Theodor Adorno, parola chiave: Teoria e prassi
[Note marginali su teoria e prassi]
a Ulrich Sonnemann
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Che la questione di teoria e prassi dipenda molto da quella di soggetto e oggetto, lo dimostra una semplice presa di coscienza storica. Nella stessa epoca in cui la teoria cartesiana delle due sostanze ratificò la dicotomia di soggetto e oggetto, la prassi fu per la prima volta rappresentata nella letteratura sull’argomento come problematica, a causa della sua tensione verso la riflessione. La pura ragion pratica è, in ogni fervente realismo, così priva di oggetto, come il mondo, per la manifattura e per l’industria, diventa mero materiale privo di qualità della lavorazione, la quale dal canto suo non si legittima in alcun modo che sul mercato. Mentre la prassi promette di far uscire gli uomini dalla loro chiusura in se stessi, essa è in realtà sempre più chiusa; per questo motivo i fautori della prassi sono intrattabili, e il riferimento all’oggetto della prassi è minato a priori. È vero che ci si potrebbe chiedere se ogni prassi che domini sulla natura, nella sua indifferenza verso l’oggetto, non sia stata finora prassi apparente. Il suo carattere di apparenza illusoria essa lo trasmette anche a tutte quelle azioni che assumono integralmente l’antico gesto violento della prassi. A ragione si è mosso al pragmatismo americano, fin dal suo inizio, il rimprovero che esso, mentre dichiara che il criterio di validità della conoscenza è la sua utilità pratica, di fatto le fa prestare giuramento sui rapporti esistenti; in nessun altro modo tuttavia si può verificare l’effetto pratico di utilità della conoscenza. Ma se, alla fine, la teoria che costituisce a suo oggetto la totalità, per non risultare vana, viene fissata riduttivamente, hic et nunc, al suo effetto utile, allora le accade questo: che, a dispetto di quel che crede, essa si incatena all’immanenza del sistema. Da quest’ultima la teoria potrebbe svincolarsi, solo se si liberasse dai ceppi pragmatistici, non importa come modificati. Che ogni teoria sia grigia, Goethe lo fa predicare all’alunno di Mefistofele, che egli prende per il naso; il principio era ideologia già fin dal primo giorno, inganno perciò, allo stesso modo di come assai poco verde è l’albero della vita che i fautori della prassi hanno piantato, e che il diavolo nel medesimo istante eguaglia al metallo prezioso, all’oro; questo mentre il grigio della teoria, dal canto suo, si qualifica come funzione della vita dequalificata. Nulla dev’esserci, che non si lasci afferrare; meno che mai il pensiero. Il soggetto che viene rigettato su se stesso, fino a risultare diviso da un abisso da ciò che gli è altro, si svela incapace di azione. Amleto è la storia originaria dell’individuo nella sua riflessione soggettiva, altrettanto che il dramma dell’individuo paralizzato nell’azione da tale riflessione stessa. L’auto alienazione dell’individuo rispetto a ciò che non gli è eguale, l’individuo stesso la sente come a sé inadeguata, fino a risultare inibito nel suo intento di attuarla. Solo un po’ più in là nel tempo il romanzo giunge a descrivere come l’individuo reagisca a tale situazione, cui falsamente viene dato per nome l’appellativo “estraniazione” quasi fosse esistita nell’epoca preindividuale la vicinanza, la quale invece difficilmente può essere percepita altrimenti che da esseri individuati: gli animali sono infatti, secondo le parole di Borchardt, “una comunità solitaria”. L’individuo vi reagisce con la pseudo attività. Le follie di Don Chisciotte sono tentativi di compensazione nei riguardi dell’altro che gli sfugge di mano; in termini psichiatrici, sono “fenomeni di restituzione”. Quel che da allora in poi viene considerato come il problema della prassi e che oggi, ripresentandosi, trova il suo culmine nella questione concernente il rapporto di teoria e prassi, coincide con la perdita dell’esperienza, causata dalla razionalità del sempre uguale. Dove l’esperienza è bloccata, o assolutamente non è più, la prassi ne viene danneggiata, e perciò deformata, proprio nel momento in cui ci si induce disperatamente a sopravvalutarla. Pertanto quello che si chiama il “problema della prassi” risulta intimamente connesso al problema della conoscenza. La soggettività astratta, nella quale culmina il processo di razionalizzazione, a rigore tanto meno è in grado di fare davvero qualcosa, quanto più il soggetto trascendentale pretende di essere in grado di rappresentare quella facoltà che proprio a esso viene attribuita: la spontaneità. A partire dalla dottrina cartesiana dell’indubitabile certezza del soggetto e la filosofia che la descrisse codificò un che di storicamente compiuto, una costellazione di soggetto e oggetto nella quale, secondo l’antico luogo comune filosofico, solo il non uguale è in grado di riconoscere il non uguale la prassi presuppone qualcosa di illusorio, anche se a essa non è dato di perpetuare tale inganno oltre la soglia della tomba. Parole come attività e operosità colgono questa sfumatura in modo molto pregnante. Le realtà apparenti di alcuni movimenti operativi di massa del ventesimo secolo, che si trasformarono nella più cruenta realtà, e sono tuttavia adombrati dal non affatto reale, dall’illusorio, nacquero solo allorché ci si interrogò sull’azione. Mentre il pensiero si limita alla ragione soggettiva, praticamente utile, l’altro, che le scivola di mano, viene correlativamente assegnato a una prassi sempre più priva di concetto, che non riconosce altro criterio di misura al di fuori di se stessa. Antinomico come la società che lo produce, lo spirito borghese riunisce in sé autonomia e ostilità pragmatistica per la teoria. Il mondo, che viene solo tendenzialmente ricostruito dalla ragione soggettiva, è destinato, è vero, a essere continuamente trasformato, in conformità alla sua tendenza all’espansione economica; tuttavia esso rimane quel che è. Ciò che tocca quest’argomento viene ritagliato via ed espulso dall’ambito del pensiero: in particolare la teoria che esige qualcosa di più della mera ricostruzione. Bisognerebbe instaurare una coscienza di teoria e prassi, che né le separi, rendendo di conseguenza impotente la teoria e arbitraria la prassi, né infranga la teoria mediante il primato di origine borghese proclamato da Kant e Fichte della ragion pratica. Il pensiero è un agire, la teoria una forma della prassi; solo l’ideologia della purezza del pensiero inganna su ciò. Il pensiero ha un carattere duplice: è immanentemente determinato e rigoroso, e tuttavia è un modo di comportarsi necessariamente reale in mezzo alla realtà. Questo per il fatto che il soggetto, la sostanza pensante dei filosofi, è oggetto, rientrando esso stesso nell’oggetto, essendo un a priori anche pratico. Ma la sempre di nuovo riaffiorante irrazionalità della prassi, — la sua immagine estetica originaria è costituita dalle improvvise azioni casuali, mediante le quali Amleto realizza ciò che ha progettato, e nello stesso tempo fallisce nella realizzazione –, instancabilmente vivifica l’illusoria apparenza della separazione assoluta di soggetto e oggetto. Allorché l’oggetto viene illusoriamente presentato al soggetto come l’incommensurabile in quanto tale, il cieco destino cattura la comunicazione tra i due.
