Theodor Adorno, parola chiave: Tempo libero

Mario Mancini
16 min readMar 24, 2020

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Vai all‘indice del libro di T. Adorno “Parole chiave”

George Bellows, Tennis at Newport, 1920, McGlothlin Collection, Virginia Museum of Fine Arts, Richmond, USA

Il problema del tempo libero: cosa se ne fanno gli uomini, quali chances eventualmente offre il suo sviluppo, non è da porsi in modo astrattamente universale. Il termine, del resto di origine piuttosto recente prima si diceva “ozio”, e si indicava in tal modo un privilegio della vita priva di ristrettezze e disagi, quindi, anche per quanto riguarda il contenuto, qualcosa di qualitativamente diverso, una pienezza di felicità, rimanda a una differenza specifica, quella dal tempo non libero, dal tempo occupato dal lavoro, e più precisamente, possiamo aggiungere, dal tempo etero-determinato. Il tempo libero è incatenato al suo contrario. Questo dissidio, costituito dal rapporto antitetico in cui il tempo libero si trova con quello non libero, gli imprime tratti di importanza essenziale. Inoltre, molto più in linea di principio, il tempo libero dipenderà dalla situazione sociale globale, la quale però, ora come sempre, tiene gli uomini sotto il suo tirannico potere. Né nel loro lavoro, né nella loro coscienza, essi dispongono infatti in modo realmente libero di se stessi: persino quelle sociologie concilianti che adoperano il concetto di ruolo come chiave, lo riconoscono, in quanto il concetto di ruolo, preso a prestito dal teatro, indica che l’esistenza imposta agli uomini dalla società non è identica a quel che essi sono in sé, o a quel che potrebbero essere. A dire il vero non sarà possibile fare alcuna drastica discriminazione tra gli uomini in sé e i loro cosiddetti ruoli sociali. Questi ultimi si addentrano infatti profondamente nelle proprietà degli uomini stessi, nella loro conformazione interiore, improntandola di sé. In un’epoca come la nostra, caratterizzata da un’integrazione sociale veramente senza pari, riesce difficile scoprire, in generale, che cosa negli uomini potrebbe essere determinato altrimenti che in modo funzionale. Questo fatto ha molta importanza per la questione del tempo libero. Esso significa appunto che, anche quando il potere tirannico della società costituita si allenta, e gli uomini almeno soggettivamente sono convinti di agire secondo la loro volontà, questa volontà è modellata proprio da ciò di cui essi vogliono sbarazzarsi nelle ore senza lavoro. La questione che potrebbe oggi essere adeguata al fenomeno del tempo libero, sarebbe dunque, a mio avviso, questa: che cosa si fa del tempo libero nell’ambito della situazione di crescente produttività del lavoro, ma nel perdurare di condizioni di non libertà, dunque nel contesto dei rapporti di produzione in cui gli uomini sono nati, e che prescrivono loro, oggi come in passato, le regole della loro esistenza. Già fin d’ora il tempo libero è enormemente aumentato; grazie alle invenzioni non ancora completamente sfruttate dal punto di vista economico che sono state fatte nei settori dell’energia atomica e dell’automazione, esso dovrebbe aumentare a dismisura. Se si volesse cercare di rispondere al problema enunciato poco fa senza fare affermazioni ideologiche, sorgerebbe inevitabilmente il sospetto che il tempo libero tenda all’opposto del suo concetto, ne diventi cioè la parodia. Nel tempo libero si prolunga la non libertà, ma questo fatto rimane ignoto alla maggior parte degli uomini non liberi quanto la loro stessa non libertà.

