Un discorso antispagnolo attribuito a Giulio Genoino

La rivolta dei napoletani (1648)

Mario Mancini
8 min readJan 2, 2020

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Una incisione di Auguste Trichon che mostra un momento della rivolta antispagnola di Masaniello

Il documento che qui presentiamo è stato pubblicato da Michelangelo Schipa negli Studi dedicati a Francesco Tonaca (Napoli, 1912, pp. 305-08). Si tratta di un violento discorso antispagnolo che mira a scuotere i napoletani dalla passiva accettazione del dominio straniero, da un «letargo» che li rendeva immemori di tante gloriose tradizioni, da un «insidioso titolo di fedeltà» che si traduceva in una «crudel servitù» e in una «estrema povertà».

L’attribuzione del discorso a Giulio Genoino, (nato intorno al 1567 e morto nel 1648), è negata da Michelangelo Schipa oltre che per la diversità di stile, rilevata nel confronto con altri testi del Genoino, per la tesi principale sostenuta nello scritto — la lotta contro la Spagna — che contrasta con l’atteggiamento tenuto dal giurista napoletano che svolse, fino alla rivolta di Masaniello, una azione politica tendente ad ottenere dal governo spagnolo (vedi una supplica del 1620 a Filippo III) l’abolizione di tutta la serie di privilegi nobiliari. Anche in seguito il Genoino sostenne le ragioni della parte popolare contro il prepotere degli aristocratici, mentre nel discorso si auspica la più perfetta concordia tra le varie classi di cittadini e si attribuisce anzi ogni contrasto tra nobili e popolo alla Spagna che su di esso appunto baserebbe il proprio dominio.

Del resto, la rivolta scoppiata in Napoli agli inizi del luglio 1647, che ebbe certamente uno spiccato carattere popolare, non mirò a liberare Napoli dagli Spagnoli. Qualche tendenza di questo genere poteva eventualmente trovarsi presso alcuni aristocratici intellettuali e non presso «il fedelissimo popolo napoletano» di cui Masaniello divenne l’11 luglio del ’47 capitano generale. Genoino non avrebbe quindi potuto scrivere questo discorso né nei giorni della rivolta (perché non era la liberazione dalla Spagna l’obbiettivo della lotta), né nei giorni immediatamente successivi perché, divenuto presidente privilegiato della R. Camera della Sommaria e vicecancelliere del regno, non aveva certo motivi per incitare ad un’azione contro la Spagna. Il discorso, invece, come lo Schipa dimostra chiaramente, fu scritto nel periodo seguente, quando ormai Genoino era morto e la rivolta di Masaniello era un’esperienza politica interamente consumata.

Sul periodo cui si riferisce il documento cfr. V. de Caprariis, L’Italia nell’età della Controriforma, 1559-1700, in Storia d’Italia coordinata da N. Valeri, 2° ed. cit., II, pp. 385-775. In particolare cfr. M. Schipa, Masaniello, Bari, 1927 e G. Coniglio, Il Viceregno di Napoli nel secolo XVII, Roma, ed. Storia e Letteratura, 1955.

Non è dubio alcuno, Popolo mio, che la magnificenza e bellezza di questa città, la grandezza e fertilità del regno non siano cose per se stesse potenti, che li Spagnuoli essendo bisognosi delle vostre robbe non siano più guardigni nell’avvenire nello stabilimento di questa loro essecranda tirannide, per farvi totalmente perdere il modo e le forze nel ridomandare l’osservanza delle violate promesse; poiché assai principalmente assicurandosene come a voi per passati tempi è troppo ben chiaro (politico modo e solita scelleraggine de’ Principi) che a tempo di Don Pietro di Toledo[1] e del Duca d’Alva[2] e del Cardinale Zappata[3] con le solite promesse racquietandovi, han fatto dopo miserabil strage de’ vostri cittadini. Né hanno anche lasciato adietro modo d’impoverirvi, acciò che a voi schiavi aggiunta la miseria e povertà, per paura di maggior suplicii, si levi la forza e la cura del di nuovo risentirvi, oltre che da qui avanti eglino con apparato maggiore provvederanno nello stabilire questo dominio, che a voi non si darà più tempo di ricuperare le rotte promesse. Non si può scusare né merita compassione chi una fiata ingannato da alcuno ritorna poi incontinente al fidarsi di lui.

