Un condannato a morte è fuggito

Mario Mancini
52 min readMay 12, 2021

I film di Robert Bresson nella critica italiana del tempo
Aller à la serie “Bresson par Bresson”

I passi veloci della ritrovata libertà nella bruma mattutina di Lione. Un treno che è appena rilasciato una scia di fumo che avvolge la scena di chiusura del film, accompagnata dalle note della “Messa in do minore” di Mozart.

Fontaine: “Che posso fare per Voi?”
Blanchet: “Niente!

“Fossi stato solo non sarei riuscito a fuggire.”
Fontaine a Jost, il giovane compagno di evasione

È la storia vera (il tenente André Devigny la pubblicò nel 1954 sul “Figaro Litéraire”) della fuga di un partigiano dalle prigioni naziste. Devigny scappa una prima volta, lo riprendono e lo rinchiudono nel forte di Montluc a Lione. Qui apprende la sua condanna a morte. Con pazienza certosina prepara una nuova evasione che stavolta gli farà guadagnare la libertà. Una trama avventurosa diviene per Robert Bresson (nel suo momento più creativo) meditazione sulla vita, i rapporti umani, le aspirazioni dell’uomo. Nella descrizione minuta dei preparativi di fuga (una spilla serve come grimaldello per aprire le manette, il materasso intrecciato con il fil di ferro diventa una fune) c’è più tensione che in un giallo di Hitchcock (oltretutto ottenuta con un linguaggio che più spoglio, meno melodrammatico e “spettacolare” non potrebbe essere). È uno degli indiscussi capolavori di tutto il cinema.

François Truffaut

Per me Un condamné à mort s’est échappé è non soltanto il più bel film di Robert Bresson, ma anche il film francese più significativo degli ultimi anni. (Prima di scrivere questa frase, ho avuto cura di scrivere su un foglio i titoli di tutti il film che Renoir, Ophüls, Cocteau, Tati, Gance, Astruc, Becker, Clouzot, Clément e Clair hanno realizzato dopo il 1946).

Mi rammarico di aver scritto proprio qui, qualche mese fa: “Le teorie di Bresson non cessano d’essere avvincenti, ma sono così personali che non si addicono che a lui solo. L’esistenza in futuro di una “scuola Bresson” farebbe tremare gli osservatori più ottimisti. Una concezione a tal punto teorica, matematica, musicale e soprattutto ascetica del cinema non potrebbe generare una tendenza”.

Devo oggi rinnegare queste due frasi perché Un condamné à mort s’est échappé mi sembra polverizzare un certo numero di idee che presiedevano alla costruzione di un film, dallo stadio della stesura della sceneggiatura fino a quello della messa in scena e della direzione degli attori.

In molti film d’oggi si trova quello che si chiama un “pezzo di bravura”. Questo significa che il regista è stato bravo, ha cercato di superare se stesso durante le riprese di una scena o due del suo film. A questo proposito, Un condamné à mort, film dell’ostinazione, sull’ostinazione, realizzato da un oriundo dell’Auvergne, è il primo film di una bravura integrale. Cerchiamo di esaminare in che cosa questo film si differenzi da quelli che si vedono in un anno.

Si cita molto spesso una dichiarazione di Bresson: “Il cinema è il movimento interiore”. Non è per il piacere di vedere i teorici lanciarsi su una falsa pista che egli ha lanciato questa frase che è stata forse troppo affrettatamente interpretata come una professione di fede? I commentatori hanno deciso che è la vita interiore dei suoi personaggi, il loro animo, che preoccupano Bresson mentre invece si tratta forse più sottilmente del movimento interiore del film e del suo ritmo?

Jean Renoir dice spesso che il film è un’arte più privata della pittura e che un film è fatto per tre persone. Quanto a Bresson, lui certamente non ha al mondo tre spettatori per i quali la sua opera sia senza mistero. Occorreva tutta l’incoscienza dei critici di quotidiani per parlare di debolezze degli attori in Le journal d’un curé de campagne. La recitazione degli attori in Robert Bresson si colloca al di là del “vero” o del “falso”. Essa suggerisce essenzialmente un atteggiamento, una condizione, una “difficoltà di essere”, una qualità di sofferenza. Robert Bresson è forse un alchimista a rovescio: parte dal movimento per raggiungere l’immobilità, il suo setaccio scarta l’oro per raccogliere la sabbia.

Per Bresson, i film vecchi e nuovi non ci presentano che un’immagine deformata del teatro, la recitazione degli attori è una questione di esibizionismo e, secondo lui, si andranno a vedere fra venti anni il film d’oggi per guardare “come recitavano gli attori a quei tempi”. Nessuno ignora in effetti che Robert Bresson, nei suoi film, dirige gli attori costringendoli a non recitare “drammaticamente” a non sottolineare, a fare astrazione dal loro “mestiere”. Si sa anche che vi arriva uccidendo in loro ogni volontà, stancandoli con un numero incalcolabile di ripetizioni e di riprese e con un lavoro che evoca l’ipnotismo.

Con il suo terzo film, Le journal d’un curé de campagne, Robert Bresson ha scoperto che aveva interesse a rinunciare agli attori professionali e anche ai debuttanti a favore di interpreti occasionali scelti per il loro fisico — e anche per il loro “morale” — creature nuove che non si portano dietro nessun tic, nessuna falsa spontaneità, di fatto, nessun “mestiere”. Se non si trattasse per Bresson che di uccidere la vita e nello stesso tempo l’attore che c’è in ogni uomo e di far recitare davanti alla cinepresa individui smozzicando un testo volutamente neutro e senza asperità, il suo lavoro sarebbe di interesse tutto sommato sperimentale, ma lui va più lontano e, a partire da un interprete sprovvisto di tutto ciò che proviene dal teatro, crea un personaggio il più vero possibile, ogni gesto del quale, ogni sguardo, ogni atteggiamento e ogni reazione sono essenziali persino ogni parola, non una più alta dell’altra; e l’insieme crea una forma che fa un film.

In questo lavoro, la psicologia, la poesia non hanno nessuna parte; si tratta di ottenere una certa armonia combinando più elementi il cui scontro tra loro provoca un’infinità di rapporti: la recitazione e il suono, gli sguardi e i rumori, le scene e l’illuminazione, il commento e la musica. Il tutto farà un film di Bresson, cioè una sorta di risultato miracoloso, che sfida l’analisi e che, se è perfetta, deve suscitare nello spettatore un’emozione più nuova e più pura.

Si vede che Bresson, il quale lavora in una direzione radicalmente opposta a quella che seguono i suoi colleghi, è ostacolato nel suo contatto con il pubblico da tutti i film che sollecitano l’emozione con i mezzi meno nobili, più facili ed effettivamente teatrali. Per Bresson come per Renoir, Rossellini, Hitckcock e Orson Welles, il cinema è uno spettacolo certo, ma l’autore di Le journal d’un curé de campagne si augurerebbe che questo spettacolo fosse specifico, che le sue leggi siano inventate e non mutuate da generi già esistenti.

Un condamné à mort s’est’ échappé è il racconto minuzioso dell’evasione di un uomo, si tratta di fatto di una ricostruzione maniacale e il comandante Devigny che visse l’avventura trent’anni fa non ha abbandonato il set continuamente sollecitato da Bresson a mostrare all’attore anonimo come si tiene un cucchiaio in cella, come si scrive sui muri e come si dorme.

Non si tratta né di una storia né di un racconto né di un dramma. Solamente della descrizione di un’evasione attraverso la ricostruzione di alcuni dei gesti che la rendono possibile. Tutto il film è fatto di primi piani di oggetti e del primo piano del volto dell’uomo che maneggia questi oggetti.

Un condamné à mort s’est échappé, che Robert Bresson voleva intitolare Il vento soffia dove vuole, costituiva innanzi tutto un’esperienza estremamente pericolosa, poi è diventata un’opera emozionante e nuova grazie al genio ostinato di Robert Bresson che ha saputo, prendendo in contropiede tutte le forme di cinema esistente, accedere a una verità inedita attraverso un nuovo realismo.

Il suspense, perché c’è anche un certo suspense in Un condamné à mort s’est échappé, è creato naturalmente, non sulla dilatazione della durata, al contrario sulla sua evaporazione. Grazie alla brevità delle inquadrature e alla rapidità delle scene, non si ha mai la sensazione di una scelta di momenti privilegiati; viviamo realmente con Fontaine nella sua prigione, non per novanta minuti ma per due mesi ed è avvincente!

Il testo, estremamente laconico, alterna il monologo interiore del protagonista, quando è solo, e il dialogo utilitario; il passaggio da una scena all’altra è fatto con l’assistenza di Mozart. I rumori sono di una realtà allucinante: rotaie, chiusura di porte, rumore di passi ecc.

D’altronde, Un condamné à mort s’est écbappé è il primo film di Bresson che sia perfettamente omogeneo, senza una sola inquadratura sbagliata, conforme da cima a fondo, mi sembra, alle intenzioni dell’autore. La “recitazione alla Bresson”, un falso vero che risulta ben presto più vero del vero, si impone qui anche per i personaggi più secondari.

Grazie a questo film, ecco Robert Bresson acclamato anche da quelli che undici anni fa fischiarono Les dames du Bois de Boulogne.

Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975

Un condamné à mort s’est échappé, in quanto si oppone radicalmente a tutti gli stili di regia, sarà, penso, meglio apprezzato da chi si reca al cinema occasionalmente, una volta al mese, piuttosto che da un pubblico che, senza essere cinéphile, è assiduo e la cui sensibilità è spesso deformata dal ritmo dei film americani.

Ciò che colpisce, quando si vede un film di Robert Bresson per la prima volta, è lo scarto costante tra quello che quest’opera è e quello che sarebbe, o sarebbe stata se realizzata da un altro cineasta; sulle prime non si avvertono che le mancanze e si sarebbe tentati di rifare la sceneggiatura indicando le inquadrature da girare perché il film assomigli a quello “che si fa al cinema”.

Di fatto, tutti hanno notato la mancanza di inquadrature di insieme e sono rimasti frustrati non sapendo quello che Fontaine esattamente vedeva dalla finestrella e nemmeno dal tetto della sua prigione. È così che dopo una prima visione la sorpresa rischia di averla vinta sull’ammirazione e che André Bazin ha potuto spiegare che era più facile descrivere ciò che il film non è piuttosto che quello che è.

Bisogna dunque rivedere Un condamné à mort s’est échappé per apprezzarne appieno le bellezze. A una seconda visione, più niente ci impedisce di adattarci, secondo dopo secondo, all’andamento del film, di una velocità incredibile, e i nostri piedi si posano sulle impronte ancor fresche lasciate non si sa bene se da Leterrier o da Bresson.

