Tolstoj e i congressi della pace

di Giuliano Procacci

Mario Mancini
13 min readMar 1, 2020

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Il 5 giugno 1909 il Bureau international de la paix di Berna comunicava ufficialmente che il XVIII Congresso internazionale della pace si sarebbe tenuto a Stoccolma dal 29 agosto al 5 settembre. L’ordine del giorno prevedeva una serie di relazioni affidate a habitués dei congressi della pace quali il La Fontaine, presidente del Bureau, il Gobat, segretario del medesimo, che avrebbe riferito sugli avvenimenti dell’anno, e il Moneta, recente premio Nobel[1].

Successivamente il comitato organizzatore svedese invitava Tolstoj a far parte del Comitato d’onore del Congresso e il 12/25 luglio questi rispondeva con una lettera al Presidente del Congresso ringraziando e impegnandosi a «profiter de hionneur que vous m’avez fait par mon election, en tâchant d’emettre ce que j’ai à dire devant un auditoire aussi exceptionnel».

Qualora — egli proseguiva — le sue condizioni non gli permettessero di recarsi a Stoccolma, avrebbe fatto pervenire «ce que j’ai à dire dans l’espoir que les membres du Congrès voudront bien prendre connaissance de mes opinions»[2]. Il giorno prima Tolstoj aveva annotato nel suo diario la sua decisione di accettare l’invito e di recarsi a Stoccolma[3].

Non si era trattato di una decisione facile, né tanto meno scontata. La sua sfiducia verso il movimento pacifista, i suoi esponenti e i suoi congressi era infatti radicata e di lunga data. Già nel 1893 nel suo Il regno di Dio è in voi egli aveva dedicato un intero capitolo alla critica, se non all’irrisione, dei deliberati del congresso della pace di Londra del 1891[4] e successivamente nel 1898, interpellato dalla rivista «la Vita internazionale» diretta da Teodoro Moneta perché rispondesse a un questionario sulla guerra e sul militarismo, egli redasse e inviò lo scritto Carthago delenda est nel quale non nascondeva il suo scetticismo nei confronti dei congressi pacifisti [5].

L’articolo non venne pubblicato a causa del sequestro della rivista, la quale peraltro pochi mesi dopo ospitò un altro scritto di Tolstoj, Patriottismo e cristianesimo[6]. I due termini a giudizio del grande scrittore russo erano inconciliabili e il Moneta, da buon pacifista quale si riteneva e da buon patriota quale era, non mancò di replicare sullo stesso fascicolo della rivista[7].

Dal canto loro i pacifisti svedesi, cui era affidata l’organizzazione del congresso, non dovevano aver dimenticato la lettera che nel gennaio 1899 Tolstoj aveva loro indirizzato per esprimere la sua piena approvazione dell’«idea… che il disarmo generale può essere conseguito nel modo più semplice e sicuro, attraverso il rifiuto delle singole persone a partecipare al servizio militare», ma al tempo stesso per dissipare la loro illusione che l’imminente conferenza dell’Aja «convocata dallo zar» potesse far propria ima siffatta richiesta[8].

La questione dell’obiezione di coscienza, quale necessaria derivazione dal precetto evangelico del «non uccidere», rimaneva la discriminante tra il suo pensiero e le posizioni del pacifismo «ufficiale». Egli lo ribadiva scrivendo nell’agosto 1901 alla baronessa Bertha von Suttner e riaffermando che «l’unica soluzione della questione della guerra» era «il rifiuto dei cittadini a fare il soldato» e non le conferenze e le società della pace[9].

Quando, sul finire del luglio 1909, Tolstoj si mise al lavoro per redigere il suo rapporto per Stoccolma egli non aveva certo mutato opinione rispetto ai suoi precedenti pronunciamenti. Dai primi rapidi appunti del diario risulta chiaramente che la sua decisione di accettare l’invito e di andare a Stoccolma non implicava un mutamento e neppure un’attenuazione delle sue convinzioni, ma che anzi egli desiderava cogliere quest’occasione per ribadirle con franchezza, se non al limite della provocazione.

«È importante — egli scriveva il 14/27 luglio — dire che la radice di tutto è il servizio militare. Se noi insegniamo al soldato ad uccidere, contraddiciamo tutto ciò che possiamo dire nell’interesse della pace. Occorre dire tutta la verità. Come se si potesse parlare di pace di fronte a re, imperatori, alti comandanti militari, che rispettiamo così come i francesi rispettano Mr. de Paris», l’appellativo con il quale si era soliti chiamare il boia[10].

