti ad azzardar il resto, pensar a tutti li rimedii et abbracciar tutte le occasioni, che se le rappresentassero per sottrarsi da pregiudicii, et danni intolerabili, ma con tutto ciò, se l’Imperatore avesse conservate le sue armi in Germania, et il commando generale nella persona del Volestain, si sariano forse doluti, e lagnati invano, perché facilmente nel principio si haveria potuto portar il rimedio ad ogni motivo, che havessero tentato per solevarsi.
Fu deposto il Volestain ad istanza degli Elettori ridotti nella dieta di Ratisbona, et in particolare del Duca di Baviera, che haven- dolo per inimico, temeva della sua forza, e delle sue Armi.
Vi condescese l’Imperatore con speranza, che in ricompensa d’ha- verli compiaciuti di tal depositione, elegessero il figliuolo re di Romania ma ne restò deluso, gloriandosi sommamente allora li Elettori di ciò che havevano industriosamente operato, et della pace d’Italia col loro mezzo accordata, che pretendevano, e con ragione, dovesse servire a gran sollievo dell’Impero.
Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età moderna, Loescher, Torino, 1966.