Per spiegare il problema, potrei avvalermi di una mia futile esperienza personale. Nelle interviste e nelle inchieste ci viene sempre chiesto, ogni volta, che hobby abbiamo. Se le riviste illustrate fanno un servizio su qualcuna di quelle celebrità dell’industria culturale, il parlare delle quali è di nuovo un’occupazione essenziale dell’industria culturale, raramente si lasciano sfuggire l’occasione di raccontare qualcosa di più o meno intimo sugli hobby delle persone in questione. Io mi spavento se capita che quella domanda sia posta anche a me. Non ho nessun hobby. Non che io sia un animale da lavoro, che non saprebbe fare di sé null’altro che affaticarsi, limitandosi a fare ciò che è prescritto per forza che si debba fare. Ma ciò a cui mi dedico al di fuori della mia professione ufficiale, è per me, senza eccezione, così serio, che l’idea che si possa trattare di hobby, dunque di occupazioni di cui io vada assurdamente pazzo, soltanto allo scopo di ammazzare il tempo, mi procurerebbe uno stato di choc se la mia esperienza non mi avesse reso resistente a quelle manifestazioni di barbarie che ormai sono diventate ovvietà. Comporre musica, ascoltarne, leggere con concentrazione, sono dei momenti costitutivi della mia esistenza: il termine “hobby” applicato a essi avrebbe per me il sapore di una beffa. Al contrario, il mio lavoro — la produzione filosofica e sociologica e l’insegnamento all’università — è stato finora per me così pieno di soddisfazioni, che non potrei ricondurlo a quell’antitesi col tempo libero, che la drastica classificazione corrente esige dagli uomini. Certo sono consapevole di parlare da privilegiato, con quel tanto di casualità e di colpevolezza che è insito in tale condizione; come uno, cioè, che ha avuto una chance non comune: quella di aver potuto scegliere e organizzare il suo lavoro essenzialmente secondo le proprie intenzioni. Non da ultimo per questo motivo, ciò che io faccio al di fuori del circoscritto tempo di lavoro non è a priori in rigido contrasto con esso. Se il tempo libero potesse finalmente diventare effettivamente la situazione in cui ciò che un tempo era privilegio tornasse a vantaggio di tutti — e qualcosa di simile riuscì a suo tempo alla società borghese nei confronti di quella feudale –, me lo rappresenterei secondo il modello di ciò che ho osservato di me stesso, sebbene questo modello, dal canto suo, si sia modificato in seguito al mutare delle circostanze.

Se si suppone valida la tesi di Marx, secondo la quale nella società borghese la forza lavoro è diventata merce, e perciò il lavoro è reificato, l’espressione “hobby” sfocia nel paradosso per il quale la situazione che si intende come il contrario della reificazione, come riserva di vita immediata, spontanea e non condizionata in un sistema globale completamente mediato, risulta aver subito a sua volta un processo di reificazione al pari del rigido confine che divide l’uno dall’altro lavoro e tempo libero. In quest’ultimo continuano le forme del vivere sociale orientato secondo il sistema del profitto.