La stesura del testo fu assai travagliata, come è attestato, oltre che dal diario, anche dalle varianti di singoli passi[11] e dall’abbozzo in lingua francese che presenta notevoli differenze dal testo definitivo[12] . A rendere ancor più difficile il lavoro di redazione contribuì certamente anche l’instabilità psicologica di Sofia Andreieevna, la moglie di Tolstoj, che ora si dichiarava contraria al progetto del viaggio svedese, sino al punto da tentare il suicidio, ora si dichiarava invece disponibile[13].

Perdurando questa incertezza, Tolstoj non perdeva occasione per far conoscere il proprio pensiero e in un’intervista rilasciata al giornalista Spiro il 30 luglio/12 agosto egli si impegnava a dare il testo al suo giornale, il Russkoe Slovo[14] e già in precedenza aveva provveduto a far avere agli Svedesi copia della sua lettera del 1899, che abbiamo già avuto modo di ricordare, e del Regno di Dio è in voi[15], quasi a ricordare che le sue idee di allora erano quelle di oggi. Il 12 agosto, il giorno stesso dell’intervista a Spiro, il rapporto per Stoccolma era terminato[16] e il 5/18 agosto Tolstoj lo correggeva trovandolo «quasi buono»[17].

Esso era un’esposizione fedele e appassionata delle sue idee e una rinnovata professione di fede nel suo pacifismo integrale.[18]

Concludendo Tolstoj esprimeva il suo rincrescimento «se queste mie parole vi offenderanno, amareggeranno e susciteranno risentimenti. Ma da vecchio ottantenne quale sono, ogni istante in attesa della morte, proverei vergogna e sarebbe per me un crimine tacere tutta la verità come io la sento, quella sola verità che, come credo, può liberare l’umanità dalle innumerevoli disgrazie che l’affliggono a causa della guerra»[19]. Ai fini della nostra esposizione merita di esser rilevato che lo spunto contenuto nei primi appunti circa l’accostamento tra il soldato e il carnefice era mantenuto, sia pure in una forma rielaborata. Vale la pena riprodurlo per intero:

… io proporrei di esprimere in questo manifesto l’idea che per gli uomini veramente istruiti e quindi liberi dalla superstizione della grandezza militare (che invece aumenta di giorno in giorno), la causa militare e il grado, nonostante tutti gli sforzi per celare il suo vero significato, è un affare altrettanto e persino più vergognoso della carica e della qualifica di carnefice, poiché quest’ultimo si dichiara pronto ad ammazzare solamente le persone considerate nocive e criminali, mentre un militare promette di uccidere tutti coloro che gli viene ordinato di uccidere, anche le persone a lui più vicine, anche le persone migliori[20].

A pochi giorni dalla data fissata per l’apertura del congresso tutto sembrava dunque procedere secondo le previsioni quando il 16 agosto il Comitato organizzatore comunicava con un telegramma al Bureau di Berna che «par suite grève générale en Suède dont maintenant impossible prédire le terme» aveva deciso di rinviare il congresso all’anno successivo[21].

Una contemporanea circolare firmata da Carl Carlson e Valdemar Langlet confermava questa decisione, pur riconoscendo che fino a quel momento la calma non era stata turbata e che le comunicazioni funzionavano regolarmente. Tuttavia, atteso che il ritorno alla normalità in un futuro immediato appariva «peu probable» e che perciò i congressisti stranieri avrebbero esitato a mettersi in viaggio, si riteneva necessario il rinvio[22]. Tolstoj aveva dovuto avere qualche sentore o presentimento della cosa se ne aveva fatto cenno nella citata intervista a Spiro e non dovette perciò essere molto sorpreso quando il 21 agosto la moglie e Aleksander Stankovic gli comunicarono la notizia del rinvio[23].

Il giorno stesso in una lettera a D.P. Makovickij egli si diceva convinto che quello dello sciopero non fosse che un pretesto e che il vero motivo del rinvio fosse l’imbarazzo che la sua presenza o anche solo le sue parole avrebbero creato[24].

Che fondamento aveva questa supposizione o questo sospetto? Una risposta (o un tentativo di risposta) è naturalmente possibile solo sulla base di un riscontro con i fatti.

Sullo sciopero generale del 1909 disponiamo di un accurato e dettagliato rapporto dell’Ufficio svedese del lavoro redatto su richiesta dell’amministrazione pubblica nel corso del 1910 e del 1911 e del quale una sintesi venne pubblicata nel giugno 1912[25].

Da essa apprendiamo che lo sciopero generale venne annunciato dalla Confederazione generale del lavoro il 24 luglio, qualora il Sindacato del padronato non avesse desistito dall’attuare le serrate preannunciate per il 2 e il 4 agosto in una serie di stabilimenti nei quali erano in corso scioperi aziendali[26].

