Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini
di Italo Calvino
Pubblicata sul “Corriere della Sera” il giorno Martedì 4 novembre 1975
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Di seguito riproduciamo integralmente il testo dell’Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini scritta da Italo Calvino e pubblicata sul “Corriere della Sera” due giorni dopo l’uccisione di Pasolini, il 4 novembre 1975. Con questo documento celebriamo il centenario della nascita di Itali Calvino, nato a L’Avana, Cuba, il 15 ottobre 1923.
Dopo la lettera di Calvino troverete anche la lettera aperta indirizzata da Pasolini allo scrittore dal titolo Quello che rimpiango, pubblicata da “Paese “Sera, l’8 luglio 1974. In calce a questa la lettera di Pasolini a Calvino del 30 ottobre 1975 pubblicata su “Il Mondo” alla quale fa riferimento Calvino nella prima riga della sula Ultima lettera.
Pasolini è durissimo con Calvino specialmente nella sferzante lettera del 30 ottobre. Su molti temi Pasolini sollecitava Calvino, ma questi sembrava ignorarlo o gli offriva delle risposte indirette.
In quella lettera Pasolini scriveva in chiusura con una vena di disperazione: “Ma tu [Calvino] sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia”.
Buona lettura!
Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini
di Italo Calvino
Corriere della Sera, 4 novembre 1975
Non farò più in tempo a rispondere a quella lettera. Sul “Mondo” del 30 ottobre, Pasolini mi indirizzava una lettera aperta sulla violenza nel mondo d’oggi, che resterà uno dei suoi ultimi scritti. Polemizzava col mio articolo del “Corriere” sul delitto del Circeo, perché io descrivevo un processo di degradazione della società senza darne spiegazioni e soprattutto senza parlare della spiegazione che da tempo ne dava lui: il «consumismo» che distrugge tutti i valori precedenti e al loro posto instaura un mondo senza principi e spietato.
Durante la settimana scorsa, a chi mi chiedeva cosa aspettavo a rispondere, mi venne da dire una battuta cinica: «Aspetto il prossimo delitto». Non si deve mai essere cinici, nemmeno per scherzo. Appena la pronunciai mi resi conto che poteva essere una di quelle battute che non ci si ricorderà volentieri d’aver detto. Ma non mi fermai su questo pensiero. Il mondo in cui avvengono i delitti sembra cosi lontano, rassicurantemente lontano, a chi si trova a scrivere dei delitti nella tranquillità del proprio studio. Ed ecco, sono passati pochi giorni. Non ha tardato a succedere, il delitto su cui il giornale mi chiede un nuovo articolo. Ma a Pasolini non posso più rispondere, la vittima è lui.
«Parlare di una parte della borghesia come colpevole è un discorso antico e meccanico — scriveva Pasolini in quella lettera aperta –. Se a fare le stesse cose fossero stati dei poveri delle borgate romane oppure dei poveri immigrati a Milano o a Torino, non se ne sarebbe parlato tanto e a quel modo… Perché i poveri delle borgate o i poveri immigrati sono considerati tutti delinquenti a priori. Ebbene, i poveri delle borgate romane e i poveri immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli, e con lo stesso identico spirito… Cosa dedurre da tutto questo? Che c’è una fonte di corruzione ben più lontana e totale. Ed eccomi alla ripetizione della litania…».
La drammaticità di questo suo appello, come di tanti suoi scritti analoghi degli ultimi tempi, non può non colpirci oggi, come se avesse voluto avvertirci di un pericolo che sentiva incombere e a cui egli pure correva continuamente incontro. In ciò egli confermava l’immagine che sempre aveva voluto darci di sé: di martire-testimone di una sua verità, di apportatore di scandalo ai fini di una sua predicazione morale.
«Sono indignato del silenzio che mi ha sempre circondato» diceva ancora. Non era vero; mai come in questi tempi il suo discorso ininterrotto provocava pubbliche discussioni, con le sue illuminazioni di verità e le sue nuvole d’ombra. (E non era neanche vero che io non avessi detto la mia; solo che io la facevo entrare in altri discorsi, senza nominarlo mai; lui capiva benissimo che lo facevo per non dare soddisfazione al suo personalismo, ma invece di ripagarmi con la stessa moneta, mi prendeva di petto, come era nel suo temperamento).
Ora alla personalizzazione non potrei più sfuggire, perché è della sua morte che si tratta; ma tanto meno voglio farlo. Lui legava sempre il discorso generale alla sua esperienza vissuta; e questa mescolanza di vita e di opera si ritrova nei dati della sua morte. Ma nonostante che egli tenesse a non nascondere nulla, io credo che la sua vita privata riguardi lui solo; noi non possiamo giudicarlo. Quanto sappiamo della sua morte è di una semplicità rudimentale, ma quando si arriva al momento dell’uccisione tutto resta ancora da spiegare. Direi che, sia se i fatti sono tutti qui, sia se nuovi dati interverranno a complicare la storia, continueremo per un pezzo a domandarci l’ultimo perché.