Già nell’espressione “affare del tempo libero” l’ironia è tanto radicalmente dimenticata, quanto si prende sul serio lo show business. È a tutti noto, ma non è perciò men vero, che fenomeni peculiari del tempo libero come il turismo e il camping vengono suscitati e organizzati in vista del profitto. Nello stesso tempo è stata impressa come norma, nella coscienza e nell’inconscio degli uomini, la distinzione tra lavoro e tempo libero. Dal momento che, in conformità alla morale dominante che prescrive il lavoro, il tempo libero dal lavoro deve ripristinare la forza lavoro, il tempo esente dal lavoro, appunto perché è mera appendice di quest’ultimo, viene separato da esso con zelo puritano. Ci si imbatte qui in uno schema di comportamento tipico del carattere borghese. Da un lato ci si deve concentrare nel lavoro, non ci si deve dispersivamente distrarre, non si devono fare cose estranee al lavoro; su questa base si fondò un tempo il lavoro salariato, e i suoi imperativi si sono interiorizzati. D’altra parte il tempo libero non deve rammentare in nulla il lavoro, presumibilmente affinché si possa poi lavorare tanto meglio. Questa è la ragione fondamentale della deficienza di senso che caratterizza molte occupazioni del tempo libero. Sotto banco vengono contrabbandate, in realtà, forme di comportamento derivanti dal lavoro, il quale dunque non lascia affatto in libertà gli uomini. Sulla pagella del bambino si era soliti mettere tempo fa dei voti per l’attenzione. A ciò corrispondeva la preoccupazione — soggettivamente forse persino ben intenzionata — degli adulti, che i bambini non si affaticassero troppo nel tempo libero: non dovevano leggere troppo, non dovevano lasciar accesa per troppo tempo la luce di sera. Segretamente i genitori fiutano dietro a tali comportamenti una ribellione dello spirito, o anche un’insistenza sul momento del piacere, che non va d’accordo con l’inquadramento razionale dell’esistenza. In generale, comunque, ciò che è misto, non univocamente e nettamente distinto, risulta sospetto allo spirito dominante. La rigida bipartizione della vita non fa che esaltare quella reificazione, che frattanto si è assoggettata quasi completamente il tempo libero. Ci si può spiegare tale situazione semplicemente con l’ideologia dell’hobby. Nell’ovvietà del domandare quale hobby abbiamo, riecheggia il fatto che se ne deve avere uno; e fors’anche già una scelta tra gli hobby, in accordo con l’offerta dell’affare commerciale del tempo libero. La libertà organizzata è coatta: guai se non hai un hobby, una occupazione per il tempo libero; sei allora un ambizioso arrivista, o un uomo antiquato, un esemplare unico, e cadi in preda al ridicolo, in questa società che impone che cosa dev’essere il tuo tempo libero. Tale coartazione non viene affatto attuata soltanto dall’esterno. Essa si connette ai bisogni degli uomini nell’ambito del sistema funzionale. Il camping — al vecchio movimento giovanile piaceva molto campeggiare — era un atto di protesta contro la noia incombente sulle convenzioni borghesi. Si voleva evadere in un duplice senso. Il pernottare sotto il cielo libero garantiva che si era sfuggiti alla casa, cioè alla famiglia. Questo bisogno è poi stato afferrato e istituzionalizzato, dopo la morte del movimento giovanile, dall’industria del camping. Se essa non potesse costringere gli uomini ad acquistare da lei tende e roulottes insieme con innumerevoli utensili ausiliari, non avrebbe alcun desiderio particolare che gli uomini praticassero il camping; invece il loro peculiare bisogno di libertà viene funzionalizzato, riprodotto, ampliato dalle imprese commerciali; ciò che essi vogliono, ancora una volta si impone loro di acquistarlo. Per questo l’integrazione del tempo libero riesce senza attrito. Gli uomini non si accorgono di quanto siano schiavi proprio là dove si sentono in sommo grado liberi, perché la regola di tale non libertà è stata astratta da loro.

Se il concetto di tempo libero, a differenza di quello di lavoro, viene inteso con tale precisione da farlo corrispondere per lo meno a una vecchia, e oggi forse già superata, ideologia, allora il tempo libero postula qualcosa di nullo; Hegel avrebbe detto: di astratto. In tal senso può essere considerato un prototipo il comportamento di coloro che si arrostiscono al sole soltanto per l’abbronzatura, sebbene la situazione del sonnecchiare sotto il sole cocente non sia affatto piacevole, se mai fisicamente spiacevole, e renda certamente gli uomini spiritualmente inattivi. Il carattere di feticcio della merce cattura nell’abbronzatura della pelle, che del resto può essere anche molto bella, gli uomini stessi; essi si trasformano in feticci. L’idea che una ragazza, grazie alla sua pelle abbronzata, sia particolarmente attraente dal punto di vista erotico, è probabilmente ancora soltanto una razionalizzazione. L’abbronzatura è diventata fine a se stessa, più importante del flirt per cui forse essa doveva un tempo servire da arma di seduzione. Se gli impiegati ritornano dalle ferie senza essersi presa l’abbronzatura d’obbligo, possono star sicuri che i colleghi chiederanno loro, con spirito mordace: “Non è andato in ferie?” Il feticismo, che prospera nel tempo libero, è così ulteriormente soggetto al controllo sociale. Il fatto che l’industria dei cosmetici con la sua pubblicità travolgente e irresistibile contribuisca per quanto le spetta a creare tale situazione, è altrettanto ovvio del fatto che gli uomini, compiacenti, ne attuino la rimozione.