Scaduti questi termini, lo sciopero ebbe inizio e venne estendendosi di giorno in giorno sino a raggiungere la cifra di 290.558 partecipanti nella giornata del 9 agosto[27]. Non vi furono incidenti e i servizi postali e ferroviari continuarono a funzionare [28]. Sempre secondo il rapporto dell’ufficio del lavoro il culmine dello sciopero fu raggiunto attorno al 10 agosto[29].

Dopo questa data cominciarono a manifestarsi le prime defezioni che andarono via via crescendo fino a che il 1 settembre la Confederazione generale del lavoro proclamò la fine dello sciopero generale, salvo che in quelle imprese che fossero minacciate di serrata nelle quali si continuò a scioperare fino a che non fu raggiunto un qualche accordo[30]. Il 9 settembre gli scioperanti erano ridotti a 124.351, il 24 a 83.858, il 1 ottobre a 63.620 e il 7 a 44.283[31].

Alla data del 16 agosto, alla quale venne deciso il rinvio del Congresso, lo sciopero aveva dunque raggiunto il suo apice e stava entrando nella fase declinante. Inoltre alcuni dei più autorevoli esponenti del pacifismo ufficiale si trovavano già a Stoccolma. È il caso del Moneta, il quale trovò anzi il modo di deplorare l’intempestività, a suo giudizio, dello sciopero[32] Dal canto suo il La Fontaine, presidente del Bureau, protestò per il rinvio del congresso[33]. Non si può tuttavia escludere che gli organizzatori del congresso avessero atteso fino al 16 agosto nella speranza che lo sciopero cessasse e che i motivi addotti nel telegramma e nella circolare fossero fondati. Vi sono però altri elementi che debbono esser presi in considerazione e che vanno nel senso di accreditare i sospetti di Tolstoj.

Nell’apparato critico delle opere complete di Tolstoj si dice che il suo rapporto fu pubblicato per la prima volta a Los Angeles in una raccolta di scritti editi dall’Università popolare russa nel 1910[34].

Sembra però improbabile che questa pubblicazione sia precedente al gennaio-febbraio 1910, data alla quale il rapporto venne pubblicato sotto il titolo Un discours de Tolstoi contre la guerre nel periodico Les Etats-Unis d’Europe, che si stampava a Berna sotto gli auspici del Bureau e del suo segretario Gobat[35]. Comunque, a prescindere dalla questione della data e della precedenza, il testo pubblicato dal giornale del Bureau merita di esser esaminato attentamente.

Nella breve avvertenza che lo precede si affermava che il testo era pubblicato «in extenso» e di fatto esso corrisponde, salvo variazioni non significative, a quello originario. Tranne che in un punto: veniva infatti interamente omesso il passo citato più sopra con l’accostamento e il parallelo in esso contenuti tra le figure del soldato e del carnefice.

Evidentemente una siffatta affermazione era giudicata inaccettabile. Vi è da chiedersi se questa stessa reazione non ebbero coloro che per primi lessero il rapporto di Tolstoj e se essi non si siano domandati quale effetto parole così aspre avrebbero avuto sullo scelto uditorio dei congressisti di Stoccolma.

Nonostante questa censura, lo scritto di Tolstoj conteneva concetti e affermazioni estranee al linguaggio e al pensiero dei pacifisti del Bureau e infatti nell’avvertenza essi non mancavano di mettere in guardia il lettore perché non si lasciasse affascinare da questo «morceau d’eloquence» scritto con «véritable foi d’apôtre».

Essi tenevano inoltre a precisare che riproducendolo non si intendeva in alcun modo far proprie le opinioni di un autore che, vivendo in uno stato assolutista, era portato a negare che i governi potessero svolgere quel ruolo di moderazione e di pace che essi felicemente svolgevano nell’«Europa centrale». Quella di Tolstoj era insomma una «philosophie russe» e il lettore veniva ammonito a non seguirlo «sur la pente où il essaie de nous conduire».

Alla luce di quanto si è detto sin qui i sospetti di Tolstoj circa il rinvio del Congresso non appaiono infondati. Sta però di fatto che nella primavera del 1910 egli venne nuovamente invitato a partecipare al Congresso di Stoccolma. La sua risposta fu, per sua stessa ammissione, «velenosa»[36].

In ima lettera del 20 luglio/2 agosto egli ricordava di aver già espresso il suo pensiero nella relazione inviata l’anno precedente e si dichiarava convinto che essa «non soddisferà le richieste delle (eminentissime) persone riunite nella Conferenza… perché, da quel che ho potuto notare, in tutte le conferenze per la pace il mio punto di vista, e non soltanto il mio personale, ma di tutti gli uomini religiosi del mondo, viene stigmatizzato con una parola vaga e nuova «antimilitarismo»[37].