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Saremmo grossolani se volessimo, per amore di costruzione storico-filosofica, datare la divergenza di teoria e prassi a un’epoca così tarda come il Rinascimento. Solo che essa in quel periodo è stata per la prima volta fatta oggetto di riflessione, in seguito al crollo di quell’ordine che presunse di assegnare alla verità, come pure alle opere buone, un preciso posto all’interno di un ordine gerarchico. Si esperì in tal modo la crisi della prassi nella forma: non sapere ciò che si deve fare. Insieme alla gerarchia medievale, che si presentava legata alla casistica suesposta, si dissolsero le direttive pratiche che allora, pur in tutta la loro problematicità, sembravano per lo meno adeguate alla struttura sociale. Nel formalismo lottante su più fronti dell’etica kantiana, ha trovato il suo culmine un movimento che prese inarrestabilmente l’avvio con l’emancipazione della ragione autonoma e col diritto critico. L’incapacità di azione fu primariamente la coscienza della mancanza di norme regolative, debolezza già fin dall’origine; l’indugio, strettamente congiunto alla ragione in quanto contemplazione, e inibitore della prassi, deriva da qui. Il carattere formale della ragion pura pratica costituì il suo fallimento dinnanzi alla prassi; ma certo indusse anche all’autocoscienza, la quale condusse poi al di là del colpevole concetto di prassi. Se la prassi autarchica da sempre ha tendenze maniacali e coatte, allora si chiama auto coscienza nei confronti di queste l’interruzione dell’azione ciecamente orientata verso l’esterno, la non ingenuità come transizione all’umano. Chi non vuole romanticizzare il Medioevo deve inseguire a ritroso la divergenza di teoria e prassi, fino alla più antica divisione tra lavoro materiale e lavoro spirituale, probabilmente fin nella più buia preistoria. La prassi è emersa dal lavoro. Essa pervenne al suo concetto allorché il lavoro non volle più soltanto riprodurre direttamente la vita, ma volle produrne anche le condizioni: il che condusse a un conflitto con le condizioni già esistenti. La sua origine dal lavoro grava pesantemente su ogni prassi. Ha accompagnato fino ad oggi il momento della non libertà, che essa ha trascinato inevitabilmente con sé: il fatto cioè che si dovette un tempo agire contro il principio del piacere per l’autoconservazione; sebbene tuttavia non ci sarebbe più bisogno di associare alla rinuncia il lavoro, che è ormai possibile ridurre al minimo indispensabile. Anche il fatto che il desiderio di libertà sia strettamente affine all’avversione per la prassi, viene represso dall’attuale azionismo. La prassi è stata il rispecchiamento della miseria della vita; il che la deforma anche quando essa vuole eliminare proprio la miseria della vita. Quindi l’arte è critica della prassi che si caratterizzi come non libertà; con ciò ha inizio la sua verità. L’orrore insito nella prassi, la quale oggi viene trattata dovunque con tanta considerazione, si può accostare in modo forse scioccante ai fenomeni della storia naturale, come ad esempio ai lavori di costruzione dei castori, alla diligenza delle formiche e delle api, all’appiattirsi grottescamente penoso dell’insetto che trasporta un fuscello. Ciò che è molto recente s’intreccia nella prassi con ciò che è molto antico; di nuovo essa diventa l’animale sacro, così come nei tempi preistorici poteva sembrare delitto il non assoggettarsi completamente all’attività di auto conservazione della specie. La fisionomia della prassi è serietà animalesca; tale serietà si scioglie quando l’ingegno si emancipa dalla prassi: il che fu ben inteso dalla teoria del gioco di Schiller. Per la maggior parte i fautori dell’azione si mostrano privi di humor, dando vita a un fenomeno che non è meno preoccupante di quello contrario, consistente nell’humor di coloro che ridono insieme. La mancanza di auto coscienza non ha origine soltanto dalla loro psicologia. Essa contrassegna la prassi, non appena quest’ultima, come feticcio di se stessa, si trasforma in barricata posta davanti a quello che dovrebbe essere il suo stesso scopo. La dialettica è disperata, proprio per il fatto che può sottrarsi al tirannico potere che la prassi instaura intorno agli uomini, solo mediante la prassi; è disperata perché per ora la prassi stessa, in quanto prassi nella tirannia, coercitivamente contribuisce a rafforzare quest’ultima, ottusa com’è e limitata e lontana dallo spirito. La più recente ostilità per la teoria, innervando in sé tutto ciò, se ne fa un programma. Ma lo scopo pratico, quello che racchiude in sé la liberazione da tutto ciò che è limitato, non è indifferente ai mezzi con cui lo si vuole raggiungere; se ciò non fosse, la dialettica degenererebbe in volgare gesuitismo. Il parlamentare idiota della caricatura di Doré, che dice vantandosi: “Signori miei, sono prima di tutto pratico”, si palesa come un omiciattolo incapace di scorgere alcunché al di là dei propri compiti immediati, che osa diventare, nella sua presunzione, orgoglioso di ciò che lo limita; il suo gesto denunzia lo spirito della prassi stessa come non spirito. Ciò che non è limitato viene invece difeso dall’autentica teoria. Nonostante tutta la sua non libertà, la teoria è, all’interno della non libertà stessa, il baluardo della libertà.
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Oggi si abusa ancora dell’antitesi di teoria e prassi fino a giungere alla delazione della teoria. Quando si mise a soqquadro la camera di uno studente, per il fatto che costui preferiva lavorare piuttosto che partecipare all’attività politica pratica, glielo si rinfacciò apertamente: chi si occupa di teoria, senza agire praticamente, sarebbe un traditore del socialismo. La prassi è diventata, e non solo per quanto riguarda l’episodio di questo studente, il pretesto ideologico per la coercizione della coscienza. Il pensiero diffamato dai fautori della prassi li affatica evidentemente in modo eccessivo: impone troppo lavoro, è troppo “pratico”. Chi pensa, oppone resistenza; è più comodo nuotare nel senso della corrente che contro di essa, dichiarò anche lo studente. Cedendo a una forma regressiva e deformata del principio del piacere, le cose diventano più facili, ci si lascia andare, e si può per giunta sperare di ricevere un premio morale dai consenzienti. Il Super io di compensazione collettivo esige un rivolgimento brutale, cosa che invece l’antico Super io disapprovò: la cessione di se stesso conferisce a colui che acconsente la qualifica di uomo migliore. Anche in Kant la prassi enfatica era volontà buona; quest’ultima però era intesa come ragione autonoma. Un concetto non limitato di prassi tuttavia può riferirsi unicamente alla politica, ai rapporti sociali, che condannano all’assoluta irrilevanza la prassi di ogni singolo individuo. Qui sta il punto nodale della differenza tra l’etica kantiana e le concezioni di Hegel, il quale, come ben vide Kierkegaard, sostanzialmente non riconosce più l’etica nell’intelletto tradizionale. Gli scritti di filosofia morale di Kant, conformemente alla situazione provocata dal rischiaramento nel diciottesimo secolo, nonostante ogni antipsicologismo e ogni sforzo di validità persino troppo vincolante, estensiva, erano individualistici in quanto si rivolgevano all’individuo come al substrato del giusto: in Kant, radicalmente razionale agire. Gli esempi di Kant vengono tutti quanti dalla sfera privata e da quella operativa; il concetto dell’etica dell’intenzione, il cui soggetto dev’essere il singolo essere individuato, ne viene condizionato. In Hegel si annunzia per la prima volta l’esperienza, il fatto cioè che l’agire dell’individuo, per quanto possa sforzarsi di caratterizzarsi come