Il film di Bresson è puramente musicale, il ritmo è la sua ricchezza essenziale. Un film parte da un punto per arrivare a un altro. Ci sono quelli che fanno delle deviazioni, quelli che si fermano compiaciuti per il piacere di gustarsi una scena gradevole, quelli ai quali mancano dei pezzi, ma colui che imbocca la strada dritta fende la notte al ritmo di un tergicristallo: le dissolvenze incrociate spazzano regolarmente sullo schermo la pioggia delle immagini alla fine di ogni scena. Ecco uno di quei film di cui si può dire che non contengono una sola inquadratura inutile, non un’inquadratura che si possa spostare o raccorciare; in breve ecco il contrario di un film “fatto al tavolo di montaggio”.

Un condamné à mort s’est échappé è tanto libero e poco sistematico quanto è rigoroso. Bresson non si è imposto che le unità di luogo e d’azione; non solo non ha cercato che il pubblico si identificasse con Leterrier (che interpreta il tenente Fontaine), ma ha anche reso questa identificazione impossibile. Noi siamo con Leterrier, accanto a lui, ma non vediamo tutto quello che vede (solamente ciò che si riferisce al soggetto, vale a dire l’evasione), ma non vediamo mai più di quello che lui stesso vede.

Ciò costringe a scrivere che Bresson ha polverizzato il montaggio classico nel quale l’inquadratura di uno sguardo non aveva valore che in rapporto a quella seguente che mostrava la cosa guardata; questa forma di montaggio faceva del cinema un’arte drammatica, una sorta di teatro filmato. Bresson manda tutto in frantumi e se, in Un condamné à mort s’est échappé, i primi piani di mani e oggetti rinviano comunque a primi piani del volto, la successione di queste inquadrature è organizzata non più in funzione di una drammaturgia della scena, ma di una armonia prestabilita costituita dai rapporti sottili tra elementi visivi e sonori, in quanto ogni inquadratura di mani e di sguardo conserva la sua autonomia.

Ci sarebbe quindi tra la regia tradizionale e quella di Bresson lo stesso scarto che c’è tra un dialogo e un monologo interiore.

La nostra ammirazione per il film di Bresson non deve essere suscitata dalla scommessa che sta alla base dell’impresa — un solo personaggio in una cella per ottanta minuti — perché questo tour de force non è unico e, a partire da questo dato, non dubitate che molti cineasti, Clouzot, Dassin, Becker e altri, avrebbero condotto a termine un film dieci volte più palpitante e “umano” di quello di Bresson. Ciò che importa qui è che l’emozione, anche se non deve essere provata che da uno spettatore su venti, è di natura più rara e che, lungi dall’alterare la nobiltà del proposito, gli conferisce una grandezza che non è implicita nel dato di partenza.

Il film insomma rivaleggia per alcuni secondi con Mozart, i cui primi accordi della Messa in do minore, lungi dal simboleggiare la libertà come si è scritto, danno all’operazione dello svuotamento dei buglioli un aspetto quasi liturgico.

Non credo che, nello spirito di Bresson, Fontaine sia un personaggio molto simpatico, non è il coraggio che lo incita a evadere, ma la noia, l’ozio; una prigione è fatta per evadervi e, in tutti i casi, il nostro eroe non deve il suo successo che alla fortuna; il tenente Fontaine di cui non sapremo niente altro, ci è mostrato in un periodo della sua esistenza in cui fu particolarmente interessante e fortunato; è con un certo distacco che commenta la sua azione un po’ come un conferenziere a Pleyel racconta la sua spedizione commentando il film muto che ne ha riportato: “Alle quattro pomeridiane abbandonammo il campo base…”.

Il grande apporto di Robert Bresson è evidentemente la sua teoria della recitazione degli attori. È certo che la recitazione di James Dean che ci colpisce tanto oggi o quella di Anna Magnani rischiano di farci ridere tra qualche anno come quella di Pierre-Richard Wilm oggi, mentre quella di Laydu in Le journal d’un curé de campagne e quella di Leterrier in Un condamné à mort s’est échappé si imporranno con ancora più forza perché il tempo, non dimentichiamolo, lavora sempre per Bresson.

È in Un condamné à mort s’est échappé che la direzione bressoniana degli attori dà i suoi migliori risultati; non è più la voce felpata del piccolo curato di Ambricourt, non è più il dolce sguardo del “prigioniero della santa Agonia”, ma la dizione netta e secca del tenente Fontaine, i suoi sguardi pieni, diretti come quelli di un uccello da preda; e d’altronde è proprio come un avvoltoio che si getterà sulla sentinella sacrificata. La recitazione di Leterrier qui non è da meno di quella di Laydu: “Parlate sempre come se parlaste a voi stessi” chiede Bresson che indirizza tutti i suoi sforzi a filmare il volto umano o meglio la gravità del volto umano.

“L’artista ha un grande debito verso il volto dell’uomo e se non arriva a metter in valore la sua dignità naturale dovrebbe per lo meno tentare di dissimulare la sua superficialità e la sua stupidità; può darsi che su questa terra nessun uomo sia stupido o superficiale ma non dà quest’impressione che in quanto non si trova a suo agio non avendo trovato quell’angolo dell’universo in cui sentirsi bene”.

Questa ammirevole riflessione di Joseph von Sternberg costituisce credo il migliore commento possibile di Un condamné à mort s’est échappé.

Un’influenza di Bresson sui cineasti francesi — o stranieri — mi sembra inconcepibile e, tuttavia, di fronte a un film come questo si percepiscono più nettamente i “limiti” dell’altro cinema. Un condamné à mort s’est échappé rischia di renderci troppo esigenti e persino troppo severi con la crudeltà di Clouzot, lo spirito di René Clair, l’accuratezza di René Clément…C’è sicuramente qualcosa di nuovo da scoprire nell’arte del film, qualcosa che ruota attorno a Un condamné à mort s’est échappé.

Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975

Adelio Ferrero

Da La converso di Belfort, che è del 1944, a questo film le ricerche e le conquiste di Bresson si muovono essenzialmente in una direzione di linguaggio, di stile e Un condannato a morte è fuggito è certamente il frutto più meditato e maturo di questa ricerca assidua e infaticabile. Questa volta, contrariamente al solito, Bresson non prende le mosse da un testo di alta suggestione letteraria, il Diario di Bernanos, e non annovera tra i suoi collaboratori gli esponenti più appartati o clamorosi di certa cultura francese fra le due guerre (un Giraudoux o un Cocteau): l’avvio dell’opera è costituito invece dalle memorie di un partigiano francese, il maggiore Devigny, da un episodio della Resistenza.

Lo stesso Bresson ha scritto il soggetto, la sceneggiatura e i dialoghi dando libero corso alla sua ben nota aspirazione (e un film deve essere opera d’uno solo e far entrare il pubblico nel mondo di questo “uno”, cioè nel mondo che gli è proprio”).

E tuttavia il riferimento più diretto alla Resistenza è dato da quell’avvio asciutto e austero che inquadra la lapide commemorativa del carcere di Lione: il seguito sarà costituito da accenni allusivi e da presenze evocatrici (gli elmi tedeschi, a esempio, costantemente in primo piano). Il film infatti è essenzialmente la storia, anzi la cronaca interiorizzata, il diario, ma senza compiacimenti ed indugi, di fuga, di una evasione: quella del tenente Fontaine, il protagonista, che ad essa pensa sin dall’inizio del film che coincide col momento dell’arresto.

Ma il primo tentativo, irrazionale e istintivo, fallisce proprio perché non è diretto dall’intelligenza e dalla ragione. Esso riuscirà invece nella misura in cui l’idea dominante del film, la fuga, sarà profondamente meditata e tradotta in un piano minuzioso e calibratissimo: una sfida dell’intelligenza e del perseverante coraggio dell’uomo agli ostacoli più insormontabili e agli accadimenti più imprevedibili. Ed è proprio questa esperienza minuziosa e sorvegliatissima che conferisce all’opera la sua singolare suggestione.

La presentazione stessa del carcere evita accuratamente i modi di un inquadramento oggettivo, la prigione è sentita come una presenza vincolante e limitatrice: alte mura di un bianco accecante che racchiudono l’uomo in uno spazio ristretto e soffocante (la cella di Fontaine, i corridoi, il fossato della cinta inquadrati dall’alto), ombre di inferriate e di sbarre, silenzio carico di risonanze, rumori secchi e lancinanti (le chiavi del secondino che scorrono lungo la ringhiera delle scale).

Elementi questi che sottolineano la solitudine del protagonista e l’esperienza di Fontaine matura non a caso in un clima di solitudine altissima. E tuttavia la sua esperienza percorre un arco diverso da quello della conversa di Belfort e del curato di campagna: Fontaine soffre, riflette, si risolve all’azione a contatto di altri, è influenzato e sorretto dagli atteggiamenti e dalle esperienze dei compagni di pena.

Dopo aver colto le reazioni iniziali di Fontaine (istintivo senso di autoconservazione e risentita difesa della propria dignità avvilita di fronte ai carcerieri, scoramento e abbandono di fronte a se stesso), Bresson ne articola l’esperienza modulando il ritmo dell’opera secondo tre momenti fondamentali e ricorrenti: la solitudine della cella, i brevi dialoghi col vecchio Blanchet, il prigioniero della cella accanto, e le passeggiate mattutine.

Nella cella, il rapporto di Fontaine è con gli oggetti, gli strumenti della sua liberazione; il materiale plastico assume qui un rilievo e una funzione essenziale: i cucchiai, i trucioli degli assi smossi, i ganci della rete metallica, la coperta sminuzzata in pezzi e strisce e tante altre cose comuni e insignificanti si trasformano in armi liberatrici.

È la rivincita dell’intelligenza, del paziente operare, dell’amore per la vita contro gli ostacoli che imprigionano e uccidono. Il ritmo lento e grave delle passeggiate mattutine sottolinea l’avvilimento e l’alienazione di una condizione umana: i dialoghi dei prigionieri sono brevi, allusivi, carichi di interna tensione. Eppure questo intrecciarsi di monosillabi, di sguardi intensi, di rapide intese crea un clima comune, una sorta di fraternità accennata con discrezione e pudore.

L’evasione di Fontaine, non c’è dubbio, matura tra gli ammonimenti sfiduciati di Blanchet, una voce di prudenza che è solo spavento e tremore, e il generoso e sfortunato tentativo di Orsini. Grazie a loro e con l’aiuto di Jost, il sudicio ragazzo sbandato a cui si devono dire parole dure e impietose, proprie di un momento che non consente infingimenti e dolcezze. Fontaine Evaderà dal carcere. I passi rapidi dei due evasi che si allontanano nella notte lasciano nello spettatore quello che il Jacobs chiamerebbe un senso di profonda esultanza.