Per parte sua egli rimaneva antimilitarista e, in quanto tale, convinto della «completa inutilità» delle conferenze per la pace e fedele alla legge del «non uccidere»… « nota a tutto il mondo e (che) non può essere sconosciuta ai membri (tutti eminentissimi) della Conferenza»[38].

Concludendo la sua lettera Tolstoj stemperava i «veleni» e si rivolgeva agli «eminentissimi» membri del Congresso come a degli «amati fratelli». Il messaggio che egli «prossimo ormai agli ultimi giorni o forse ore della mia vita» indirizzava loro rimaneva però sempre il medesimo, quello della «legge dell’amore verso Dio e verso il prossimo»[39]. Forse, come era sua abitudine, Tolstoj si proponeva di ritoccare ulteriormente il testo, ma questa volta non lo fece e la lettera non venne spedita ai suoi destinatari.

La seduta inaugurale del XVIII Congresso della pace si aprì con i consueti discorsi ufficiali inframezzati da una «cantata» per la pace e si chiuse con la lettura dei telegrammi di riverente saluto inviati al re di Svezia e agli esponenti più in vista e più «eminenti» del pacifismo internazionale, tra i quali lo stesso Tolstoj, che non avrebbe certo gradito questo omaggio e questa associazione[40]. La sua relazione non venne letta né discussa. Qualche settimana dopo, il 7/20 novembre, Tolstoj moriva nella stazione di Astapovo.

La vicenda che abbiamo ricostruito non era però del tutto conclusa. Nel febbraio 1911 la Società della pace di Mosca sollecitava con una lettera del suo presidente P.P. Dolgorukov il Bureau di Berna a far pervenire a tutti i partecipanti al congresso di Stoccolma la relazione di Tolstoj che «par suite d’un rétard accidentel» non era stata presentata e a presentarla al prossimo congresso che si sarebbe tenuto a Roma. In tal modo si sarebbe reso omaggio alla memoria del grande scrittore recentemente scomparso[41].

Come è noto, il Congresso di Roma non si tenne perché la sua apertura si trovò a coincidere con l’inizio della guerra italo-turca e quando, nel settembre 1912, i pacifisti si riunirono a congresso a Ginevra, essi erano troppo occupati a cercare di appianare le divergenze manifestatesi tra loro appunto in seguito alla guerra libica[42].

Il compito di ricordare Tolstoj e di fare i conti con il suo pacifismo rimaneva riservato ai necrologi delle varie riviste pacifiste. Tra le espressioni di omaggio e di ammirazione verso il grande scrittore e verso «il sacerdote dell’idea della pace»[43] risulta tuttavia evidente in taluni di essi la volontà di distinguersi e di prendere le distanze.

Se per Alfred Fried, che ne scrisse sulla sua rivista, la Friedenswarte, quello di Tolstoj era un pacifismo di stampo ottocentesco, speculare al culto della forza bismarckiano e, come tale, superato dall’illuminato secolo XX[44], per Berardo Montani, cui fu affidato il necrologio sulla rivista del Moneta, egli era più semplicemente un «anacronismo vivente»[45].

Note

[1] Copia della circolare è in Archivio della Biblioteca delle Nazioni Unite, Ginevra (d’ora in poi ABNU), fondo Bureau International de la paix (BIP), b. 107, fasc. 2

[2] Il testo della lettera di Tolstoj è in L.N.Tolstoj, Polnoe sobranie socinenij (d’ora in poi PSS), Moskva, vol. 79, pp. 22-23

[3] PSS, vol. 57, p.

[4] PSS, vol. 38, pp. 106 ss.

[5] PSS, vol. 39, pp. 216 ss.

[6] PSS, vol. 39, pp. 27 ss. L’articolo è tradotto parzialmente in «La vita Internazionale», 1898, pp. 289-291.

[7] «La vita Internazionale», 1898, pp. 369-371

[8] PSS, vol. 90, pp. 60-66; tr. it. in P.C. Bori, Tolstoj, Fiesole, 1991, pp. 160-165.

[9] Cfr. G. Procacci, Premi Nobel per la pace e guerre mondiali, Milano, 1989, p. 16.

[10] PSS, vol. 57, pp. 95-96.

[11] PSS, vol. 38, pp. 306-311, dove sono pubblicate 11 varianti.

[12] PSS, vol. 38, pp. 311-316.