Duoimi bensì nell’animo, compagni miei, nel veder questa guerra fra Francesi e Spagnuoli, a calamità e miseria del nostro regno, di giorno in giorno incrudelirsi, ma sarebbe meno e più sopportabile il male, se la causa, che a loro soli appartiene, da loro stessi anco si diffinisse. Deh, che colpe ci havete somministrato voi, o cittadini, che spogliati delle vostre sostanze, levati dalle vostre sedie, sete a viva forza come schiavi lacerati e menati prigioni? Che letargo dunque è questo, che sì ottusa vi rende la mente? Che vano fantasma è che v’ingombra l’intelletto? Deh che aspettate? che non date rimedio a’ vostri mali? Vi imaginate forse che coloro, che i primi privilegi mantenuti sin’hora non v’hanno, v’habbino questi ultimi da osservare? Ma viepiù de’ bruti stolti, se vi fidate di coloro che non una ma più volte hanno mancato alle promesse fattevi. Miseri voi Napolitani, se per vostra sciagura vi date a credere che questi barbari più da voi denari e genti non vogliano. Con che hanno mantenute sì lunghe guerre? e con che vi supponete di doverli nudrire per l’avvenire? Non si sa ben da voi la grande avaritia et infinita cupidità che hanno del vostro sangue? Laonde quanto più cercate vetarglielo tanto più sitibondi ne gli renderete.

Non avete o non volete dunque modo, o Cittadini, di guardarvi di tanto inganno e miseria? Nelle cose di Stato è somma infamia non dar rimedio, quando l’imprudenza viene accompagnata co’l denaro. E quando giamai sì buona e sì opportuna occasione vi si presenterà? È cosa certa esser difficile ad un popolo di tanta moltitudine come questa nostra città ad un tratto unirsi et insieme armarsi. Sono rare le buone occasioni, e però è prudenza e magnanimità grande quando le si presentano l’accettarle. Vi ha hormai Dio già dato nelle mani della fortuna, se pure questa sarà da voi con limpido occhio conosciuta. Ecco ancora la Sicilia, d’un pezzo fa ammutinata, quasi sospesa per vedere a cui la prima gloria di liberatori della patria si debba.

Ma ditemi, o forsennati, perché vi credete che costoro per hora tanto s’humiliino, con addolcirvi con lecchetti d’ampli privilegi, se non per dar tempo al tempo, acciò, scioltasi questa tumultuaria unione, possino poi più fieramente a lor bell’aggio incrudelir con le vostre persone; purtroppo lugubri esempi avuti ne havete, come di già ho accennato, a tempo dell’Alva, Toledo et altri, essendo all’hora stati i vostri antecessori, servendo per tragedia miserabile a tutta Europa, non che all’Italia, malamente e con vituperio fatti morire.

La pace, o miei compagni, è desiderabile e santa, quando non aumenta il pericolo e quando induce gli huomini a potersi riposare. Ma quando partorisce effetti contrari, egli è sotto salutifera medicina pestifero veleno e sotto nome specioso di pace una crudelissima guerra.

Ma, se per avventura altra cosa non vi muove, muovavi almeno il desio di dolce assaggio della desiderata libertà. Perché non vi destate da questo mal conosciuto letargo all’esempio di tanti maggiori? Che cosa Roma ha lasciato a dietro di fare per scuotersi dal giogo di tanti tiranni! Che dirò d’Athene, Sagonto, Firenze, Siena, Olanda e tanti altri? E li vostri stessi progenitori a quanti pericoli sono subentrati accioché i Vandali, i Svevi et Aragonesi dal duro imperio discacciassero.

Deh, per vostra sciagura, perché non v’accorgete che dentro a questo vostro insidioso e da voi mal conosciuto titolo di fedeltà si nasconde una crudel servitù che partorisce una estrema povertà, cagionando l’ultimo di tutti i mali, la morte?

Ma qual gente più fedel fu mai de’ Svizzeri, i quali per essere essemplare della libertà e fedeltà della patria, si riscossero non solo dalla tirannide dell’imperio, ma anche discacciarono la nobiltà con fame e sterminio, per paura di nuovo di non inciamparvi. Se siano scopo di vera fedeltà lo testifichino tutti i potentati d’Europa, che a paragone di tutte l’altre nazioni gli si confidano in mano le proprie persone: e pure furono quattro bifolchi aratori. Hor dunque che farete voi, se voi volete? Oltre che non ve s’ha da osservar fede a tiranni, ma alla patria, mentre quelli senza ritegno nel metter modo alle rapine signoreggiano. Ma per lo più alle moltitudini sogliono piacere più li consigli speciosi e vaghi che salutiferi e maturi, impercioché vi parrà forse di fare a bastanza, mentre da questi vicoli negligentemente abbaiate. Ah, che altro non fate se non che domandar tacitamente la forca et il carnefice per dar l’ultimo fine a questa noiosa vita?