Per questa partecipazione commossa che suscita, per l’austero timbro morale che la sorregge e per gli altri motivi accennati, l’ultimo film di Bresson non è soltanto un’altissima esercitazione dì stile, la cui estrema castità di linguaggio sfiora continuamente il limite dell’artificio prestigioso, ma un’opera di apertura, di interno arricchimento rispetto alle precedenti prove del regista, dove un fenomeno di vasto respiro storico è rivissuto nel modo più indiretto e allusivo, a volte persino sfuggente, alla luce di una esperienza individuale di moralità, che rischia a tratti di arenarsi nelle secche di un caso limite vertiginoso. E infatti, dopo una visione attenta e meditata, resta un’impressione di disagio e dì perplessità, un sospetto di freddezza e di povertà.

Bresson ci ha narrato l’esperienza di un’evasione eliminando, scartando, riducendo al minimo tutto ciò che è esterno, convenzionale trasformando la volgare suspense in tensione dell’intelligenza e della moralità. La sua vocazione all’analisi e al saggismo esercitati su sentimenti e idee trova forse qui la sua più compiuta espressione. Eppure si ha l’impressione che tutto si svolga sotto una campana di vetro, in un’atmosfera tanto rarefatta da divenire impalpabile, col rischio che, insieme a ciò che è comune e banale, si perda anche l’aspro sapore della realtà e della vita a vantaggio di una calligrafica purezza, e sia pure di primissimo ordine.

“Che cosa è il cinema? Ritmi. E al tempo stesso rapporti, incrociarsi di rapporti, di opposizioni, di colpi, di scambi tra una immagine e tutte le immagini, tra una immagine e il suono”. È Bresson che parla e il tono delle sue parole ha qualche cosa di lontano e di estraneo: i limiti di questa poetica sono forse alle radici del disagio e della perplessità a cui abbiamo accennato.

Da Cinema Novo, 1956

Adelio Ferrero & Nuccio Lodato

autorizzati, il nome di Bresson svettava solitario per unanimità di consensi e devota ammirazione.

Del cinema francese di quell’anno, Rohmer salvava e apprezzava soltanto i film di Bresson (Un condannato a morte è fuggito) e di Renoir (Eliana e gli uomini), Rivette, pur collegando il regista all’aspetto reazionario di certa cultura letteraria francese, non aveva dubbi: «Esiste ancora un uomo di cinema integro: Bresson. Era il solo». È anche l’opinione di Godard, espressa con il consueto calore in quello stesso numero dei «Cahiers»: «Nel mondo d’oggi, in qualsiasi campo, la Francia, d’ora innanzi, potrà brillare soltanto con opere d’eccezione. Robert Bresson conferma questa regola per quanto riguarda il cinema. Egli è il cinema francese come Dostoevskij il romanzo russo e Mozart la musica tedesca».

L’unanimità si spiega facilmente: per i redattori dei Cahiers, pronti a rivendicare in ogni modo e in ogni occasione un “cinema d’autore”, Bresson era stato, e continuava a essere, in anticipo sui tempi. Della nozione d’“autore”, anzi, egli sembrava essere l’incarnazione vivente, la conferma esemplare: tre film in dodici anni, meditati e scritti con rigorosa concentrazione, in spregio a tutte le convenzioni del “mestiere” e della “qualità”.

Egli era l’altra faccia del cinema francese: la più vera anche se la meno nota, la più feconda anche se la meno seguita. L’ammirazione per Bresson, al di là della rarefatta mitologia che si accompagnava alla sua presenza (una mitologia nutrita di solitudine, di rigore, di insofferenze: il modo di lavorare schivo e appartato, l’ostentata indifferenza al cinema degli altri), risaliva — si è visto — alle sottili analisi di Bazin il quale aveva parlato, per Les dames du Bois de Boulogne, di stilizzazione non determinata a priori, per via di astrazione simbolica, ma perseguita e raggiunta attraverso la dialettica del concreto e dell’astratto, e aveva salutato, nel Diario, l’alba di una nuova drammaturgia nella quale i soli fatti e movimenti sensibili, gli unici che davvero contassero, erano quelli della vita interiore.

Tuttavia, a proposito del Condannato, mentre Bazin vi ritrovava, esaltandosene, la conferma di una spiritualità che non aveva nulla in comune con le limitazioni della psicologia, uno dei suoi allievi più dotati e impazienti, Eric Rohmer, preferiva fermarsi sulla “prosaicità” della battaglia del protagonista e sulla bellezza di una tensione che scaturiva dal ritmo ordinario della vita, fuori degli usuali schemi drammatici. Qualcuno non mancò di opporre caute riserve: Truffaut aveva già osservato, l’anno prima, che una concezione così teorica, matematica, musicale e, soprattutto, ascetica del cinema conveniva soltanto a chi l’aveva elaborata e la stava praticando: una “scuola” bressoniana, secondo Truffaut, era inconcepibile.

Proprio l’opposto, si sottintendeva, di quanto era avvenuto e avveniva con Rossellini, sempre aperto a nuovi rischi ed esperimenti e pronto a cogliere, e a suscitare, energie e potenzialità diffuse. Rossellini e Bresson diventavano così, più o meno esplicitamente, i poli di un’antitesi che sarebbe tornata spesso nella vicenda delle oscillazioni, teoriche e pratiche, della Nouvelle Vague: la disponibilità e il ritegno, l’avventura e la solitudine, l’infedeltà e la coerenza.

Un partigiano prigioniero, Fontaine, arrestato dai tedeschi occupanti, tenta invano la fuga dall’auto che lo conduce alla prigione: viene percosso e gettato nella cella sanguinante, sfigurato e privo di sensi.

La mattina successiva, fingendosi immobilizzato, evita l’interrogatorio, osserva il cortile dall’alta inferriata della cella, entra in contatto con un altro detenuto, Terry, grazie al cui aiuto riesce, di nascosto, a scrivere ai propri cari e a porsi in condizione di sfilarsi le manette grazie a una spilla.

Riceve finalmente del cibo. Dopo un colloquio nel quale s’impegna a non ritentare la fuga, viene trasferito a una nuova cella al piano superiore.

Comincia a sperimentare il rituale della discesa in fila in cortile per lo svuotamento del bugliolo e la pulizia personale al lavatoio. Fa la conoscenza di Hébrard e del pastore Deleyris.

Scopre che tanto la porta che le assi del pavimento non sono poi così solide: basta un cucchiaio affilato di metallo più consistente, per aprire lentamente un’invisibile sconnessura.

Un anziano compagno di prigionia aiutato a rialzarsi in cortile dopo una caduta, Blanchet, gli sconsiglia la fuga, che esporrebbe a rappresaglie i colleghi di detenzione. Ma Fontaine prosegue invece imperterrito a scavare, sostituendo fortunosamente con un nuovo cucchiaio quello che gli si spezza. Ormai le assi sono occultamente rimuovibili, consentendogli addirittura di sperimentare uscite clandestine dalla cella.

In un’altra ora d’aria fa la conoscenza anche di Orsini, che gli si offre come compagno di fuga e gli dà indicazioni preziose. Poi agisce però individualmente in modo imprudente, e il suo tentativo viene sventato e si conclude con la notizia della sua fucilazione. Fontaine persevera, e utilizza la possibilità di uscire in segreto dalla cella rientrandovi, per contattare e incoraggiare i compagni.

Ottiene in contraccambio, da Blanchet e da altri, i materiali che gli occorrono per proseguire nel suo piano: coperte e stoffe da congiungere grazie al filo di ferro della rete della branda. In capo a un mese si sente pronto: giusto in tempo per apprendere la conclusione dell’Istruttoria a suo carico, con susseguente condanna a morte.

Tutto si complica con l’assegnazione alla sua cella di un giovane, Jost, ch’egli sospetta di collaborazionismo. Fontaine gioca allora il tutto per tutto: esplicita le proprie intenzioni al nuovo compagno, fino a convincerlo a prendere parte alla fuga. Che incredibilmente riesce, pur comportando l’uccisione di una sentinella. Ad adempimento dei versetti di Giovanni passatigli occultamente dal pastore: «Il vento soffia dove vuole: ne senti la voce, ma non sai né da dove viene né dove va».

Del resto, da qualsiasi punto di vista lo si considerasse, il film di Bresson risultava estraneo alle tendenze prevalenti nel cinema europeo. Rispetto alla tradizione del “realismo” antifascista e resistenziale, emergeva clamorosamente l’irriducibilità dell’opera allo schema epico-dimostrativo oltre che, ovviamente, alle sue varianti retorico-celebrative.

«Questa storia è vera. Io intendo narrarla così com’è, senza ornamenti», avverte una didascalia in apertura. Una lapide riempie lo schermo: ricorda i diecimila prigionieri, i settemila morti, i tremila superstiti del Forte di Montiuc, la tetra prigione nazista dalla quale André Devigny (Fontaine nel film), condannato a morte per avere partecipato attivamente alla Resistenza, riuscì a fuggire poche ore prima che la sentenza venisse eseguita.

Un’altra didascalia, «Fyon 1943», inquadra cronologicamente i fatti. Tutto qui: nessun altro riferimento esplicito alla storia («alla verità della vicenda reale che ha ispirato la sceneggiatura — dirà Bresson — si è sovrapposta una verità interna al film»). Il seguito sarà costituito da accenni indiretti e da presenze emblematiche: gli elmi tedeschi, ad esempio, che, in primissimo piano, delimitano e restringono il campo visivo.

Rispetto al racconto-testimonianza di Devigny (Figaro Littéraire, 20 novembre 1954: poi ripreso e ampliato in volume), il lavoro di “potatura” da parte del regista è, al solito, molto drastico: eliminati il drammatico antefatto e i convulsi sviluppi successivi alla fuga, scomparsa la figura del padre e altre accessorie, annullate le motivazioni psicologiche e la dilatazione didascalica di certi atti e rapporti, resta la nuda parabola della fuga, «quella straordinaria evasione (…) concepita, preparata e realizzata senza alcun aiuto né dall’esterno né dall’interno, con il cervello, le mani e un miserabile cucchiaio…» (prefazione del colonnello Groussard a Un condannato a morte è fuggito, SEI, 1970, p. 5).

Fin dalla prima immagine viene svelato l’impulso che ispira e dirige tutti gli atti del protagonista: l’idea, la necessità della fuga; e il rapporto, di attrito e di collaborazione, che solo può consentirla: il rapporto tra l’uomo e gli oggetti. Prima ancora del volto di Fontaine, mentre viene condotto in auto verso il carcere, vediamo la sua mano che sfiora la maniglia della porta, ne studia la resistenza e lo scatto. Qui la tentazione della fuga è immediata e febbrile, non ancora dominata dal controllo delle circostanze oggettive e delle proprie possibilità, e dunque votata al fallimento.

Anche le prime immagini della fortezza, che si susseguono sull’asse dello sguardo e del pensiero di Fontaine non ci restituiscono, descrittivamente, una dimensione ambientale ma ne impongono, attraverso il dettaglio e lo scorcio, la totalità repressiva, l’assenza di spazio: alte mura bianche, cortili e corridoi senz’aria, sbarre e inferriate, rumori lancinanti (le chiavi del secondino che scorrono lungo la ringhiera delle scale) in un silenzio carico di tensione e di paura.