volontà pura, non perviene a una realtà che prescrive e restringe all’individuo le condizioni del suo agire. Hegel, estendendo il concetto del “morale” al “politico”, risolve quello in questo. Da allora in poi nessuna riflessione apolitica sulla prassi può più venir accolta come valida. Altrettanto poco tuttavia si dovrebbero nutrire illusioni su questo fatto: che proprio nell’estensione politica del concetto di prassi è posto il fondamento della repressione dell’individuale mediante l’universale. L’umanità, che non esiste senza individuazione, viene virtualmente smentita attraverso la presuntuosa liquidazione di questa. Ma una volta che si sia reso spregevole l’agire del singolo individuo, e quindi di tutti i singoli individui, ciò che risulta paralizzato è anche e proprio l’agire collettivo. La spontaneità, di fronte all’effettivo strapotere dei rapporti oggettivi, appare a priori come priva di valore. La filosofia morale di Kant e la filosofia del diritto di Hegel rappresentano due stadi dialettici dell’auto coscienza borghese della prassi. Entrambi, divisi secondo la polarità del particolare e dell’universale, che quella coscienza disgiunge l’uno dall’altro, sono anche falsi; entrambi hanno ragione l’uno contro l’altro, finché non si sveli nella realtà una possibile forma superiore di prassi; il suo disvelamento ha bisogno della riflessione teoretica. Non c’è dubbio, e risulta incontestabile, che l’analisi razionale della situazione è il presupposto per lo meno della prassi politica: persino nella sfera militare, la quale è per eccellenza la sfera della brutale preminenza della prassi, si procede così. L’analisi della situazione non si esaurisce nell’adeguamento a quest’ultima. Riflettendo su di essa, l’analisi mette in rilievo i momenti che possono condurre al di là delle coazioni imposte dalla situazione. Questo è di grandissima importanza per il rapporto di teoria e prassi. Attraverso la sua differenza dalla prassi in quanto agire immediato, situazionalmente vincolato, attraverso anche la sua autonomizzazione, la teoria diventa forza produttiva pratica, trasformatrice. Se il pensiero è pensiero di qualcosa, da cui dipende, allora esso presuppone sempre e senz’altro un impulso motore pratico, per quanto occulto tale impulso possa essere al pensiero. Pensa solo chi non accetta passivamente ciò che è da sempre dato; dall’uomo primitivo che riflette su come proteggere il suo focherello dalla pioggia o su dove possa andare a rimpiattarsi dinnanzi al temporale, fino all’illuminista che elabora la teoria di come l’umanità sia uscita dalla sua minorità, di se stessa colpevole, attraverso l’interesse per l’auto conservazione. Simili motivi continuano a operare; più che mai, forse, laddove non sono immediatamente tematizzabili i motivi pratici. Non si dà pensiero qualora esso risulti incapace di essere qualcosa di più che una mera sistemazione di dati e un frammento di tecnica privo di telos pratico. Ogni meditazione sulla libertà si prolunga nella concezione della sua possibile restaurazione, finché la meditazione non venga imbrigliata praticamente e tagliata su misura per i risultati a essa imposti. Tuttavia la separazione tra soggetto e oggetto è tanto poco revocabile tramite una decisione d’imperio del pensiero, quanto poco esiste l’unità immediata di teoria e prassi: essa ha imitato la falsa identità di soggetto e oggetto, ed ha perpetuato il principio tirannico che pone l’identità, il combattere contro il quale fa parte della vera prassi. Il contenuto di verità inerente alla questione dell’unità di teoria e prassi è stato vincolato a condizioni storiche. Nei punti nodali, nei punti di rottura dello sviluppo, la riflessione e l’azione possono ritrovarsi in una sola fiammata; anche allora, tuttavia, non sono la stessa cosa.
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La priorità dell’oggetto dev’essere tenuta in considerazione dalla prassi; la critica dell’idealista Hegel all’etica della coscienza mora le di Kant ha enunciato questo fatto per la prima volta. La prassi è ben intesa in quanto il soggetto, dal canto suo, è un che di mediato, è ciò che vuole l’oggetto: la prassi viene dopo il bisogno dell’oggetto. Non però attraverso un semplice adeguamento del soggetto, che ha dimostrato di saper solo rafforzare l’oggettività eteronoma. Il bisogno dell’oggetto è mediato dal sistema sociale globale; quindi è criticamente determinabile soltanto mediante la teoria. La prassi senza teoria, al di sotto dello stadio di massimo progresso della conoscenza, necessariamente fallisce, mentre, in conformità al concetto della teoria, la prassi potrebbe invece realizzarlo. La falsa prassi non è prassi. La disperazione che, trovando sbarrate le vie d’uscita, si precipita alla cieca, associa se stessa anche se s’attiene alla volontà più pura al male. L’ostilità contro la teoria che è nello spirito del nostro tempo, la sua estinzione, la quale non è per nulla accidentale, la sua messa al bando da parte dell’impazienza, che vuole cambiare il mondo senza interpretarlo, avendo dichiarato sull’istante che i filosofi finora avrebbero meramente interpretato il mondo, tale ostilità per la teoria diventa la debolezza della prassi. Il fatto che la teoria debba sottomettersi alla prassi, dissolve il suo contenuto di verità e condanna la prassi stessa all’illusione: è ormai tempo di enunciare questa verità. Ai movimenti collettivi — e in questa sede evidentemente non importa a quale contenuto essi si richiamino — un certo pizzico di follia assicura una sinistra forza di attrazione. Attraverso l’integrazione nell’illusione collettiva gli individui risolvono la propria disintegrazione al pari di come, stando all’intuizione di Ernst Simmel, risolvono attraverso la paranoia collettiva la paranoia privata. Essa si estrinseca sull’istante innanzitutto come incapacità, oggettiva, del soggetto non in armonia, di comprendere le contraddizioni da risolvere riflettendole nella coscienza; l’unità spasmodicamente incontestata è l’immagine di copertura dell’irresistibile dissidio del soggetto con se stesso. L’illusione sanzionata dispensa dalla verifica della realtà, che necessariamente nella coscienza indebolita incorre in insopportabili antagonismi, come quello tra bisogno soggettivo e rifiuto oggettivo. Il servitore adulatoriamente malvagio del principio del piacere contagia il momento illusorio con una malattia che minaccia mortalmente l’Io attraverso l’illusoria apparenza della sua sicurezza. L’auto conservazione dovrebbe guardarsi da qualcosa di sommamente semplice da comprendere, e che proprio perché tale viene continuamente rimosso: dall’ostinato rifiuto cioè di passare il Rubicone, rapidamente disseccantesi, tra ragione e illusione. Il passaggio alla prassi priva di teoria viene motivato dall’impotenza oggettiva della teoria, ma finisce col moltiplicare quell’impotenza tramite l’isolamento e la feticizzazione del momento soggettivo del movimento storico, della spontaneità. La sua deformazione è deducibile come formazione reattiva rispetto al mondo amministrato. Poiché, tuttavia, convulsamente essa non vuol aprire gli occhi davanti alla totalità di quel mondo, e si comporta come se tutto ciò fosse immediatamente connaturato agli uomini, essa si inquadra nel contesto della tendenza oggettiva alla disumanizzazione progressiva; anche nelle sue azioni pratiche. La spontaneità, che ha cooptato in sé il bisogno dell’oggetto, dovrebbe fissarsi sui punti cruciali della realtà sclerotizzata, su quelli in cui vengono alla luce le fratture che la pressione dell’irrigidimento determina; e non battersi senza scegliere, astrattamente, senza tener conto cioè del contenuto di ciò per cui spesso si combatte solo a scopo di réclame.