[13] PSS, vol. 57, p. 103, 110, 111.

[14] PSS, vol. 38, p. 521.

[15] PSS, vol. 57, p. 98.

[16] PSS, vol. 57. p. 110.

[17] PSS, vol. 57, p. 111.

[18] Il testo è in PSS, vol. 38, pp. 119-125; tr. it. in Bori, op. cit., pp. 183-188, da cui si cita.

[19] Ivi, p. 188.

[20] Ivi, p. 187.

[21] Copia del telegramma in ABNU, fondo BIP, b. 107, fasc. 3.

[22] Il testo della circolare in ABNU, fondo BIP, b. 107, fasc. 8.

[23] PSS, vol. 57, p. 112.

[24] Cfr. K. Lomunov, Zhisn’ L’va Tolstogo, Moskva, 1981, p. 229. Bori, op. cit., p. 183 cita la successiva testimonianza del biografo di Tolstoj P.I. Birjukov.

[25] Les Lock-out et la grève generale en Suède en 1909. Rapport présenté par l’office du travail à l’administration royale de l’industrie et du commerce, Stockhobn, 1912.

[26] Ivi, p. 60.

[27] Ivi, p. 89.

[28] Ivi, p. 68.

[29] Ivi, p. 89.

[30] Ibid.

[31] Ibid.

[32] Cfr. «La vita internazionale», 1909, p. 587.

[33] ABNU, fondo BIP, b. 107, fasc. 8.

[34] PSS, vol. 38, p. 521. La notizia è ripresa da Bori, cit., p. 183.

[35] Copia del numero del gennaio-febbraio di Les Etats-Unis d’Europe si trova in ABNU, fondo BIP, b. 109, fasc. 8. 26

[36] PSS, voL 58, p. 80 (19 luglio 1910); cfr. Bori, op. cit., p. 196.

[37] PSS, vol. 38, pp. 419-424; cfr. Bori, op. cit., pp. 197-198, da cui si cita.

[38] Ivi, p. 197.

[39] Ivi, p. 198.

[40] Un resoconto del Congresso è in «La vita internazionale», 1910, p. 396.

[41] ABNU, fondo BIP, b. 109, fasc. 8.

[42] Ho ricostruito questa vicenda nel mio Premi Nobel per la pace e guerre mondiali, cit., p. 43 ss.

[43] L’espressione è di Bertha von Suttner. Cfr. G. Procacci, cit., p. 27

[44] Cfr. Ivi, p. 76.

[45] «La vita internazionale, 1910, p. 536.

Pubblicato su “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, Rivista del Dipartimento di studi storici del medioevo all’età contemporanea dell’Università “La sapienza” di Roma. n.1, 1992, pp. 21-28

Giuliano Procacci è stato professore di storia contemporanea all’Università di Firenze e alla “Sapienza” di Roma. È stato presidente della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano e senatore della Repubblica per due legislature.
Intellettuale eclettico, aperto, cosmopolita e indipendente, si è formato alla scuola delle Annales di Parigi. Questo imprinting ha segnato la sua formazione di storico caratterizzata dall’estrema attenzione alle fonti, alle nuove idee e ai nuovi movimenti e dall’analisi dei fenomeni profondi in particolare della società civile. Fondamentali i sui studi sulla fortuna del Machiavelli pubblicati per la prima volta nel 1965 in francese dall’editore Fayard.
L’opera più conosciuta e citata di Procacci è la Storia degli italiani (1968), che ha avuto moltissime traduzioni straniere ed è per molti versi il libro canone fuori dall’Italia per la storia del nostro paese.
Dopo la caduta del muro di Berlino Procacci ha operato un profondo ripensamento della storia che ha prodotto due libri importanti, Storia del mondo contemporaneo. Da Sarajevo a Hiroshima (Roma, Editori Riuniti, 1999) e Storia del XX secolo (Milano, Bruno Mondadori, 2000).
Studioso del movimento operaio, dei movimenti pacifisti e del mondo arabo pre e post coloniale, ha dedicato l’ultima parte della sua carriera allo studio di questi fenomeni. Da segnalare: Dalla parte dell’Etiopia. L’aggressione italiana vista dai movimenti anticolonialisti d’Asia, d’Africa, d’America, Milano, Feltrinelli, 1984; Premi Nobel per la pace e guerre mondiali, Milano, Feltrinelli.
Si è molto occupato anche di didattica della storia. Ha scritto per Laterza un corso di storia per le superiori e due saggi sui contenuti della manualistica scolastica La memoria controversa. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Cagliari, AM&D, 2003; Carte d’identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Roma-Cagliari, Carocci-AM&D, 2005.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.