Il regista evita di fermarsi sui carcerieri: la loro presenza, e il timore che ispira, è sentita di riflesso, nelle reazioni e nel commento delle vittime. «Non volevo che mi vedessero lamentarmi, non feci nessun movimento», mormora

Fontaine, pesto e sanguinante, dopo essere stato buttato in cella. E la sua prima reazione, cadute le difese del ritegno e dell’orgoglio, è di scoramento e di abbandono. Ma se anche la sua esperienza, come quella di Anne Marie e del curato, matura in un clima di solitudine altissima, il rapporto con gli altri, e la dilatazione interiore che gli si accompagna, ha qui un segno diverso, e più decisivo.

Da questo punto in poi, il racconto si snoda modulandosi su tre ritmi fondamentali: la solitudine della cella, il breve intermezzo della passeggiatina mattutina, i rapidi dialoghi alla finestra con il vecchio Blanchet. I gesti e gli sguardi di Fontaine in cella, il movimento chiuso e circolare dei detenuti in cortile, le poche parole scambiate dal giovane con il compagno assumono lo spessore e la persistenza di un discorso il cui momento di raccordo e di autocoscienza si incardina nel monologo del protagonista, che accompagna le immagini e ne interroga il senso.

Tutto il film è costruito, infatti, come ripensamento, da parte di Fontaine, della propria avventura. La parola non ha funzioni esplicative, di illustrazione o commento: essa ripercorre e ridefinisce piuttosto, in contrappunto, il senso di quella esperienza. Le possibilità della «première personne sonore», esplorate con fervore da Jean Pierre Chartier in un profetico articolo apparso nel gennaio 1947 sulla Revue du cinema, e da lui intelligentemente ricondotte alla ipotesi del «film introspettivo», trovano ora in Bresson una splendida, anche se del tutto autonoma, applicazione.

In cella, luogo della solitudine e dell’esclusione, l’idea e la speranza della fuga è il tema dominante: per questo si impone una disciplina rigorosa e inflessibile, un piano capace di neutralizzare la pressione e l’imprevedibilità degli accadimenti. Sarà la rivalsa e la sfida paziente dell’intelligenza e del coraggio — della pratica dell’intelligenza e del coraggio contro l’umiliante brutalità di un potere che può imporsi solo in quanto potere.

Un cucchiaio, i trucioli della porta smossa, i ganci del pagliericcio, le strisce di una coperta minuziosamente ritagliata, il ferro che sostiene la lampada, oggetti comuni e insignificanti, diventano armi, strumenti di liberazione. L’insieme della cella, che non vedremo mai nella sua totalità, viene scomposto e selezionato in spazi parziali che delimitano l’arco di uno sguardo e la traiettoria del movimento del braccio e della gamba. La pretesa, confessata da Bresson alla vigilia delle riprese, di raggiungere «il vero attraverso il vero» non era evidentemente una velleità.

Solitudine e isolamento tornano nelle sequenze della passeggiata: i movimenti sempre uguali e obbligati scandiscono, con il loro meccanicismo, i tempi e le iterazioni dell’esistenza alienata. Gli uomini procedono in fila, con le spalle curve e gli occhi rivolti a terra, ognuno con il recipiente dei suoi escrementi che verserà nel pozzo al centro del cortile.

I dialoghi tra Fontaine e gli altri prigionieri, strappati furtivamente dietro le spalle di una guardia, nelle poche occasioni di incontro, sono brevi e allusivi; pieni di calore, sottintendono molto più di quanto non dicano. Orsini tradisce, nell’inquietudine del volto, un’impazienza disordinata e febbrile: il suo fallito tentativo di fuga e la morte affretteranno il progetto di Fontaine, ma aiutandolo a evitarne gli errori.

Il pastore protestante ripete parole di incoraggiamento e di stimolo. Blanchet, invece, è la voce della paura e della sfiducia, di una prudenza che è solo rassegnazione e tremore. E pure anche lui spingerà Fontaine a decidersi: «era necessario che Orsini fallisse, perché tu potessi riuscire…». «Lo straordinario era che fosse lui a dirlo», commenta Fontaine.

L’arrivo di Jost (collaborazionista? spia? o semplicemente un ragazzo confuso e fuorviato da circostanze ed eventi più grandi di lui?) non è soltanto un’intrusione scomoda e pericolosa: essa rompe il cerchio, a suo modo perfetto, della solitudine e dell’autosufficienza. Le parole di Fontaine al ragazzo saranno dure e impietose, le sole possibili in una situazione che non consente infingimenti e dolcezze, ma, per il solo fatto di essere dette, implicano un rischio e una scelta. Il risultato non sarà deludente: «senza di lui non ce l’avrei fatta», commenta il fuggiasco scalando il muro di cinta.

In questo e in molti altri momenti del film, si avverte che Un condannato a morte è fuggito costituisce probabilmente il tributo più puro, e anche il più fiducioso, di Bresson alla forza e alle risorse della possibilità contro le restrizioni dell’esistenza stabilita.

L’esistente è dato nella sua forma estrema, la condizione carceraria, con la dura oggettività dei luoghi che la rinserrano, dei tempi che la replicano senza fratture che non siano definitive e mortali. L’esperienza di Fontaine è anche questo: una sfida (ma metodica, paziente, ostinata) della possibilità dentro e contro l’impossibile.

«Non posso crederci», commenta dietro la porta la voce di un prigioniero sentendo i passi del compagno nel corridoio. I primissimi piani del suo volto attento e affilato di adolescente e l’assenza di volto dei carcerieri e aguzzini, sagome irrigidite dentro le divise militari, riportano sempre a quel che c’è di irriducibile nella presenza e nell’azione del personaggio.

Certo, Fontaine è, a suo modo, un “predestinato”. «Desidererei realizzare, nello stesso tempo, un film di oggetti e un film dell’anima, cioè cogliere questa attraverso quelli (…). Vorrei mostrare il miracolo degli oggetti — confessava il regista — e una mano invisibile sulla prigione che dirige gli accadimenti e fa sì che questa o quella cosa riesca a uno e non all’altro (…). Il film è un mistero (…). Il vento soffia dove vuole».

E queste ultime parole (che avrebbero dovuto, inizialmente, dare il titolo al film) vengono ripetute dal pastore. Ammissione che rimanderebbe, secondo alcuni, alla presunta ideologia di Bresson: la derivazione giansenistica, la centralità della Grazia, la persistente influenza di Bernanos.

Ma qui il motivo della “paradossalità” della Grazia passa decisamente in secondo piano. Il dubbio ha una radice umana, un orizzonte laico e mondano, e proprio Blanchet li metterà a nudo insistendo sulle responsabilità di Fontaine. Senza l’assunzione totale, e integralmente vissuta, dell’investitura da parte di chi è “scelto”, essa sarebbe astratta e inoperante.

E tale resterebbe senza il concorso, passivo o determinante degli altri: il concerto delle voci spaurite o incoraggianti dei compagni, la presenza e la collaborazione di Jost, un Lacombe Lucien (Malle fu assistente di Bresson per il Condannato) più puro e trasparente, nella sua sporcizia. Fontaine ne sonderà la sincerità e la confusione, costringendolo a “rivelare” la propria verità morale.

Ma certo la solitudine, l’eroicità ostinata e impervia del personaggio bressoniano esiste, e conta: è significativo che gli altri, pur interessati e partecipi al progetto di fuga, non ne siano mai veramente toccati, coinvolti, diversamente da quanto avveniva nella commossa testimonianza di Devigny. Intorno a Fontaine si respira un’aria rarefatta, che mozza il fiato.

E tuttavia questa irriducibilità, per sopravvivere e affermarsi contro le mutilazioni dell’esistente, deve piegarsi a tutte le coazioni, alla renitente sordità delle cose, per adattarle al proprio progetto: quella che qui viene descritta è una fenomenologia dello spirito concreto, individuato e particolare, e la luminosità dell’immagine non promana da alchimie di laboratorio ma dallo «splendore del vero». «L’anima ama la mano» è una asserzione di Pascal che Bresson ama spesso ricordare.

Si è parlato di “personaggio” (l’abbiamo fatto anche noi, per convenzione espositiva), ma qui non esiste personaggio inteso come luogo e tramite di una finzione narrativa: l’accento batte, se mai, sul gesto, sul comportamento, come possibilità di scelta e affermazione, opposta alla falsa necessità di una catena di accadimenti predisposti da altri e dall’alto. L’esserci e l’agire della figura umana si offrono allo spettatore travalicando la mediazione della psicologia e della trama: in questo la Nouvelle Vague aveva visto giusto quando privilegiava la triade Rossellini-Antonioni-Bresson.

«Ci sono dei racconti la cui conclusione è conosciuta dal lettore (o dall’ascoltatore) fin dall’inizio — osservava Roland Barthes («Nuovi Argomenti», n. 4042, 1974) — e la cui struttura è non di meno sospensiva: la domanda verte allora sul modo in cui l’esito sarà raggiunto». E il “come”, ricordava giustamente Briot, è, in Bresson, più importante del perché, del donde e del dove: ma nel “come” di Fontaine, vorremmo aggiungere, c’è tutto il resto.

La connotazione “politica” del prigioniero, non più che nazionalpatriottica in Devigny, può risultare, nel film, irrilevante: il regista tace sul prima e non apre sul poi. Gli interessa l’esistenza non la Storia, si è concluso con impazienza o soddisfazione, secondo gli orientamenti e gli umori.

In realtà, se la Storia non è, e qui non è certamente, una misura domenicale, essa dovrà essere cercata tutta, senza residui, nel progetto di Fontaine, nel tempo e nel modo della sua attuazione, che sono il tempo e il modo del film.

Bresson taglia, riduce, isola non per separare ma per stabilire connessioni più profonde e identificazioni più radicali. Nell’universo carcerario, l’ordine burocratico-repressivo ha sì il segno della violenza estrema (la macchia di sangue fresco e poi rappreso che vedremo sempre, come una “citazione”, sulla camicia di Fontaine) ma anche e soprattutto la continuità di un tempo scandito sulla necessità fisica, la cieca angustia di una vita raccorciata e ridotta a sopravvivenza vegetativa. Il bugliolo, la gamella, il lavatoio comune ne sono gli strumenti e i simboli.

L’utopia, per vivere, deve msurarsi sul terreno imposto dall’avversario; la vittoria dell’immaginazione «passa attraverso la promiscuità con le cose più vili e inerti».

La staticità del tempo, la sua uniformità che significa assenza di alternative, viene restituita attraverso l’impiego continuo, sproporzionato, della dissolvenza, oltre che dell’iterazione dei luoghi coercitivi: cella, corridoio-scale, cortile. Ma il procedimento chiave del montaggio è la dissolvenza; dissolvenze continue e smorzate dei luoghi, dei giorni, delle facce viste e perdute nelle brevi interruzioni della solitudine, del volto stesso di Fontaine.