Su un passo della sua lettera soprattutto ero pronto a dichiararmi d’accordo se avessi scritto in tempo la risposta:
«Risulta evidente da ciò che tu ti appoggi a certezze che valevano anche prima. Le certezze laiche, razionali, democratiche, progressiste. Cosi come sono esse non valgono più. Il divenire storico è divenuto, e quelle certezze sono rimaste com’erano».
Ma detto questo, constatato che il mondo che è venuto fuori è molto più complicato e peggiore di quanto tutte le previsioni razionali annunciassero (i fenomeni legati a una urbanizzazione caotica, a una economia sbilanciata, a un modo di vita in cui la mancanza di mestieri e di prospettive è comune ai vari livelli di vita delle classi sociali, ed è soprattutto drammatica nei giovani) non è possibile più idealizzare un mondo perduto che portava in sé tutti i germi della presente corruzione.
Le civiltà più arretrate solo quando costituivano un mondo organico, una totalità armonica potevano avere dei vantaggi sulla nostra. Nel nostro passato immediato era solo qualche sopravvivenza degradata di altre civiltà che ci portavamo dietro, e che anziché prepararci al domani lo rendeva più catastrofico. Le cosiddette società avanzate in cui viviamo sono in crisi in tutti i continenti, anche se le capacità di reagire alla crisi sono diverse. Forse sarà impossibile un vero sviluppo se non di tutto il pianeta insieme, ma oggi sembra che ne siamo ancora lontani. Dobbiamo guardare di più a quanto sta venendo nel resto del mondo e pensare di più al nostro futuro, alle trasformazioni possibili del nostro presente.
La violenza che ora esplode nella nostra società senza forma è un fenomeno nuovo in quanto le società dei tempi passati incanalavano le proprie spinte aggressive verso esiti spesso altrettanto spietati ma collettivi. Solo un trasformazione in energie dirette verso fini comuni ci salverà dalla forza distruttiva della violenza. So che dico cose terribilmente generiche e forse banali, ma è un punto di metodo che voglio segnare. Voglio dire che le scuole sono in crisi in tutto il mondo, ma nel resto del mondo bene o male funzionano e da noi no. E che l’Italia può temere di diventare per almeno cinquant’anni una periferia coloniale, una enorme borgata disoccupata e violenta.
Grande merito di Pasolini scrittore, che volle sempre essere insieme uomo dello scandalo e moralista, è l’aver posto il problema di una morale nuova che inglobi anche le zone del vissuto considerate oscure, che la morale e l’ideologia fino a oggi tendono a escludere. Non è un compito facile, e tutte le esemplificazioni oggi correnti appaiono frettolose, quelle che Pasolini rifiutava colme quelle che egli proclamava. Certo più di una generazione si romperà la testa, prima di costruire una nuova morale che valga per tutti, anche per chi ora ne è escluso. Ma, purché si arrivi in tempo, questa sarà la via più breve per dare un senso alle testimonianze sulla violenza che Pasolini ha voluto darci con la sua opera e la sua morte.
Italo Calvino
Quello che rimpiango
di Pier Paolo Pasolini
Paese Sera, 48 luglio 1974
Caro Calvino,
Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un’«età dell’oro», tu dici che rimpiango l’«Italietta»: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio.
Ciò che io rimpiango (se si può parlare di rimpianto) l’ho detto chiaramente, sia pure in versi (“Paese sera”, 5–1–1974). Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo). Io rimpiangere l’«Italietta»? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di Calderón, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei films, non sai niente di me! Perché tutto ciò che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l’Italietta. A meno che tu non mi consideri radicalmente cambiato: cosa che fa parte della psicologia miracolistica degli italiani, ma che appunto per questo non mi par degna di te.
L’«Italietta» è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane può non saperlo. Ma tu no. Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l’angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l’arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose sulla sua persona. Ma se tutto questo posso dimenticarlo io, non devi però dimenticarlo tu…
D’altra parte questa «Italietta», per quel che mi riguarda, non è finita. Il linciaggio continua. Magari adesso a organizzarlo sarà l’«Espresso», vedi la noterella introduttiva (“Espresso”, 23–6–1974) ad alcuni interventi sulla mia tesi (“Corriere della Sera”, 10–6–1974): noterella in cui si ghigna per un titolo non dato da me, si estrapola lepidamente dal mio testo, naturalmente travisandolo orrendamente, e infine si getta su me il sospetto che io sia una specie di nuovo Plebe: operazione di cui finora avrei creduto capaci solo i teppisti del “Borghese”.
Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa questo era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata. Era solo per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del territorio dell’Italietta. Al di fuori di questa pura e semplice formalità, tale mondo non coincideva affatto con l’Italia.
L’universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie — ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel ’17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici (per un lucano — penso a De Martino — la nazione a lui estranea, è stato prima il Regno Borbonico, poi l’Italia piemontese, poi l’Italia fascista, poi l’Italia attuale: senza soluzione di continuità).
È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo).
Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento).
Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi, tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci.
Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe più in grado, per esempio, di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare l’annesso glossario come un buon borghese del Nord!
Naturalmente questa mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze.
Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. So benissimo che ci sono dei giovani che si distinguono. Ma si tratta di giovani appartenenti alla nostra stessa élite, e condannati a essere ancora più infelici di noi: e quindi probabilmente anche migliori. Questo lo dico per una allusione (“Paese sera”, 21–6–1974) di Tullio De Mauro, che, dopo essersi dimenticato di invitarmi a un convegno linguistico di Bressanone, mi rimprovera di non esservi stato presente: là, egli dice, avrei visto alcune decine di giovani che avrebbero contraddetto le mie tesi. Cioè come a dire che se alcune decine di giovani usano il termine «euristica» ciò significa che l’uso di tale termine è praticato da cinquanta milioni di italiani.
Tu dirai: gli uomini sono sempre stati conformisti (tutti uguali uno all’altro) e ci sono sempre state delle élites. Io ti rispondo: sì, gli uomini sono sempre stati conformisti e il più possibile uguali l’uno all’altro, ma secondo la loro classe sociale. E, all’interno di tale distinzione di classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui cade la «mutazione» antropologica) gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all’altro secondo un codice interclassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud): almeno potenzialmente, nell’ansiosa volontà di uniformarsi.
Infine, caro Calvino, vorrei farti notare una cosa. Non da moralista, ma da analista. Nella tua affrettata risposta alle mie tesi, sul “Messaggero”, (18 giugno 1974) ti è scappata una frase doppiamente infelice. Si tratta della frase: «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli.» Ma: 1) certamente non avrai mai tale occasione, anche perché se nello scompartimento di un treno, nella coda a un negozio, per strada, in un salotto, tu dovessi incontrare dei giovani fascisti, non li riconosceresti; 2) augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno — quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità — ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso.
Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini a Italo Calvino
Il Mondo, 30 Ottobre 1975
Tu dici: «I responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira».
Ma perché questo?
Tu dici: «Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle costruzioni repressive».
Ma perché questo?
Tu dici: «il pericolo vero viene dall’estendersi nella nostra società di strati cancerosi».
Ma perché questo?
Tu dici: «Non c’è che un passo dall’atonia morale e dalla irresponsabilità sociale (di una parte della borghesia italiana, tu dici) alla pratica di seviziare e massacrare».
Ma perché questo?
Tu dici: «Viviamo in un mondo in cui l’escalation nel massacro e nella umiliazione della persona è uno dei segni più vistosi del divenire storico (onde criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive e ottimistiche, tu dici)».
Ma perché questo?
Tu dici «I nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento».
Ma perché questo?
Tu dici «In altri paesi la crisi è la stessa, ma incide in uno spessore di società più solido».
Ma perché questo?
Io sono più di due anni che cerco di spiegarli e volgarizzarli questi perché. E sono finalmente indignato per il silenzio che mi ha sempre circondato. Si è fatto solo il processo a un mio indimostrabile refoulement cattolico. Nessuno è intervenuto ad aiutarmi ad andare avanti ed approfondire i miei tentativi di spiegazione. Ora, è il silenzio, che è cattolico. Per esempio il silenzio di Giuseppe Branca, di Livio Zanetti, di Giorgio Bocca, di Claudio Petruccioli, di Alberto Moravia, che avevo nominalmente invitato a intervenire in una mia proposta di processo contro i colpevoli di questa condizione italiana che tu descrivi con tanta ansia apocalittica: tu, così sobrio. E anche il tuo silenzio a tante mie lettere pubbliche è cattolico. E anche il silenzio dei cattolici di sinistra è cattolico (essi, dovrebbero avere finalmente il coraggio di definirsi riformisti, o con più coraggio ancora luterani. Dopo tre secoli sarebbe ora).