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Se in via eccezionale ci si azzarda, al di là delle differenze storiche in cui i concetti di teoria e prassi hanno la loro vita, a gettare quel che si chiama uno sguardo prospettico d’insieme, si percepisce il momento immensamente progressista della diffamata scissione di teoria e prassi, deplorata dal Romanticismo, e dopo di esso da molti socialisti non dal Marx maturo. È vero che è apparenza illusoria l’esonero dello spirito dal lavoro materiale, perché lo spirito presuppone per la propria esistenza il lavoro materiale. D’altra parte però quell’esonero non è solo apparenza illusoria, non serve solo alla repressione. La scissione contrassegna lo stadio di un processo che conduce fuori dal cieco predominio della prassi materiale, potenzialmente verso la libertà. Il fatto che alcuni vivano senza esercitare alcun lavoro materiale, e, come lo Zarathustra di Nietzsche, si rallegrino del loro spirito, la situazione del privilegio ingiusto cioè, dice anche che ciò è possibile per tutti; e più che mai in uno stadio delle forze produttive tecniche che renda prevedibile l’universale esenzione dal lavoro materiale, la riduzione di quest’ultimo a un valore limite. Tuttavia la revoca di tale scissione attuata attraverso una decisione d’imperio, si presume ideale, mentre al contrario è regressiva. Lo spirito che si crede sovrano e vuole isolarsi e chiudersi ermeticamente in se stesso, senza contatto alcuno con la prassi, incapace di eccedere positivamente nei confronti della prassi, resosi in realtà omogeneo a essa, diventerebbe concretismo. Concorderebbe con la tendenza tecnocratico-positivistica, alla quale presume di opporsi, e con la quale possiede invece più affinità del resto — anche in certo suo spezzarsi in parti e in fazioni — di quanto possa immaginare. In virtù della scissione di teoria e prassi e della presa di coscienza di essa, l’umanità si ridesta; tale scissione è invece estranea e ignota a quella non separazione, che in realtà si sottomette al primato della prassi. Gli animali, proprio come i soggetti affetti da lesioni encefaliche regressive, riconoscono soltanto gli oggetti dell’azione: la percezione, l’astuzia, il mangiare, sono identici nella situazione di coazione, la quale grava ancor più pesantemente sull’essere vivente privo di soggetto che sul soggetto. L’astuzia si è inevitabilmente resa autonoma: con ciò gli individui acquisiscono quella distanza dal mangiare, il telos della quale dovrebbe essere la fine della tirannide in cui la storia della natura si perpetua. Ciò che è mitigante, mansueto, tenero — anche ciò che è conciliante — provoca nella prassi una contraffazione dello spirito, risultando così un prodotto di quella scissione, la cui revoca sollecita la riflessione troppo irriflessa. La desublimazione, che comunque non c’è bisogno di raccomandare apposta nell’epoca attuale, ha eternizzato quella situazione di offuscamento che i suoi sostenitori dovrebbero invece rischiarare. Il fatto che Aristotele abbia posto nel punto più alto della gerarchia le virtù dianoetiche aveva indubbiamente il suo risvolto ideologico, la rassegnazione cioè del privato cittadino ellenistico, che deve sottrarsi all’influenza esercitata sulle cose pubbliche dall’angoscia, e perciò ne cerca una giustificazione. Ma la sua teoria della virtù dischiuse altresì l’orizzonte della contemplazione beata: beata perché sarebbe sfuggita sia all’esercizio del potere che all’inerte sottomissione a esso. La politica aristotelica è tanto più umana della Repubblica di Platone quanto una coscienza quasi borghese è più umana di una coscienza restauratrice, che, per imporsi a un mondo già rischiarato, secondo uno schema che vale come prototipo, si capovolge nella coscienza totalitaria. Lo scopo della prassi autentica dovrebbe essere il proprio annullamento.
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Marx ha ammonito, in una sua celebre lettera a Kugelmann, a prendere atto della minaccia costituita dalla ricaduta nella barbarie, che in quel tempo evidentemente rientrava già nel novero delle eventualità prevedibili. Nulla avrebbe potuto esprimere meglio di tale monito l’affinità elettiva che attrae l’uno all’altra di conservatorismo e rivoluzione. Quest’ultima apparve già a Marx come ultima ratio, allo scopo di impedire la catastrofe da lui pronosticata. Ma l’angoscia, che Marx doveva suscitare come non ultimo effetto del suo pensiero, appare oggi superata. La ricaduta ha avuto già modo di attuarsi. Aspettarsela per il futuro, dopo che sono accadute Auschwitz e Hiroshima, significherebbe abbandonarsi alla meschina consolazione derivante dal pensare che le cose possano andare ancora peggio di come già finora stanno andando. L’umanità, che pratica il male e pazientemente lo sopporta, ratifica in tal modo il peggio: purtroppo oggi ci si limita ad ascoltare le inutili chiacchiere sui pericoli della distensione. La prassi al più alto stadio della sua maturazione potrebbe soltanto coincidere con lo sforzo di trarsi fuori dalla barbarie. La quale, con l’accelerazione della storia a velocità ipersonica, ha prosperato tanto, che contagia tutto ciò che le si oppone. A molti suona plausibile la scusa che contro il totalitarismo barbarico potrebbero essere efficaci soltanto ancora mezzi barbarici. Frattanto tuttavia si è raggiunto un valore liminare. Ciò che cinquant’anni fa alla speranza troppo astratta e illusoria di una trasformazione totale poteva ancora giustamente sembrare una breve fase, il momento cioè della presa del potere, dopo l’esperienza dell’orrore nazionalsocialista e stalinista, e di fronte alla longevità della repressione totalitaria, si è inestricabilmente irretito in quel contesto di rapporti che dovrebbe invece essere trasformato. Se il concatenarsi del contesto di colpa della società, e con esso la prospettiva della catastrofe, è diventato veramente totale — e nulla permette di dubitarne –, allora ci si deve opporre al nulla, in quanto tale opposizione rifiuta quel contesto di accecamento, invece di parteciparvi nelle proprie forme. O l’umanità rinuncia alla legge dell’eguale contrapposto all’eguale cui s’attiene il potere, oppure la prassi politica che si presume radicale rinnova l’antico orrore. Ignominiosamente viene sancita ed elevata al vero la saggezza filistea piccolo borghese, secondo la quale fascismo e comunismo sarebbero la stessa cosa, ovvero la più recente, l’opposizione extra parlamentare, darebbe man forte al Partito nazionaldemocratico tedesco : il mondo borghese è più che mai diventato come i borghesi se lo raffigurano. Chi non attua la transizione al potere irrazionale e brutale, si vede spinto nelle vicinanze di quel riformismo, che dal canto suo è complice nel favorire la continuazione della cattiva tonalità. D’altra parte nessuna azione imponderata giova, e ciò che giova è ermeticamente chiuso. La dialettica viene corrotta e sofisticata, non appena si fissi pragmaticamente al passo più vicino, al di là del quale tuttavia si estende di molto la conoscenza della totalità.