E, per contro, l’emergenza degli sguardi, delle mani, delle dita, del rapporto fra queste e gli oggetti. Al tempo unidimensionale della realtà stabilita, che riassorbe e livella tutto, si oppone il tempo faticosamente riconquistato della realtà interiore restituita però come “pratica” dell’interiorità, che si afferma e cresce dentro e contro l’altra.

Lo stesso rigore nell’uso del contrappunto sonoro: nel contesto del silenzio, suoni e rumori si innescano come dissonanze iperboliche; l’eco prodotta dal gancio contro il muro, durante la fuga, ha la violenza di uno spasimo, sconvolge la concentrata scrittura di un processo liberatorio con una intrusione lancinante.

Si produce così una divaricazione, che diventerà ricorrente e istituzionale nella scrittura bressoniana: mentre la persistenza della litote e della sineddoche investe, come si è visto, la Storia, la connotazione politica e le ragioni ideali del protagonista, si verifica, contemporaneamente, una ipertrofia e dilatazione smisurata del particolare, del gesto automatico, dei tempi “morti” e dei vuoti di azione.

Si veda la sequenza della fuga, e in particolare la scoperta della sentinella da parte di Fontaine e Jost.

È un suono, soffocato e intermittente, che attira la loro attenzione: vediamo il tedesco con gli occhi di Fontaine, con lui misuriamo lo spazio e la durata dei movimenti (lo stesso accadrà con il soldato in bicicletta). Quello che avviene d’ora in poi, la decisione che matura nella mente e nella volontà del protagonista, appartiene al linguaggio degli sguardi e delle mani, si confonde con quello dei suoni e dei rumori.

L’uccisione della sentinella, decisa e scontata in quegli istanti di raccoglimento, avverrà rapidamente, non vista dallo spettatore, nascosta dal muro e soffocata dal passaggio di un treno. La “struttura sospensiva” è tutta interiorizzata, la traiettoria procede dall’esitazione alla scelta, dallo sgomento alla determinazione. E il silenzio della notte esaspera la solitudine del confronto con se stesso.

Fin dal titolo, e poi dal tono e da certe anticipazioni del racconto di Fontaine, è chiaro che il regista tende a svuotare il meccanismo consueto della sorpresa e dell’attesa: «per Bresson — notava Bazin — si tratta di sostituire alla suspense primaria, drammatica e psicologica, fondata sull’angoscia, una coscienza puramente spirituale o morale dell’avvenimento; al sistema di causalità orizzontale del realismo drammatico, un sistema di significato verticale che muove non dal collegarsi ma dalla successione dei fatti veri» (A. Bazin, France Observateur, 15 novembre 1956). Ma il contrappunto immagineparola, ovvero il rapporto tra passato e presente del protagonista, si rovescia con il procedere del racconto, e il tempo dell’immagine ridiventa attuale nello spazio riflessivo della memoria.

Ellittico nelle svolte narrative e nei raccordi (altri esempi di “svuotamento” nella sequenza del primo tentativo di fuga: lo spettatore resta con la “camera”, dentro l’auto, intravede qualche movimento confuso attraverso il finestrino, poi lo spazio viene nuovamente riempito dalla figura di Fontaine; altri ancora nelle immagini della cattura e punizione di Orsini, intraviste dalla cella di Fontaine), Bresson rasenta la fissità nel restituire l’esperienza reale del personaggio.

Per questo il regista rifiuta gli attori e si avvale di volti inediti, “puri”: su questi, e soltanto su questi, l’esplorazione dell’anima può fare scoperte illuminanti e assolute. A condizione che l’attore non pretenda di intromettersi nel disegno complessivo di cui l’autore soltanto conosce il segreto. O, peggio, di recitare.

Roland Monod ricordava, in una testimonianza alcune raccomandazioni del regista: «L’attore, nel cinema, deve limitarsi a dire il testo, rinunciando a mostrare di averlo già assimilato. Egli non deve recitare né spiegare nulla. Anche nella vita non è forse vero che sono le parole, spesso, a condurre il pensiero?».

Nella filmografia europea sulla Resistenza non c’è forse un’opera che possa risultare, in apparenza, più “marginale”, per non dire estranea, di questa: così priva di declamazione e di volontà di giudizio. In realtà, il Condannato, nel respingere la “cattiva immediatezza” dell’emozione e nel ricercare il “pathos della distanza”, che risuona intensamente nelle parole e nel tono con cui Fontaine riconsidera e rifà attuale la propria “avventura”, è la più poetica e intransigente affermazione della Resistenza al Lager: la resistenza in ciò che ha di irriducibile e di estremo.

Per questo, quando nelle immagini della passeggiata mattutina le note del Requiem di Mozart irrompono dal silenzio accompagnando per breve tratto il ritrovato contatto di Fontaine con gli altri, come un moto di entusiasmo che si smorza e si spegne rapidamente, o quando, nel finale, i due evasi si allontanano con i passi svelti e leggeri della fuga, via via più sicuri (come saranno quelli di Giovanna verso il rogo), lo spettatore avverte la straordinaria capacità di dilatazione, e di durata, di questa drammaturgia spoglia ed avara, la vertiginosa sicurezza della riscoperta bressoniana della pregnanza e delle potenzialità poetiche dell’immagine e del suono, e dei loro rapporti e contrappunti.

Da Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro Cinema n. 25, Editrice Il Castoro, 2004, pp. 45–54

Filippo Sacchi

Un film di Bresson non è mai soltanto un film, è un pezzo da laboratorio. Come l’esperimentatore, egli fissa sotto il mirino del microscopio un preparato, ci schiaccia su l’occhio, e non lo lascia più, sinché non ha estratto da quella sezione di tessuto umano tutto quello che contiene. Ha cominciato col mettere nel vetrino un prete (Il diario di un parroco di campagna).

Adesso ci mette un prigioniero (Un condannato a morte è fuggito). Il procedimento è lo stesso: isolare il soggetto; concentrare su di lui il fuoco dell’obiettivo per modo che esso si presenti sempre al centro con contorni delineati e precisi lasciando che tutto il resto intorno — cose persone paesi — si avvicendino nella transitoria sfocata fluidità delle parvenze; scrutarne lungamente, implacabilmente ogni espressione, ogni gesto, come per mettere a nudo, uno strato dopo l’altro, il vero fondo dell’anima.

Perciò è un cinema rigoroso, severo, quasi scientifico. Nessuna concessione mai all’infiorettatura e al pittoresco, nessuna divagazione farsesca o sentimentale. In questo, il condannato a morte è ancora più spietato del parroco di campagna. Là c’era ancora qualche albero, qualche faccia di donna, qualche nuvola. Qui niente.

Il film è la ricostruzione di un caso reale, quello di un partigiano della Resistenza francese, certo Devigny, che arrestato nel ’43 per atti di sabotaggio contro l’occupante tedesco, riuscì a evadere dalle carceri di Lione la vigilia dell’esecuzione. Poiché la parte preponderante dell’azione è presa dalla descrizione dei preparativi della fuga, praticamente quattro quinti del film si svolgono nell’interno di una cella. Il mondo intero ridotto a otto metri quadrati.

Ebbene, per darci un’impressione ancor più disperata di isolamento, per rendere ancor più schiacciante l’angustia di quello spazio entro cui è ridotto un vivente, Bresson non ci fa neanche mai vedere la cella intera. Noi vediamo soltanto un muro, o la porta, o il soffitto, o l’angolo del pagliericcio, o l’inferriata della finestra, ma mai la cella intera, di maniera che ogni gesto di quell’uomo, a cui la continua apprensione dà un’intensità quasi allucinata, ogni suo movimento finiscono per presentarsi con l’oppressiva angoscia dell’asfissia.

Tutto è asfissiante nella sua quasi monomane precisione: il cucchiaio pazientemente affilato sul pavimento, il raspio lento, di giornate intere, per scalfire gli interstizi tra asse e asse della porta, la raccolta a una a una delle scheggette e dei minuzzoli, il lavoro infinito per turare le fessure e mimetizzare il legno, il meticoloso intrecciare le striscioline di stoffa che serviranno da corda. Viste là, in quella cieca segregazione, staccate da tutto il resto del mondo e senza nessun apparente addentellato con possibilità reali, tutte queste operazioni acquistano alla lunga l’automatismo della fissazione, la futile concentrazione innocente della pazzia.

E finirebbe per essere un unico, insistente, monocorde, monotono tema, se non fosse per i riflessi che arrivano dal mondo di fuori. Sono appena frammenti di immagini, voci interrotte, suoni sconnessi, ma è proprio la loro presenza, il modo profondo e poetico in cui sono intrecciati, e quasi si può dire orchestrati entro quell’unico tema, che fa l’inconfondibile vita e potenza del film. Sono quelle rade parole, sussurrate appena nei rapidi incontri al lavatoio, subito troncate dal teutonico latrato dei soldati di guardia, o scambiate da inferriata a inferriata nell’aria della sera, o trasmesse da furtivi picchi sul muro, parole di pietà, o di tristezza, o di esecrazione, o di fede; sono quei suoni, squallidi anonimi suoni, le chiavi sulla ringhiera delle scale, i bidoni del comodo, lo scalpiccio dei passi tutti uguali; sono quei riflessi di cose, l’acqua fresca della cannella, il viso del giovane pastore, l’angolo del cortile, la povera nuca rassegnata e senile del vicino di cella, i quali tutti imprimendosi con l’evidenza che le sensazioni acquistano nel silenzio e nell’isolamento, creano al di là dell’immagine come un formicolante sfondo di emozioni inespresse, una misteriosa dimensione dove la morte e la libertà si confondono.

Registreremo infine che nonostante la sua ugonotta intransigenza e la sua asprezza partigiana, Un condannato a morte è fuggito ha fatto dei sorprendenti incassi. Al settimo giorno segnava ancora il più alto incasso di tutte le sale milanesi. Ogni volta che un film come questo ha successo, è una battaglia vinta per l’intelligenza. Ogni biglietto acquistato al botteghino, in questi casi, è un voto per un cinema migliore. Votate Bresson.

1 Febbraio 1959

Georges Sadoul

Nel 1943, un membro della Resistenza (Jacques Leterrier), rinchiuso nel Forte Montluc di Lione, riesce a evadere con un giovane prigioniero (Charles Le Clainche). “Il film francese più decisivo di questi ultimi dieci anni” (François Truffaut). “Un’opera insolita che non rassomiglia a nessun’altra” (André Bazin).

Ispirandosi a un’evasione realmente avvenuta, Bresson mostrò un uomo quasi sempre solo tra le pareti nude della sua cella, realizzando un film tutto di gesti e d’oggetti. Una spilla che serve ad aprire la serratura delle manette, un cucchiaio che diventa una specie di sega, una porta di prigione smontata, una corda pazientemente intrecciata, la maniglia di uno sportello d’automobile.