Andiamo dunque tutti (già Dio ci ha tutti radunati) deliberate insieme a cacciarli da quelle tane, che a guisa di tante fiere, doppo lungo assassinamento refugando, si ricoverano. Non si deve differire, né da’ voti femminili attender l’aiuto. Sdegnano quelli più tosto Dio che lo rendino propitio non essendo suo solito di giovare a quelli che da loro stessi non s’aprono la via a quel che chieggono. Non comandò anch’egli stesso a gli Ebrei che, fattosi lor capitano Moisè, per mezzo delle proprie armi si levassero dalla lunga e brutta servitù dell’Egitto, discacciando et espugnando tante città e popoli, per via delle medesime spade?

Non sete voi quelli, e pur quelli sete, che, in Fiandra et ovunque altro luogo offerta vi sia l’occasione, havete chiaramente dimostrato a’ stranieri il vostro valore? E dove vi s’offerirà occasione maggiore o tempo migliore che a pro della comune libertà, per sottrarvi da tanti pericoli, spender possiate più gloriosamente la vita? Sete nulladimeno, o miei compagni a termini tali venuti che in tanta tempesta o havete servendo miseramente a morire, o fecendo un bel sforzo a voi stessi liberamente a comandare, essendo principalmente hormai delle leggi e delle robbe spogliati a segno tale che, per ovviare alla fame, gli ultimi servili alimenti non vi restino. Un solo e non più rimedio vi avanza di svegliar da voi stessi quel valore che la paura scioccamente v’opprime.

Non vedete quel barbaro nemico giurato a vostri danni beffeggiarsi di voi et aspettar tempo più opportuno per assaltarvi, anzi con ogni studio cerca dissunir questo corpo della nostra città, stimato e ben conosciuto da lui per formidabile, facendo nascere dissentione fra nobiltà e nobiltà, popolo e popolo, affinché, nascendo dissentioni fra di voi, vi divideste in membri inutili, e lui con tale occasione possa più agevolmente incrudelir nel vostro sangue. E come già mai, se non havesse seminato queste scellerate zizanie, haverebbe potuto per l’adietro con si poca gente Spagnuola tiranneggiare questo misero regno?

Aprite gli occhi a questo inganno e stimate che dalla vostra dissunione proviene la vostra rovina. La libertà è preggiabile perché è comune a tutti: la causa dunque è di tutti et conviene il risentirsi. O balordi, se non ve n’accorgete et, accorgendovene, più che figli stolti, se non ci provedete. Non udite i fanciulli che sin dalla culla quasi gridando dicono: O padri, hormai che più robba da lasciarci non havete, lasciateci almeno la libertà, accioché per mezo di quella possiamo meglio provedere a’ nostri bisogni.

Non siate voi come questi altri cavalieri di Seggi, quali a nostre spese vendono i loro voti al tiranno e s’arricchiscono humilmente servendo quello, per quindi poi superbamente comandarci.

Né vi faccia, Napolitani miei, vana paura la di loro forza, essendosi lasciati ributtare dalle sette provincie di Fiandra, da’ pescatori Olandesi, da’ Portoghesi su le loro frontiere: et accompagnati dalle vostre forze non hanno potuto far nulla: hor che faranno, privi di voi, contro voi stessi?

Le cose, che da principio molto spaventose si rappresentano, si vanno di giorno in giorno diminuendo. Andiamo dunque con l’aiuto divino a discacciarli da quelle spelonghe, ultimo lor rifugio e fondamento della tirannide.

Note

[1] Viceré di Napoli dal 1532 al 1333 (R.T.).

[2] Fernando Alvarez de Toledo, terzo duca d’Alba (vedi sopra, p. 58), figlio del precedente (R.T.).

[3] Antonio Zapata, viceré di Napoli dal 1620 al 1622 (R.T.).

Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età moderna, Loescher, Torino, 1966.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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