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La falsità del primato della prassi, oggi praticato, si trasforma chiaramente nella priorità della tattica su ogni altra cosa. I mezzi si sono, all’estremo limite, resi autonomi. Servendo senza riflessione agli scopi, agli scopi si sono estraniati. Quindi si pretende ovunque la discussione, innanzitutto certamente per impulso antiautoritario. Senonché la tattica ha completamente annientato la discussione, come del resto la pubblicità ne ha completamente annientato la categoria nella sua versione assolutizzata borghese. Quel che potrebbe risultare dalle discussioni, delle decisioni cioè di obiettività superiore, dal momento che intenzioni e argomenti sono strettamente connessi tra loro e si compenetrano, non interessa coloro che vogliono la discussione automaticamente, anche in situazioni del tutto inadeguate. Le cricche di volta in volta dominanti hanno approntato a priori i risultati da loro voluti. La discussione serve alla manipolazione. Ogni argomento è già predisposto per lo scopo, né ci si cura della sua plausibilità. Ciò che dice l’oppositore non viene preso per vero; se mai, in tal modo si possono invece offrire delle formule standardizzate. Non si vogliono fare esperienze, ammesso che le si possa fare in generale. L’antagonista della discussione diventa funzione del piano di volta in volta corrispondente: reificato dalla coscienza reificata malgré lui méme. O lo si vuole muovere mediante la tecnica della discussione e la coazione della solidarietà verso qualcosa di praticamente utile, o lo si vuol discreditare davanti ai suoi seguaci; oppure questi parlano semplicemente per la gran massa, per amor della pubblicità di cui sono prigionieri: la pseudoattività può tenersi in vita unicamente mediante la continua réclame. Se l’interlocutore non cede, viene squalificato e incolpato proprio della mancanza di quella qualità, che sarebbe invece presupposta dalla discussione. Il concetto su cui si fonda la discussione viene in modo straordinario arrangiato e adattato a piegarsi così bene, che l’interlocutore si lascia per forza persuadere; questo però abbassa la discussione a mera farsa. Dietro la tecnica agisce un principio autoritario: il dissenziente deve accettare l’opinione del gruppo. Coloro che sono chiusi alla comunicazione proiettano la propria incapacità di comunicare su chi non vuol lasciarsi terrorizzare. Con tutto ciò l’azionismo si adegua, nel suo andamento generale, proprio a ciò contro cui presume o asserisce di opporsi: allo strumentalismo borghese cioè, che feticizza i mezzi, perché al tipo di prassi cui s’attiene la riflessione sugli scopi risulta insopportabile.
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La pseudo attività, la prassi, che tanto più si crede importante, e con tanto maggior solerzia si chiude ermeticamente alla teoria e alla conoscenza, quanto più perde il contatto con l’oggetto e il senso delle proporzioni, risulta essere il prodotto delle condizioni sociali obiettive, certamente adeguata alla situazione dell’huis clos. Il gesto apparentemente rivoluzionario è complementare a quell’impossibilità tecnico-militare della rivoluzione spontanea, su cui già richiamò l’attenzione anni fa Jürgen von Kempski. Rispetto a quelli che hanno potere decisionale sulla bomba atomica, le barricate sono ridicole; perciò le barricate sono solo una finzione ludica, e i padroni lasciano temporaneamente fare ai giocatori. Con le tecniche di guerriglia del Terzo Mondo si può assumere un diverso atteggiamento. Nulla nel mondo amministrato funziona senza fratture. Perciò nei paesi industriali avanzati si finisce con lo scegliere come modello i paesi sottosviluppati. I quali però sono tanto poco validi, quanto il culto della personalità dei capi miserabilmente e ignominiosamente assassinati. I modelli che nemmeno nella macchia boliviana si sono dimostrati validi, non sono trasferibili.
La pseudo attività è provocata dalla situazione delle forze produttive tecniche, che nel contempo la condanna all’illusione. Come la personalizzazione falsamente si consola pensando che nel meccanismo anonimo non esiste più dipendenza da alcun individuo, così la pseudo attività inganna sul depotenziamento di una prassi che presuppone il soggetto liberamente e autonomamente agente, il quale invece non esiste più. E, anche rilevante per l’attività politica la questione se ci sia stato proprio bisogno in generale, per la circumnavigazione della luna, degli astronauti, dato che essi non solo dovevano regolarsi secondo i loro pulsanti e congegni, ma dovevano anche ricevere per giunta ordini minuziosi dalle grandi centrali poste laggiù sulla terra. La fisiognomica e il carattere sociale in Colombo e in Borman sono totalmente differenti. In quanto è rispecchiamento del mondo amministrato, la pseudoattività lo reitera in se stessa. I maggiori esponenti della contestazione sono dei virtuosi dei regolamenti e delle procedure formali. Di preferenza sono proprio i nemici giurati delle istituzioni a esigere che si debba istituzionalizzare questa o quella cosa, e si tratta per lo più di desideri di associazioni casualmente costituite; ciò di cui si parla, deve risultare a ogni costo “vincolante”. Soggettivamente tutto questo viene provocato dal fenomeno antropologico del gadgeteering, dell’investimento affettivo della tecnica, che travalica ogni ragione, e si estende al di là di qualsiasi sfera della vita. Per colmo d’ironia — la civilizzazione è infatti piombata nel suo più profondo avvilimento — ha ragione Mc Luhan: the medium is the message, il mezzo di comunicazione è il messaggio. La sostituzione degli scopi con i mezzi rimpiazza le proprietà degli uomini stessi. “Interiorizzazione” sarebbe a questo proposito un termine falso, perché quel meccanismo dell’immobile soggettività non si può più costituire; la strumentalizzazione ne ha usurpato il posto. Nella pseudo attività, in tutto il corso della sua parabola fino alla rivoluzione apparente, la tendenza oggettiva della società si trova casualmente associata con la regressione soggettiva. Parodisticamente, ancora una volta la storia universale produce gli uomini di cui ha bisogno.