I primi piani delle mani e dei volti non acquistano tuttavia il loro pieno significato che in rapporto a un montaggio sonoro ricchissimo e complesso che ricostruisce la sensazione della prigione: il rumore delle gavette, dei passi, delle chiavi, delle serrature, di un treno che passa, di passi sulla ghiaia, ecc.

In questa “musica concreta” interviene, con l’accompagnamento d’una Messa in Do minore di Mozart, la voce d’un presentatore che narra le peripezie del racconto e precisa a volte gli effetti sonori (indicando, per esempio, l’ora che s’è appena sentita suonare) su un tono di melopea.

Sequenze celebri: il tentativo d’evasione mentre si attraversa Lione in automobile; il prigioniero che esce, coperto di sangue, dalle mani della Gestapo; i rapporti con gli altri detenuti alle docce, attraverso le finestre, ecc.; i preparativi dell’evasione con utensili improvvisati; l’arrivo imprevisto nella cella d’un altro prigioniero, vestito da soldato tedesco, e la diffidenza nei suoi confronti; l’evasione sui tetti della prigione.

Bresson si serve di attori non professionisti, ma li dirige con lo stesso rigore con cui dirigerebbe dei veri attori, facendoli provare cento volte prima di poter cogliere una espressione o un’intonazione, precise ma stilizzate.

Caratterizza inoltre i suoi personaggi in un modo diverso dalla realtà: nonostante il passare delle settimane, il protagonista continua a indossare la stessa camicia sporca di sangue e la sua barba è sempre una barba di due giorni. “Ho evitato ogni effetto drammatico voluto — ha detto Bresson — nel senso della maggiore semplicità, affinché la commozione scaturisca dal movimento generale dell’azione più che dai particolari”.

Servendosi continuamente della litote, dicendo il meno possibile per esprimere il massimo, il film, con mezzi minimi, ha saputo rendere con verità rara l’atmosfera della Francia occupata e lo spirito della Resistenza, e soprattutto il rapporto metafisico d’un uomo con l’idea di libertà.

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

Giorgio Tinassi

“La facoltà di servirmi bene dei miei mezzi diminuisce quando il loro numero aumenta”.

R. B.

“Questa storia è vera. Io la racconto com’è, senza inutili ornamenti”: le parole di Bresson che aprono il film precisano ancora una volta la sua concezione del reale; il fatto è il pretesto reale (e quindi perfettamente ricostruito) per ricerche che vanno in molteplici direzioni. Vi è il lavoro di scavo, che penetra nelle maglie dell’intreccio (come nel genere, o nello schema letterario) per coglierne le rifrazioni interne, l’eco nascosta che si rivela a una sua dissezione; inoltre la struttura stessa del fatto (il suo minuzioso riproporsi) permette uno studio dell’utilizzazione funzionale degli elementi compositivi: la situazione di isolamento e caricamento si riflette, significandoli, su oggetti, parole, rumori, la tensione passa attraverso i particolari, l’ellissi permette di spezzare l’andamento tradizionale per proiettare parzialmente (gesti, cose, luci).

Ma il fatto concentra anche indicazioni tematiche, poiché l’”avventura interiore” del protagonista sviluppa le polarità della predisposizione e del caso (o della Grazia). Il predestinato (“ciò che deve accadere accadrà, e noi non possiamo farci niente”, dice Hébrard negli spezzoni di dialogo al lavatoio) subisce la costrizione delle proprie possibilità; la rarefazione dei rapporti definisce e scherma il ruolo degli altri.

L’evento — dicevo — è un pretesto, ma non per “parlar d’altro”; il diario di Devigny da cui il film è tratto è un dato storico, la Resistenza (la prima didascalia dà proprio la collocazione storica) è l’aggancio per la descrizione di un clima (oppressione e tensione) a cui viene data una dimensione “concreta”; quindi tra storia e metafora.

Questo giustifica l’adesione al diario, la consulenza di Devigny, la ricostruzione minuziosa dei luoghi; ma anche, poi, la libertà dell’apertura, la spinta stilistica affatto “realistica”.

Conviene a questo punto esaminare brevemente il punto di partenza, che è il breve racconto (Récit d’une évasion) pubblicato ne Le figaro littéraire del 20 e del 27 novembre 1954. A questo proposito è importante fare una precisazione preliminare; dopo questo breve racconto André Devigny ha pubblicato, sullo stesso soggetto, un diario più ampio in volume, e spesso nelle analisi del film ci si rifa esplicitamente a esso per gli opportuni confronti. Ma Bresson, al momento di girare il film, conosceva solo il testo breve; egli precisa infatti, in una lettera a me inviata: “Il libro sullo stesso argomento è stato scritto dallo stesso Devigny mentre scrivevo la mia sceneggiatura tratta dal racconto. Non ne ho avuto conoscenza che più tardi”.

In generale mi pare che il racconto serva al regista per creare la struttura portante e indicare l’andamento, suggerire alcune atmosfere (il finale, per esempio) o il tono di descrizione, la freddezza analitica di alcuni passaggi. Troviamo allora indicati schematicamente: a) la descrizione dei luoghi (la cella, il lavatoio), di alcune “cose”, e situazioni (i rumori finali); b) l’indicazione di gesti essenziali (il lavoro col cucchiaio sulla porta, gli “scambi”, la corrispondenza con l’esterno); c) oppure di fatti: i tre nel cortile, la tortura, la prima uscita di cella, la fuga mancata di un altro prigioniero; d) o di personaggi, come Jost (che lì si chiama Gimenez); ed è da notare che la sua storia privata, che nel diario era limitata a pochi cenni, nel film è ancor più ridotta. A proposito dei personaggi, si può osservare il rilievo maggiore che nel film, data la sua “economicità”, assume la figura del pastore; l’episodio della frase-chiave trascritta non compare nel diario; e) si trovano infine brevi indicazioni usate nel “narratage”, o nel dialogo, spesso sintetizzate. La battuta finale del film (“se mamma mi vedesse”) così esemplificativa, è aggiunta e sostituisce il tono esplicito usato dal diario: “Mai meglio che in quell’istante ho compreso tutto il valore, tutta la forza di questa parola: libertà”.

Un lavoro dunque complesso, soprattutto di decantazione, che si è riflettuto nel drastico montaggio che ha portato a 2.500 metri il materiale girato (60.000 metri); una dosatura calibrata per dar corpo alle due leggi di induzione portanti, la tensione e il ritmo.

Ma la tensione è progressivamente introiettata, verso i nuclei fondamentali di volontà e libertà; i termini, data la situazione, si possono colorare di generico spiritualismo, di anelito umanistico, e invece le connotazioni psicologiche scompaiono, resta la forza, cioè la legge drammatica. Ed è sulla base di questa, cioè di un principio astratto, che si qualificano modificandoli il tempo ordinario e la materialità dei gesti, cioè il dato concreto. In questo senso assumono significato i preparativi, quel “prima” che interessa Bresson.

Alla creazione di una tensione volta in questo senso contribuiscono dunque vari elementi, legati in quel tono d’assieme che dà poi il senso di omogeneità che offrono i film del nostro autore. I vari fattori trovano tutti una corrente di coordinamento: il lavoro di Fontaine, gli imprevisti, gli oggetti, i particolari continuamente messi in evidenza, i rumori (basti pensare all’alternanza immagine-suono soprattutto nell’ultima parte), l’episodio della matita o l’interrogatorio all’Hôtel Terminus, l’arrivo di Jost, hanno nel finale non un momento di scaricamento (esterno) ma di “confluenza” (interna).

Tutto ciò che può essere esteriorizzazione collegata all’azione viene eliso, quello che si coglie invece è una frammentazione significativa. Alcune omissioni rispetto al diario possono servire di esempio, perché lì sono descritte (brevemente) sia la tortura che l’uccisione della sentinella; nella fuga iniziale è descritto invece anche l’inseguimento del protagonista. La corrispondente sequenza del film va seguita da vicino, quasi un test di cinema bressoniano: dopo la didascalia iniziale (Lyon, 1943) inizia la sequenza, la prima inquadratura coglie le mani del protagonista, poi le stesse legate con le manette a un altro prigioniero; si alternano poi piani dell’esterno (ripreso dall’interno dell’automobile) e di visi di lui / un carro che passa / le mani del soldato sul cambio / l’inquadratura, all’interno, si sposta a sinistra a comprendere l’altro prigioniero / Ancora la mano sul cambio seguita da un’inquadratura fissa su Fontaine / montaggio alternato delle sue mani e del viso / un carro che passa / ancora la mano sul cambio / verso l’esterno; passa un tram / il tentativo di fuga / rumori di spari / riprende l’identica inquadratura fissa senza Fontaine / si odono passi che si avvicinano / Fontaine è riaccompagnato / si vede il particolare delle manette. Uno stacco evidente introduce all’interno della prigione.

C’è qui una sorta di anticipazione, quasi un prologo stilistico-tematico: il senso di costrizione, la situazione prediletta di isolamento-prigionia (tutte le riprese dell’esterno avvengono dal chiuso dell’interno) e la forza di “rottura” (la volontà di evasione), però allentata, tutta non convenzionale; i particolari significativi ma mai caricati (l’alternanza di montaggio tra mani e visi di lui), la contiguità di momenti soggettivi e oggettivi (il carro che passa), gli sguardi, le iterazioni come cumulo (le stesse immagini che si ripetono e si aumentano), i rumori, le cesure (si vede l’azione in atto, nulla si sa della ragione della prigionia, la si apprenderà solo dopo), le elisioni (gli spari uditi che sostituiscono il fatto), l’impossibilità degli altri testimoni (l’inquadratura segnata), lo scacco, un’ombra che pesa su tutto il resto del film.

Uno stacco introduce la prigione, l’ambiente è dato prima del personaggio, i contrasti dello sfondo (metà in luce e metà no) si uniscono ai toni continui dei grigi; si vede Fontaine di spalle e si crea un senso di attesa, due soldati si avvicinano e lo portano via, una porta si apre e si vedono particolari di strumenti di tortura, la porta si chiude. Il fatto emergente, la nota acuta è elisa; anche nel Processo non si vedono mai gli atti di tortura. Si vede il dopo: una dissolvenza introduce i due soldati che trasportano una barella, e percorrono il corridoio (ancora l’ambiente, il suo peso).

La ripresa seguente è dal di dentro della cella (la limitazione soggettiva dello spazio), si vede il corpo gettato a terra, poi un piano ravvicinato (ancora un momento soggettivo) di lui insanguinato (il dopo, appunto); gli gettano sopra una giacca, inizia il “narratage”, freddo, “sentii che mi sorvegliavano … Perciò non osai fare un gesto”.