Lascia che ti dica che non è cattolico, invece, chi parla e tenta di dare spiegazioni magari dal vivo, e circondato dal profondo silenzio. Non sono stato capace di starmene zitto, come non sei capace di startene te zitto tu ora. «Bisogna aver molto parlato per poter tacere» (è uno storico cinese che, stupendamente, lo dice.) Dunque parla una buona volta. Perché?
Tu hai steso un cahier de doléance in cui sono allineati fatti e fenomeni a cui non dai spiegazioni, come farebbe Lietta Tornabuoni o un giornalista sia pure indignato della Tv.
Perché?
Eppure io ho anche da ridire sul tuo cahier, al di fuori della mancanza dei perché.
Ho da ridire che tu crei dei capri espiatori, che sono: «parte della borghesia», «Roma», «i neofascisti».
Risulta evidente da ciò che tu ti appoggi a certezze che valevano anche prima. Le certezze che ti dicevo in un’altra lettera che ci hanno confortato e anche gratificato in un contesto clerico-fascista. Le certezze laiche, razionali, democratiche, progressiste. Così come esse sono non valgono più. Il divenire storico è divenuto, e quelle certezze son rimaste com’erano.
Parlare ancora come colpevole di «parte della borghesia» è un discorso antico e meccanico perché la borghesia, oggi, è nel tempo stesso troppo peggiore che dieci anni fa, e troppo migliore. Tutta. Compresa quella dei Parioli o di San Babila. È inutile che ti dica perché è peggiore (violenza, aggressività, dissociazione dall’altro, razzismo, volgarità, brutale edonismo) ma è inutile che ti dica perché è migliore (un certo laicismo, una certa accettazione di valori che erano solo di cerchie ristrette, votazioni al referendum, votazioni al 15 giugno).
Parlare come colpevole della città di Roma, è ripiombare nei più puri anni cinquanta, quando torinesi, milanesi (friulani) consideravano Roma il centro di ogni corruzione: con aperte manifestazioni razzistiche. Roma con i suoi Parioli, non è affatto peggiore di Milano col suo San Babila, o di Torino.
Quanto ai neofascisti (giovani) tu stesso ti sei reso conto che la loro nozione va immensamente allargata: e la possibile crudeltà nazista di cui parli (e di cui da tanto vado parlando io) non riguarda solo loro.
Ho da ridire anche su un altro punto del “cahier senza perché”.
Tu hai privilegiato i neofasciti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende. Ti sei comportato — mi sembra — come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un caso, ripeto, privilegiato. Se a fare le stesse cose fossero stati dei “poveri” delle borgate romane, oppure dei “poveri” immigrati a Milano o a Torino, non se ne sarebbe parlato tanto in quel modo. Per razzismo. Perché i “poveri” delle borgate o i “poveri” immigrati sono considerati delinquenti a priori.
Ebbene i “poveri” delle borgate romane e i “poveri” immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello che è oggetto della tua “descrittività”.
I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano “batterie”) simili a quelle del Circeo; e inoltre, anch’essi drogati.
L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un’attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico.
L’impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofasciti non ha niente da invidiare all’impunità dei criminali di borgata. (I fratelli Carlino, di Torpignattara, godevano della stessa libertà condizionale dei pariolini). Impunità miracolosamente conclusasi in parte con il 15 giugno.
Cosa dedurre da tutto questo? Che la “cancrena” non si diffonde da alcuni strati della borghesia (romana) (neofascista) contagiando il paese e quindi il popolo. Ma che c’è una fonte di corruzione ben più lontana e totale. Ed eccomi alla ripetizione della litania.
È cambiato il “modo di produzione” (enorme quantità, beni superflui, funzione edonistica). Ma la produzione non produce solo merce, produce insieme rapporti sociali, umanità. Il “nuovo modo di produzione” ha prodotto quindi una nuova umanità, ossia una “nuova cultura” modificando antropologicamente l’uomo (nella fattispecie l’italiano). Tale “nuova cultura” ha distrutto cinicamente (genocidio) le culture precedenti: da quella tradizionale borghese, alle varie culture particolaristiche e pluralistiche popolari. Ai modelli e ai valori distrutti essa sostituisce modelli e valori propri (non ancora definiti e nominati): che sono quelli di una nuova specie di borghesia. I figli della borghesia sono dunque privilegiati nel realizzarli, e, realizzandoli (con incertezza e quindi con aggressività), si pongono come esempi a coloro che economicamente sono impotenti a farlo, e vengono ridotti appunto a larvali e feroci imitatori.
Di qui la loro natura sicaria, da SS. Il fenomeno riguarda così l’intero paese. E i perché sono ben chiari. Chiarezza che certo, lo ammetto, non risulta da questa tabella che ho qui stilato come un telegramma. Ma tu sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia.
Pier Paolo Pasolini