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La teoria oggettiva della società, intesa come un organismo autonomo nei confronti degli individui viventi, ha il primato sulla psicologia, la quale invece non arriva a ciò che è determinante. In verità va detto che da questa intuizione hegeliana in poi, risuonò spesso in siffatta ammissione una nota di rancore volta contro il singolo individuo e la sua, sia pure tanto parziale, libertà, soprattutto contro la pulsione istintiva. Tale rancore accompagnò come un’ombra il soggettivismo borghese, del quale in definitiva rappresentò la cattiva coscienza. L’ascesi nei riguardi della psicologia non può però durare anche oggettivamente. Da quando l’economia di mercato è dissestata e viene rappezzata da un ordinamento provvisorio fino al successivo, le sue leggi da sole non sono sufficienti alla chiarificazione. Seguendo una via diversa da quella che passa attraverso la psicologia, nella quale le coazioni oggettive si interiorizzano sempre di nuovo, non si riuscirebbe a comprendere né il fatto che gli uomini tollerano passivamente uno stato immutato di irrazionalità distruttiva, né il fatto che si inquadrano in movimenti la cui contraddizione con i loro interessi potrebbe essere facilmente intuita. Affine a tutto ciò è la funzione dei determinanti psicologici negli studenti. Nel suo rapporto col potere reale, che non si sente sollecitato, l’azionismo è irrazionale. I più saggi sono consapevoli del suo essere senza speranze, altri se l’occultano a stento. Dal momento che i maggiori gruppi di persone non si sono decisi per il martirio, si deve dunque tener conto dei moventi psicologici; d’altronde i motivi derivanti da interessi strettamente economici sono meno assenti di quanto vogliano far credere le chiacchiere sulla società del benessere: basta pensare al fatto che, ora come sempre, numerosi studenti vivono stentatamente ai limiti della fame. Invero l’erezione della realtà apparente è in definitiva carpita alle barriere dei divieti oggettivi; essa è mediata psicologicamente, la sospensione del pensiero è condizionata attraverso la dinamica istintuale. In ciò tuttavia risulta molto chiara, evidente addirittura, una contraddizione. Mentre i fautori dell’azione sono infatti estremamente interessati a se stessi, ai loro bisogni psichici, all’utile secondario di piacere derivante dall’occuparsi di sé libidicamente, il momento soggettivo, qualora venga alla luce nei loro antagonisti, suscita in essi maligno furore. In una simile reazione cui si lasciano andare i fautori della prassi si può individuare innanzitutto un prolungamento della tesi freudiana espressa in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, secondo la quale le varie forme di imago concernenti l’autorità hanno soggettivamente il carattere dell’insensibilità e dell’assenza di amore, della freddezza. Come l’autorità continua a sussistere negli antiautoritari, così essi ne adornano l’imago cui ricorrono, pulsionalmente investendola in senso negativo, con le tradizionali qualità del capo, diventando inquieti non appena alle loro immagini tendano a sostituirsene delle altre; per non parlare del fatto che gli antiautoritari peraltro desiderano segretamente le autorità. Coloro che contestano, dando con ciò prova di grandissima violenza, assomigliano, nella loro difesa dall’introspezione, ai caratteri autoritariamente vincolati; qualora si occupino di sé, ciò si verifica acriticamente, e le loro pulsioni, non vinte, s’indirizzano aggressivamente verso l’esterno. Essi sopravvalutano narcisisticamente la propria importanza, senza sufficiente senso delle proporzioni. Insediano immediatamente i loro bisogni, per esempio sotto la parola d’ordine “processo di apprendimento”, come criterio di misura della prassi; per la categoria dialettica dell’estraniazione rimane finora poco spazio. Essi reificano la propria psicologia, e si aspettano da quelli che si oppongono a loro una coscienza reificata. Propriamente interdicono come tabù l’esperienza, e diventano allergici, non appena qualcosa la rammenti loro. L’esperienza si livella di fronte a loro in ciò che essi chiamano “vantaggio dell’informazione”, senza osservare che i concetti da loro sfruttati di informazione e comunicazione sono importati dall’industria monopolistica della cultura e dalla scienza tarata su di essa. Obiettivamente essi contribuiscono alla trasformazione regressiva di ciò che eventualmente resta ancora del soggetto, nei punti di riferimento dei riflessi condizionati.
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Scientificamente la separazione di teoria e prassi non si è riflessa in termini di consapevolezza nell’epoca moderna, e più precisamente nella sociologia, per la quale essa dovrebbe essere tematica, mentre si è impressa in modo estremo nella teoria dell’avalutatività di Max Weber, improntandola di sé. Dopo quasi settant’anni, essa agisce ancora fin nella più recente sociologia positivistica. Ciò che è stato addotto contro di essa, ha esercitato scarsa influenza sulla scienza già costituita. La contrapposizione più o meno esplicita, non mediata, di un’etica materiale del valore cui, nella sua immediata evidenza, spetti di guidare la prassi, si screditò attraverso l’arbitrio restauratore. L’avalutatività di Weber era ancorata al suo concetto di razionalità. È dubbio quale delle due categorie, nella versione loro data da Weber, sostenga l’altra. Com’è noto, si definisce razionalità il nucleo fondamentale che impronta di sé l’intera opera di Weber. Questa è in lui dominante come razionalità rispetto allo scopo, e viene definita come relazione tra i mezzi adeguati agli scopi e gli scopi stessi. Ne deriva che questi ultimi si pongono per principio al di fuori della razionalità, essendo lasciati a un tipo di decisione, le cui oscure implicazioni, che Weber non voleva riconoscere, divennero manifeste poco dopo la sua morte. Tale esenzione dagli scopi cui si vota la ragione, che Weber invero limitò con delle clausole, e che tuttavia ha evidentemente costituito il tenore della sua metodologia e più che mai della sua strategia scientifica, è però non meno arbitraria del decreto derivante dai valori. La razionalità si può tanto poco scindere semplicemente dall’auto conservazione, quanto l’istanza soggettiva che la serve, l’Io; Weber, sociologo antipsicologico, ma soggettivamente orientato, non l’ha neppure provato. La ragione in generale si è formata come strumento dell’auto conservazione, come lo strumento della verifica della realtà. La sua universalità — che a Weber giunse a proposito, perché gli permise di staccarsi dalla psicologia — l’ha estesa al di là dei suoi portatori immediati, i singoli individui. Questo l’ha emancipata, da quando esiste, dall’accidentalità connessa al porsi individuale dello scopo. Il soggetto della ragione che conserva se stesso è, nella sua immanente, spirituale universalità, un universale reale, è la società, è, in senso pienamente conseguente, l’umanità. La sua conservazione è irresistibilmente insita nel significato della razionalità: la quale ha il suo scopo in una fondazione razionale della società, altrimenti sospenderebbe autoritariamente il proprio movimento. L’umanità è razionalmente fondata, unicamente allorché conservi i soggetti socializzati in conformità alla loro potenzialità non vincolata. Sarebbe invece illusoriamente irrazionale e questo esempio è più di un semplice esempio soltanto il fatto che l’adeguatezza dei mezzi di distribuzione allo scopo della distribuzione fosse necessariamente razionale, mentre invece lo scopo della pace e dell’eliminazione degli antagonismi, che ne impediscono la realizzazione proiettandola fino alle calende greche, dovesse per forza porsi come irrazionale.
Weber, megafono fedele della sua classe, ha capovolto il rapporto di razionalità e irrazionalità. Come per vendetta, in lui si ribalta dialetticamente, contro la sua intenzione, la serie scopomezzirazionalità. Lo sviluppo della burocrazia, della forma più pura di dominio razionale, profetizzato da Weber con manifesto orrore, nella società dell’incapsulamento è irrazionale. Parole come “incapsulamento”, “consolidamento”, “autonomizzazione dell’apparato” e i loro sinonimi, sono indizi del fatto che i mezzi in tal modo indicati diventano fine a se stessi, invece di soddisfare la loro serie consistente nella triade scopomezzirazionalità. Questo fatto tuttavia non è un fenomeno degenerativo, come piace pensare alla capacità di autocomprensione borghese. Weber riconobbe, in modo tanto penetrante quanto privo di conseguenze per la sua concezione, che l’irrazionalità, da lui descritta e non ammessa, segue dalla determinazione della ragione come mezzo, dal suo offuscamento rispetto agli scopi e alla coscienza critica di essi. La rinunciataria razionalità weberiana diventa irrazionale proprio perché, come Weber postula nella sua furiosa identificazione con l’aggressore, a causa dell’ascetismo cui essa s’attiene gli scopi restano irrazionali. Senza alcun appiglio che la vincoli alla determinatezza degli oggetti, la ragione sfugge a se stessa: il suo principio si trasforma in una cattiva infinità. Fu escogitata da Weber la disideologizzazione apparente della scienza in quanto ideologia, di contro all’analisi marxistica. Essa si smaschera però nell’indifferenza che mostra nei riguardi dell’aperta follia, non plausibile e in sé contraddittoria, che si manifesta intorno a lei. La ragione non può essere che auto conservazione, cioè ragione della specie, da cui dipende letteralmente la sopravvivenza di ogni individuo. Attraverso l’auto conservazione in verità essa acquisisce il potenziale di quell’auto coscienza, la quale potrebbe finalmente trascendere l’auto conservazione stessa, cui la ragione è stata ridotta mediante livellamento a causa della sua limitazione a mezzo.