La forza dello scorcio si coglie anche in seguito nel film, come nel tentativo di fuga di Orsini. La capacità di allusione sostituisce la rappresentazione: “i tedeschi — aveva detto Bresson — saranno presenti assai più nel sonoro che nelle immagini”, e difatti la loro presenza ostile è ridota a poche note, a rumori.

La tensione si costituisce anche in elemento stilistico, in ritmo; si trattava di fare un film rapido con cose lente, ha detto ancora il regista, con la vita pesante della prigione. Un ambiente e le sue regole danno anche un elemento di scansione, come accadrà in Lancillotto. C’è un rapporto sottile tra omogeneità e presenza di vuoti e pieni, tra l’unità-blocco del tutto e le singole articolazioni. Anche tecnicamente ci sono riscontri: il découpage conta 600 inquadrature, ma quasi non ci sono sequenze, si può dire che il film tutto intero forma una sequenza.

I legami stessi tra le sequenze alternano la continuità e lo stacco o l’associazione, la concisione o l’allentamento, creando varie forme di collegamento: libero (quando le inquadrature non hanno rapporto di consequenzialità in senso stretto), o necessitato, quando lo sviluppo è dato da un filo continuo anche se non percettibile immediatamente. Non senza forzature si potrebbe riportare questa diversità anche all’atteggiamento soggettivo del protagonista (i fatti e la loro necessità).

Le iterazioni aumentano in modo da farci sentire il diverso nel quale si risolve l’identico: gli interni, i gesti (le scale, il cortile, il rancio), le immagini (i dialoghi con Blanchet ripresi dall’esterno), gli sguardi, i rumori; la ripetizione permette dilatazioni temporali, ma anche restrizioni, perché bastano pochi cenni per rimandare a uno svolgimento intuito.

Ecco in che senso si attua la dialettica tra scaricamento e caricamento di cui si è parlato nella parte generale: da un lato i meccanismi tradizionali legati alla “storia” si svuotano, dall’altro però atti e fatti, ripresi senza rilievi, se rivelano: “i fatti sono dei segni, e non solo dei fatti” (Sémolué).

Anche a questo fine gli elementi espressivi sono tutti dosati. La musica compare in otto casi: generalmente — cinque volte — a sottolineare gesti e movimenti “quotidiani” (la discesa delle scale, il vuotamento dei secchi), le altre volte per alludere seccamente al “sacrificio” (la morte di Orsini), per connotare un momento riflessivo (Fontaine, riportato in cella dopo l’interrogatorio all’Hòtel Terminus, è ripreso in primo piano, “risi nervosamente, per non piangere di gioia”), e infine per indicare il momento della liberazione, dopo la frase di Jost.

L’andamento dell’azione viene spesso creato e poi negato, il crescendo conosce diluizioni che lo contraddicono; le immagini servono sì alla progressione del racconto, ma spesso diventano significative per mutamenti interni, indipendentemente cioè dal collegamento ai fatti. Anche così si giustificano le molteplici sospensioni, quando la macchina da presa si sofferma insistendo sugli oggetti, sugli ambienti, allentando il movimento con digressioni. Cogliere l’unità, cioè lo sviluppo, attraverso i frammenti. Creare un ritmo formale autonomo.

L’angolatura parziale mira all’essenziale; la legge di economicità coinvolge perciò anche i dialoghi, spesso elementari, oppure di mera narrazione (in contrasto, in questo caso, con i pochi casi in cui l’andamento è gnomico); l’ellissi compare anche a questo livello, basti pensare a come viene omessa la prima parte del dialogo con cui Fontaine conosce Blanchet: “Per dei dollari, signor Blanchet? Dei dollari vostri?”.

I momenti chiarificatori (“il vento soffia dove vuole”) si inseriscono in modo fluido, quasi senza attriti. Anche gli altri elementi compositivi rispondono a questa esigenza riduttiva, come si è visto parlando dell’uso del commento fuori campo e della didascalia, con funzioni non univoche.

Quello che conta sono le risonanze per il personaggio, il rapporto soggettivo, (l’alternanza mani, viso, oggetti), le cose, il ruolo degli oggetti: “vorrei fare a un tempo un film di oggetti e un film d’anima. Cioè raggiungere la seconda attraverso i primi”. I fatti, personaggi, i ritmi sono visti secondo la visuale di Fontaine, “i rapporti di estensione e di durata delle immagini sono stabiliti a seconda dell’importanza degli episodi per lui”.

Lo spazio ha anch’esso una dimensione soggettiva, la cella, il cortile, il lavatoio non si vedono mai interamente; i mutamenti interno-esterno hanno un significato riferito al protagonista: l’interno visto dall’esterno (Fontaine e Blanchet alla finestra della cella), l’esterno dall’interno (l’automobile, all’inizio).

Il tipo di inquadratura è l’unico elemento che suggerisce “sensazioni” (e non determinazioni psicologiche): la costrizione della cella, i rapporti con le cose, i pochi gesti in comune (“questa scena, pur semplice e quotidiana, prendeva un carattere solenne”, scrive Devigny riferendosi alle “camminate”), la difficoltà ad avere rapporti con gli altri, il limite (le riprese dal buco della serratura, che ritroveremo nel Processo), la distanza-tensione (la sentinella vista dall’alto), le presenze ostili (l’interrogatorio fatto da Timann avviene con l’inquadratura in piano americano con due soldati che la “restringono” dai lati).

Anche alcuni sfasamenti sono prodotti a questo fine: mentre la voce fuori campo descrive il nuovo compagno di cella (“vestito metà da soldato francese e metà da tedesco… Era sporco in modo ripugnante … Aveva solo sedici anni a vederlo …”) la macchina resta su Fontaine, e solo dopo vediamo Jost, quando risponde a una domanda.

Il montaggio assume naturalmente un rilievo notevole; il ricorso al campo-controcampo è fatto in alcuni momenti salienti (il dialogo con Orsini al lavatoio, il dialogo con Jost, “so perché sei qui…»), così come il montaggio alternato determina il clima di tensione nel finale (primi piani di Fontaine e inquadrature della sentinella).

I rumori perdono la derivazione mimetica, sono il sintomo di un reale oggettivo e manipolato, di un referente annullato o caricato (i silenzi, i sovratoni), di un uso mai subalterno, e perciò depotenziato, all’immagine; sono restituiti alla loro possibilità di incidenza reale e di evocazione.

Sono componenti strutturali: la drammaticità suggerita dalle scariche di fucile, i gesti colti nella loro fisicità, l’elisione della scena sentita e non vista (l’uccisione di Orsini); nel finale i rumori intervengono nel montaggio alternato, sono passi, parole in tedesco, il treno, il cigolio della bicicletta, i rintocchi.

Il sonoro interviene anche a dare l’impressione soggettiva: come l’oppressione era resa dai custodi che battevano sulle sbarre, o dai comandi in tedesco, così il senso finale di apertura è dato anche dalla ripresa del rumore del treno. In tal modo il di fuori, l’esterno che prima avevamo sentito, ora lo ritroviamo ampliato dallo spazio libero, nel campo lungo conclusivo.

I vari elementi confluiscono dunque a produrre un tempo creato, soggettivo. Ed è questa dimensione astratta a dare concretezza ai personaggi, alle loro relazioni.

Della storia privata di Fontaine quasi nulla sappiamo, ancor meno di Jost o Blanchet; il richiamo alla partecipazione alla Resistenza è affidato alle poche battute di Jost, il legame con la famiglia è ridotto alle righe della lettera, il passato a un fugace ricordo (“Feci delle trecce come avevo visto mia madre fare con i capelli delle mie sorelle”).

La freddezza del protagonista nell’analizzare la situazione fa ancor più risaltare la sua volontà, cioè la tensione o — magari — la “vocazione” di cui si parlò nella parte generale: perché lo fai? chiede Blanchet, “Per lottare … lottare contro il muro, lottare contro le porte”. È su questa spinta che si inserisce il richiamo insinuante a un al di là che regge il filo dei fatti; il film viene dopo il Diario ma non avverti invocazioni, il rimando non è mai esplicito, anche se il biglietto del pastore è chiaro nel riportare la frase di Cristo a Nicodomeo che costituisce il sottotitolo del film.

Le interpretazioni che forzano in senso moralistico la situazione rischiano proprio di rompere questo stato “misterioso” (come lo definisce lo stesso Bresson) di allusività.

I rapporti complementari sono col pastore e con Jost, la “presenza” e il caso. Ma il giovane compagno di cella è anche l’altro come possibilità, necessario (senza di lui la fuga non sarebbe riuscita) e imprevisto. Il suo è un coinvolgimento senza scelta, “non ho scelto niente” aveva detto con una battuta emblematica; c’è però una forza, la volontà di “uscire”, che articola ancora la generale tensione, proponendola al progetto di Fontaine.

Le misteriose (per ripetere una qualificazione già data) interferenze dei destini si chiariscono anche con Orsini: “bisognava che Orsini fallisse perché tu riesca”, afferma Blanchet. Il “sacrificio” e l’“apertura” si trovano, anche se drammatizzati ed evidenti, già ne Les anges du péché, l’altro può essere l’occasione per il caso, o per la predestinazione, la Grazia colpisce dove vuole, portando a compimento.

Anche la passività, o l’isolamento (Blanchet) possono inserirsi: il testimone apparentemente inerte può produrre mutamento: la coperta fornita dallo stesso Blanchet si rivelerà essenziale per la fuga.

Vuoto e volontà, destino e Grazia sono dunque ormai chiaramente gli assi portanti della “drammaturgia” bressoniana.

Da: Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, Venezia, 1976, pp.78–84

René Prédal

Un giorno, Fontaine viene cambiato di cella e si ritrova all’ultimo piano del carcere. La sua vita è ormai ritmata dalle discese in cortile per svuotare i secchi e per le pulizie delle latrine. Ma l’uomo pensa solo a preparare la sua evasione.

Gratta la porta con un cucchiaio trasformato in taglierino. Terry viene trasferito, e il suo vicino del piano inferiore fucilato. Alle latrine, Fontaine fa amicizia con il pastore Deleyris e cerca di far coraggio al suo nuovo vicino di cella, un vecchio depresso.

Decide di prendere come compagno di fuga Orsini, che occupa la cella di fronte e che fa da guardia. Insieme fabbricano delle corde. Ma Orsini capisce che la cosa richiede troppo tempo e tenta la fuga da solo. Viene catturato e, prima di essere fucilato, fa sapere a Fontaine che occorrono dei ganci per potersi appendere ai muri.

I tedeschi confiscano tutte le matite. Fontaine non restituisce le sue. È portato all’hotel Terminus dove viene a sapere che intendono fucilarlo. Bisogna dunque passare all’azione e fuggire al più presto. Ma nella sua cella viene messo Jost, un detenuto giovanissimo. Fontaine non si fida, esita ma poi decide di raccontargli tutto: fuggiranno insieme.