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L’azionismo è regressivo. Nella tirannide di quella positività che ormai da molto tempo conta come l’apparecchio indicatore della debolezza dell’Io, esso si rifiuta infatti di riflettere sulla propria impotenza. Coloro che incessantemente gridano: “troppo astratto”, sono dediti al concretismo, a un’immediatezza alla quale gli strumenti teoretici attualmente disponibili sono superiori. Ciò torna a vantaggio della prassi apparente. Specialmente i furbi dicono che la teoria è repressiva all’incirca analogamente a come giudicano sull’arte; e l’attività in mezzo allo status quo non sarebbe nel loro stile. Ma l’agire immediato, che senz’altro ricorda il chiudersi sbattendo di una porta, è incomparabilmente molto più vicino alla repressione che non il pensiero, il quale così prende fiato. Il punto archimedico — come sia possibile una prassi non repressiva, come ci si possa condurre attraverso l’alternativa di spontaneità e organizzazione –, non si può scoprire, in generale, in altro modo che teoreticamente. Se il concetto continua a essere rigettato, allora diventano visibili tendenze come la solidarietà unilaterale degenerante nel terrore. S’impone direttamente la supremazia borghese dei mezzi sugli scopi, quello spirito che viene combattuto conformemente al programma. La riforma universitaria tecnocratica, che si vuole, forse anche in buona fede, impedire, non è soltanto il contrattacco alla contestazione. Quest’ultima la provoca da se stessa. La libertà d’insegnamento viene allora avvilita a servizio informazioni ai clienti, e deve subordinarsi a dei controlli.
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Degli argomenti di cui l’azionismo dispone, ce n’è uno in verità lontano dalla strategia politica di cui ci si vanta, e tuttavia in compenso di tanto maggiore forza di suggestione: secondo tale argomento sarebbe doveroso optare per il movimento di contestazione, proprio perché se ne conosce l’oggettiva condizione disperata; analogamente al modello costituito dall’atteggiamento di Marx durante la Comune di Parigi o anche dall’intervento del partito comunista nel crollo del regime anarcosocialista dei Soviet nel 1919 a Monaco. Proprio come quei modi di comportamento sono stati determinati dalla disperazione, così coloro che disperano dell’effettiva possibilità dell’agire senza speranza dovrebbero dargli il loro sostegno. La sconfitta ineluttabile impone come istanza morale la solidarietà anche a coloro che avevano previsto la catastrofe, e non si erano piegati al diktat della solidarietà unilaterale. Ma l’appello all’eroismo prolunga in verità quel diktat; chi, per aderire a ogni costo a simili cose, non ha permesso l’espulsione di ogni reattività al proprio sensorio, non avrà difficoltà a riconoscere in ciò il tono vuoto. Nella sicura America abbiamo potuto sopportare, da fuorusciti, le notizie da Auschwitz; così non sarà facile credere a uno qualunque, che dice che la guerra del Vietnam gli toglie il sonno; in particolare ogni oppositore della guerra coloniale sarebbe tenuto a sapere che i Vietcong, dal canto loro, torturano al modo cinese. Chi presume di essere, in quanto prodotto di questa società, esente dalla freddezza borghese, nutre delle illusioni sul mondo come su se stesso; senza quella freddezza nessuno più potrebbe vivere. La capacità di identificazione con le sofferenze altrui è, senza eccezione in tutti noi, limitata. Il fatto che semplicemente non si è più potuto tollerare queste sofferenze, e che nessun individuo di buona volontà dovrebbe tollerarle più a lungo, razionalizza la coazione della coscienza. Fu possibile e ammirevole quell’atteggiamento al limite dell’estremo orrore, quale lo esperirono i congiurati del 20 luglio, che preferirono rischiare una fine straziante piuttosto che rimanere nell’inazione.
Rivendicando a distanza siffatti atteggiamenti estremi, ci si sente come colui che confonde la forza della rappresentazione con la potenza della presenza diretta. La pura autodifesa impedisce che emerga nell’individuo non presente a certe situazioni la capacità di immaginare il peggio. Meno che mai un tale individuo risulta in grado di cogliere con l’immaginazione le azioni che espongono lui stesso al peggio. Si devono riconoscere nel soggetto conoscente i limiti, a lui obiettivamente imposti, di una identificazione che cozza contro la sua esigenza di auto conservazione e di felicità; non ci si deve atteggiare nei suoi riguardi come se egli fosse già un individuo di quella specie che forse potrebbe realizzarsi soltanto nello stato di libertà, dunque in una situazione priva di angoscia. Del mondo così com’è, addirittura non si riesce ad avere abbastanza paura. Se uno vuol sacrificare non solo il proprio intelletto, ma anche se stesso, allora nessuno può impedirglielo, sebbene si tratti di un martirio obiettivamente falso. Il fare del sacrificio un imperativo morale appartiene al repertorio fascista. La solidarietà con una cosa di cui s’intuisce l’inevitabile fallimento, può sbarazzare da una ricercata coscienza narcisistica; in sé però essa è tanto illusoria quanto la prassi da cui ci si aspetta pigramente un’approvazione, che tuttavia viene smentita presumibilmente nell’istante successivo, perché nessun sacrificio dell’intelletto è mai bastato alle insaziabili esigenze della stupidità. Brecht, che, in rapporto con la situazione di allora, aveva a che fare ancora con la politica, e non col suo surrogato, disse una volta che, secondo le sue idee, se doveva essere del tutto sincero con se stesso, in fondo lo interessava di più il teatro che la trasformazione del mondo. Una simile coscienza potrebbe essere il migliore correttivo di un teatro che oggi si confonde con la realtà, cosicché gli happenings che i fautori dell’azione talvolta mettono in scena, guarniscono di frange illusione estetica e realtà. Per chiunque non volesse essere da meno della spontanea e ardita dichiarazione di Brecht, la maggior parte della prassi risulta oggi sospetta come mancanza di talento.