Escono da un vasistas. Dal momento che la ghiaia sulle terrazze fa rumore sotto i loro piedi, possono camminare solo quando passano i treni. Mentre attraversa un cortiletto, Fontaine è costretto a strangolare una sentinella.

Ai piedi di un muro particolarmente alto, Fontaine può farcela solamente grazie all’aiuto di Jost, più abile di lui. Ci mettono diverse ore per attraversare un tetto sorvegliato da un soldato che fa la ronda in bicicletta. Con l’ultima corda superano lo spazio «a scimmia». Allo spuntare dell’alba, saltano finalmente dall’ultimo muro sulla strada e si allontanano su un ponte avvolto dal fumo.

Freddo, semplice, grande, vero, Un condannato a morte è fuggito viene generalmente considerato, da quelli che non amano molto i suoi film religiosi e l’atteggiamento da «profeta di sventura» delle sue ultime opere, il miglior film dell’autore. In ogni caso è a partire da qui che i suoi più brillanti esegeti, aiutati dalle stesse dichiarazioni dell’autore, descrivono con chiarezza le componenti essenziali della stilistica bressoniana.

André Devigny — diventato il tenente Fontaine nel film — è veramente esistito: condannato a morte, evade da Montluc nel 1943 qualche ora prima della sua esecuzione. Bresson dichiara di essere stato affascinato dal racconto di Devigny, che lesse sul “Figaro littéraire” del 20 novembre 1954, e soprattutto dalla forma del testo, dalla sua costruzione, dal suo tono magniloquente.

Ma il cineasta ha conservato soltanto la storia dell’evasione, eliminando il seguito (viene catturato, scappa di nuovo, viene tradito dal suo compagno…). Di una sobrietà assoluta, il film assomiglia a una sfida impossibile e permette a Bresson di esprimere nel momento della sua uscita i principi generali del proprio lavoro, in particolare: «Il cinema non è uno spettacolo, è una scrittura attraverso la quale cerchiamo di esprimerci».

O ancora: «Il cinema deve esprimersi non attraverso delle immagini, ma attraverso dei rapporti tra immagini (…). Allo stesso modo un pittore non si esprime attraverso i colori, ma attraverso i rapporti tra i colori».

Se la prima affermazione evoca Ejzenstejn, la seconda parte della frase insiste sull’originalità della posizione bressoniana: con i suoi rapporti tra le immagini. Il primo rapporto produce il senso (oltre alla bellezza), il secondo crea prioritariamente la bellezza (oltre al senso) perché è il loro contatto a farli vibrare, inducendo la vita a farvi irruzione nella misura in cui Bresson si avvale, in effetti, delle possibilità di sorpresa in fase di lavorazione: «Il bello in un film, quello che io cerco, è un cammino verso l’incognito».

Un condannato a morte è fuggito ha richiesto sei mesi per il suo concepimento, tre per la scrittura e due per la preparazione materiale. La lavorazione è durata due mesi e mezzo e il montaggio un trimestre. Come ha scritto Michel Estève nel suo saggio, Bresson si è preoccupato molto più dell’autenticità che della «ricostruzione» storica. Eppure ha girato proprio gli esterni a Montluc e a Lione in presenza di André Devigny.

Per quel che riguarda la cella ricostruita negli Studi Saint-Maurice, essa venne fatta con materiali veri invece del solito materiale per decorazioni, in modo che i rumori — quello del cucchiaio sulla pietra, ad esempio — venissero scrupolosamente rispettati. Per la drammatizzazione, l’autore non ha invece esitato a modificare qualche dettaglio e anche a ritoccare alcuni personaggi. Se il film è composto da 600 inquadrature, l’insieme forma — secondo le parole di Bresson — una sola sequenza, tanto è sostenuto il ritmo, dal momento che l’intensità scaturisce dalla concentrazione su Fontaine e sulla sua unica ossessione.

Nondimeno, vi è un equilibrio tra le immagini del condannato solo nella sua cella e quelle che mostrano i suoi contatti con gli altri. Ma, condensando, Bresson rende più attivo il partigiano perché ogni tappa della sua evasione dura di meno e risulta più veloce.

Nei titoli di testa, Bresson scrive: «Questa storia è vera. Io ve la racconto com’è, senza ornamenti». Infatti, il racconto appare spoglio di tutto ciò che non è utile a rappresentare l’unico impulso che anima Fontaine. Tutto ciò che non è in relazione diretta con il concepimento, la preparazione e la realizzazione dell’evasione viene soppresso. Ogni oggetto e ogni personaggio ha il suo posto.

La prima immagine del film, un primissimo piano di mani, come pure il volto che segue subito dopo, simboleggiano molto bene il cinema di Bresson: si tratta di agilità, ma anche di volontà. La scenografia non è mai fine a se stessa: quando Fontaine entra nella sua nuova cella, non vi è alcuna panoramica descrittiva; subito egli alza gli occhi e guarda con interesse il muro di destra e lo batte.

Il ritmo del film è interamente scandito dalla progressione dei preparativi: quando Fontaine non trova difficoltà, tutto si concatena molto rapidamente, ma quando smonta la sua porta — con l’aiuto di due soli cucchiai — le inquadrature sono più lunghe, i movimenti di macchina più lenti, gli oggetti acquistano efficacia e presenza attraverso il loro carattere spoglio.

I rumori possono acquisire una potenza allucinante (quando i mazzi di chiavi urtano le sbarre). Ma sono loro, pure, a punteggiare a volte i fuoricampo della prigione, come il tram che si avverte durante la conversazione tra Fontaine e Blanchet. Nel corso dell’evasione, abbiamo sentito i rumori dei treni e solo alla fine, quando Fontaine e Jost sono riusciti a evadere, Bresson fa vedere il fumo che li circonda.

Lo stesso treno sarebbe stato un dettaglio spettacolare che rischiava di distogliere l’attenzione dall’essenziale… il cineasta dunque ne conserva solo il fumo! All’inizio Bresson non mostra nulla delle brutalità subite da Fontaine, ma solo dei manici di badile appoggiati a un muro e delle urla; immagine successiva: il corpo del giovane trasportato su una barella.

Alla fine viene allo stesso modo elusa la morte della sentinella. Invece delle mani che strangolano, egli descrive la terrazza, il muro, il buio con il rumore del treno, perché in quel momento quelle cose sono più importanti per Fontaine.

Gli stacchi sono infatti generalmente delle proiezioni verso il futuro. Quando guarda verso la terrazza del palazzo, Fontaine dice a Blanchet: «Se alle dieci non sono nel corridoio…» Subito dopo sentiamo suonare le dieci e l’immagine mostra il partigiano di notte sotto la vetrata del corridoio.

In un altro caso, un prigioniero dice al tenente: «Dobbiamo tenerci occupati». Con un’espressione indefinibile egli risponde: «Mi sto tenendo occupato», e l’immagine successiva lo mostra mentre sta limando la porta. Per evadere, egli deve addomesticare gli oggetti (spillo per aprire le manette, cucchiai, lanterne, ganci, lenzuola…) e approfittare della solidarietà umana: prima di tutto per superare la paura della morte, ma anche per ottenere da Terry lo spillo necessario.

Fontaine comunica con il suo vicino Blanchet picchiando sul muro, per impedirgli di tentare di nuovo il suicidio. In un’altra occasione, cancella dalla porta di un prigioniero l’iscrizione che notifica che è stato privato del cibo e della passeggiata.

La sua fermezza incrollabile nei confronti di tutto ciò che riguarda il suo progetto non è in effetti incompatibile con gesti positivi di conforto e alla fine, sebbene egli confidi solo in se stesso, ha bisogno degli altri. Bresson ha tolto i riferimenti troppo espliciti a Dio. Devigny, nel suo racconto, annotava di non aspettarsi nulla dal cielo: «C’erano due fazioni, la mia e quella di Dio»; nel film la frase diventa: «Sarebbe troppo comodo se Dio si occupasse di tutto ». Ma Devigny scriveva anche che pregava per la riuscita, mentre nel film questa allusione è scomparsa.

In ogni modo è chiaro che gli aiuti di Orsini e di Jost sono indispensabili al buon esito finale: il caso di Orsini ha dato la possibilità ai critici spiritualisti — Henri Agel per primo — di sottolineare come in quest’uomo vi sia una specie di «comunione dei santi» già operante in Anne-Marie (La conversa di Belfort) e nel curato d’Ambricourt (Il diario di un curato di campagna).

Fontaine approfitta dell’aiuto materiale degli altri detenuti, ma da parte sua infonde loro speranza. Così, il fallimento dell’evasione del suo complice è necessario alla sua fuga, perché solo così Orsini gli potrà consigliare l’utilizzo dei ganci di lanterna che si riveleranno preziosi. Inoltre, la sua morte suscita la voglia accanita di far sì che questa non sia stata inutile e che venga vendicata dall’evasione di Fontaine.

D’altronde, mentre egli è un solitario ostinato, tanto che l’arrivo di Jost gli fa pensare di uccidere l’intruso, la presenza dell’adolescente durante l’evasione sarà alla fine indispensabile per scavalcare il muro di cinta che Fontaine non sarebbe senz’altro mai riuscito a oltrepassare senza aiuto: «Da solo sarei probabilmente rimasto lì», egli annota obiettivamente.

La sorte sarà dunque favorevole, forse perché era destinato a farcela: insomma, egli ha la grazia che manca a Orsini. Ma questa dimensione cristiana non è indispensabile per cogliere il senso profondo del film. Ci si può fermare alla nozione di solidarietà, dunque di umanesimo.

Bresson non gioca con la suspense. Il titolo del film come pure il commento comunicano fin dall’inizio che Fontaine è vivo. La macchina da presa non lo abbandonerà più, anche se il cineasta non farà vedere esclusivamente ciò che vedono gli occhi del prigioniero. Per questo, percepiremo talvolta l’effetto prodotto da alcuni suoi gesti, come quando un’inquadratura mostra, oltre la porta, l’estremità della scopa manovrata per togliere la segatura prodotta dal suo lavoro.

La grande sobrietà delle inquadrature nel carcere (molti dettagli sono visti attraverso la porta o la finestra) fa della prigione un universo in cui la volontà (il libero arbitrio?) di ognuno si scontra con il destino, con quella volontà superiore (divina Provvidenza?) che favorisce o controbilancia le imprese individuali.

Fontaine ha paura che i tedeschi vengano a perquisire la sua cella. Effettivamente essi arrivano, ma per portargli un pacco. Controllano attentamente il pacco, ma dimenticano di perquisire la cella. Non scoprono quindi i preparativi dell’evasione… Caso? Grazia? Il vento soffia dove vuole (discorso di Cristo con Nicodemo, capitolo 3 del Vangelo secondo san Giovanni).

Da: René Prédal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini&Castoldi, Milano, 1998, pp. 145–152

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.