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Il praticismo attuale si fonda su un momento che l’orrendo linguaggio della sociologia della conoscenza ha battezzato “sospetto di ideologia”, come se l’impulso determinante che spinge alla critica delle ideologie non fosse quindi l’esperienza della loro falsità, bensì il disprezzo filisteisticoborghese di ogni spirito a causa del suo presunto essere condizionato da interessi, che lo scettico interessato proietta sullo spirito. Ma la prassi occulta in una cortina di nebbia, grazie all’oppiacea infatuazione della collettività, la propria impossibilità attuale, diventando pertanto, dal canto suo, ideologia. C’è un segno infallibile ad hoc: l’imporsi ultimativo, a scatto automatico, della questione del “che fare?”, che risponde a ogni pensiero critico prima ancora che esso sia solo enunciato, e meno che mai attuato. In nessun altro caso l’oscurantismo che impregna di sé il più recente atteggiamento di ostilità per la teoria risulta con forza così evidente. Esso rammenta il gesto del chiedere il passaporto. Non esplicito, e tuttavia tanto più potente, è il comando: tu devi approvare. Al singolo s’impone di abbandonarsi senza resistenza, di cedere se medesimo alla collettività; in compenso del fatto che egli salta nel crogiuolo, gli viene promessa la predestinazione, che si vuole faccia tutt’uno con l’appartenenza. I deboli, gli impauriti, si sentono forti se, correndo, si tengono per mano. Qui è situato l’effettivo punto di inversione che conduce all’irrazionalismo. Con cento sofismi viene difesa, con cento strumenti di pressione morale viene inculcata negli adepti, la falsa norma che pretende che attraverso la rinunzia alla propria ragione e al proprio giudizio si possa diventare superiori, e precisamente partecipi della ragione collettiva, mentre invece, per riconoscere la verità, ci sarebbe bisogno di quella ragione assolutamente individuata, di cui ci si vuole sbarazzare inculcando nella mente degli individui l’idea secondo la quale essa sarebbe superata, e ciò che essa ha eventualmente da comunicare sarebbe stato senza incertezze confutato e liquidato da un pezzo dalla superiore sapienza dei compagni. Tale norma viene proiettata su quell’atteggiamento disciplinare che una volta fu praticato dai comunisti. Come in una commedia, si reitera attraverso i rivoluzionari apparenti, in conformità con un detto di Marx, che a suo tempo fu serissimo e pregno di conseguenze terribili, quando la situazione sembrava ancora aperta. Invece che in argomenti, ci s’imbatte in parole d’ordine standardizzate, che sono evidentemente messe in circolazione dai capi e dai loro seguaci.
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La teoria e la prassi non sono né immediatamente la stessa cosa, né assolutamente differenti; il loro rapporto, di conseguenza, è un rapporto di discontinuità. Nessun percorso continuo conduce dalla prassi alla teoria come invece intende proprio ciò che si presenta come il momento spontaneo. La teoria però appartiene al contesto della società, ed è al contempo autonoma. Ciononostante la prassi non ha un decorso indipendente dalla teoria, e questa non è indipendente da quella. Se la prassi fosse il criterio della teoria, essa si trasformerebbe, a vantaggio del thema probandum, nell’imbroglio stigmatizzato da Marx, e non potrebbe perciò raggiungere ciò che vuole; se la prassi si orientasse semplicemente secondo le direttive della teoria, allora si irrigidirebbe dottrinariamente, e per di più falsificherebbe la teoria. Ciò che Robespierre e SaintJust fecero con la volonté générale rousseauiana, dalla quale non era assente in verità il carattere repressivo, è la più famosa, ma per nulla l’unica prova giustificativa ad hoc. Il dogma dell’unità di teoria e prassi è, al contrario della teoria a cui si riferisce, non dialettico: esso carpisce l’identità semplice, laddove soltanto la contraddizione ha probabilità di diventare feconda. Mentre la teoria non può essere separata dal processo sociale globale, ha però in esso anche la sua autonomia; la teoria è non solo strumento della totalità, ma anche momento di essa; altrimenti non potrebbe resistere in qualche modo alla tirannide del tutto. Il rapporto di teoria e prassi, una volta che esse si siano allontanate l’una dall’altra, è il capovolgimento qualitativo, non la transizione, e men che mai la subordinazione. Teoria e prassi stanno polarmente l’una rispetto all’altra. Potrebbe ancora avere molte speranze di realizzarsi quella teoria che non venisse pensata come direttiva per la sua realizzazione, analogamente per esempio a ciò che accadde nella scienza naturale tra la teoria atomica e la fissione nucleare; l’elemento comune, il controriferimento alla prassi possibile, si trovava nella ragione in sé, tecnologicamente orientata, non nel pensiero della sua utilizzazione. La teoria marxiana dell’unità ebbe valore proprio al di fuori del presentimento che esige si faccia in un modo o nell’altro perché altrimenti potrebbe diventare troppo tardi; al di fuori cioè dell’“ora o mai più”. Fin qui essa era certamente pratica; ma mancano a quella teoria così come propriamente essa è stata portata a realizzazione, alla critica dell’economia politica, cioè, tutti i passaggi concreti a quella prassi che, secondo l’undicesima tesi di Feuerbach, dovrebbe essere la sua raison d’etre. Il timore che Marx aveva delle ricette teoriche per la prassi non era minore di quello di descrivere positivamente una società senza classi. Il Capitale contiene innumerevoli invettive, per lo più d’altronde contro gli economisti politici e i filosofi, ma nessun programma d’azione; ogni oratore dell’ApO che abbia imparato il suo vocabolario, dovrebbe in astratto biasimare il libro. Nella teoria del plusvalore si sono potute trovare delle direttive su come si deve fare la rivoluzione; ma l’antifilosofico Marx, per quanto riguarda la prassi in generale non però nelle questioni politiche particolari non andò al di là del filosofema secondo cui l’emancipazione del proletariato può essere soltanto compito del proletariato stesso; e in quel tempo il proletariato era ancora visibile. In questi ultimi decenni gli Studien uber Autoritiìt und Familie, la Personalità autoritaria, anche la teoria del dominio per molti aspetti eterodossa della Dialettica dell’Illuminismo, sono stati scritti senza finalità pratiche, eppure certamente hanno esercitato qualche effetto pratico. Ciò che ne è derivato, ha avuto origine non da ultimo dal fatto che in un mondo in cui anche i pensieri sono diventati merci, e provocano sale’s resistance, non poteva venire in mente a nessuno, durante la lettura di questi volumi, che qualcosa gli fosse stato venduto di soppiatto e appioppato con la forza. Se io in senso stretto, nell’accezione immediata del termine, ho esercitato un effetto pratico visibile, questo è accaduto solo attraverso la teoria: nella mia polemica cioè contro il movimento musicale giovanilistico e i suoi seguaci, nella mia critica al gergo neotedesco dell’autenticità, che ha guastato il piacere a un’ideologia molto virulenta, poiché essa fu investita dalla critica, sollevata e ricondotta al proprio concetto. Se quelle ideologie sono effettivamente falsa coscienza, la loro liquidazione, che si è ampiamente diffusa nel medium del pensiero, inaugura un certo movimento verso la maggior età e l’emancipazione; tale movimento è appunto pratico. Il gioco di parole marxiano sulla “critica critica”, l’arguzia poco spiritosamente pleonastica, dilungata, che presume che la teoria si annulli solo perché è teoria, è soltanto un occultamento dell’insicurezza nella trasformazione diretta della teoria in prassi. Perché a quest’ultima Marx non si è in alcun modo rimesso, neppure in seguito, nonostante l’Internazionale, con la quale, del resto, venne a contrasto. La prassi è la fonte di forza della teoria, ma non viene consigliata da essa. Nella teoria la prassi si manifesta esclusivamente, e di necessità, come punto oscuro, come presa di possesso di ciò che è criticato; nessuna teoria critica che non abbia sopravvalutato l’individuale può trovare attuazione piena nell’individuale; ma senza l’individuale, essa si ridurrebbe a nulla. Il fatto che a ciò, tuttavia, si aggiunga l’elemento illusorio, mette in guardia dai trapassi in cui esso è irresistibilmente destinato ad aumentare.
Titolo originale: Objekt, Marginalien zu Theorie und Praxis.