Nella situazione dell’abbronzatura trova il suo culmine un fattore determinante del tempo libero, nelle condizioni attualmente dominanti: la noia. Non ha dunque limite nemmeno il perfido sarcasmo sui miracoli che gli uomini si ripromettono dai viaggi delle vacanze e da altre situazioni eccezionali del tempo libero, mentre invece essi, anche in tali casi, non riescono di fatto a evadere dall’ambito del sempre uguale; non si va molto più lontano di quanto, in un modo diverso, accadde anche per l’ennui di Baudelaire. Lo scherno sulle vittime è normalmente associato ai meccanismi che le rendono tali. Schopenhauer ha formulato per primo una teoria della noia. In conformità al suo pessimismo metafisico, egli insegna che o gli uomini soffrono per il desiderio insoddisfatto provocato dalla loro volontà cieca, o si annoiano non appena esso è acquietato. La sua teoria descrive molto bene che cosa si faccia del tempo libero degli uomini in quelle condizioni che Kant avrebbe chiamato di eteronomia, e che nella lingua neo-tedesca si è soliti denominare eterodeterminazione [Fremdbestimmtheit]; anche l’altezzosa definizione di Schopenhauer degli uomini come articoli di fabbrica della natura, coglie, nel suo cinismo, qualcosa di ciò in cui la totalità del carattere di merce trasforma effettivamente gli uomini. Tale cinismo dettato dall’ira torna a onore degli uomini, in ogni caso di più delle solenni affermazioni stando alle quali essi recherebbero in sé un nocciolo imperituro, indelebile. Ciononostante la dottrina di Schopenhauer non dev’essere ipostatizzata, né considerata come valida tout court, magari come determinazione originaria del genere uomo. La noia è funzione del vivere nelle condizioni contraddistinte dalla coazione al lavoro e dalla rigorosa divisione del lavoro. Essa non dovrebbe esistere. Qualora infatti il comportamento cui ci si attiene nel tempo libero sia veramente autonomo, determinato da uomini liberi per se stessi, difficilmente si fa sentire la noia; sia nel caso che essi seguano senza negarlo il loro desiderio di felicità, sia nell’evenienza che la loro attività nel tempo libero risulti autenticamente razionale, si definisca cioè come qualcosa che in sé si rivela fornito di senso. Anche il dire sciocchezze, non è necessariamente identico all’ottusità: può essere beatamente goduto come esonero dagli auto controlli. Se gli uomini potessero decidere di sé e della loro vita, se non fossero irretiti nel sempre uguale, non dovrebbero annoiarsi. La noia è il rispecchiamento del grigiore oggettivo. Essa è analoga all’apatia politica. Il suo fondamento più plausibile è la sensazione, per nulla ingiustificata, delle masse, che esse possano cambiare ben poco la loro condizione attraverso quella partecipazione alla politica, per la quale la società così come di fatto è venuta determinandosi, qual è cioè in tutti i sistemi esistenti oggi sulla terra, concede loro spazio di gioco. Il nesso tra la politica e i loro interessi particolari non risulta loro trasparente; perciò indietreggiano davanti all’attività politica. È strettamente inerente alla noia il senso, giustificato o neurotico, di impotenza: la noia è disperazione oggettiva. Ma è nel contempo anche l’espressione delle deformazioni, che le condizioni sociali globali permettono che si verifichino negli uomini. Di esse, la più importante è certamente la diffamazione della fantasia, nonché la sua atrofizzazione. La fantasia viene sospettata altrettanto come curiosità sessuale e desiderio del proibito, quanto di essere l’anima di un sapere che non è più spirito. Chi vuole adattarsi, deve rinunciare in misura sempre crescente alla fantasia. Il più delle volte non riesce nemmeno a svilupparla, mutilata com’è dell’esperienza della prima infanzia. La mancanza di fantasia, che è socialmente radicata e si esprime sotto forma di drastico imperativo, nel loro tempo libero rende gli uomini inermi. L’insolente questione di che cosa dunque il popolo debba farsene del molto tempo libero che ora ha — come se il tempo libero fosse un’elemosina e non un diritto umano –, è fondata su tale situazione coatta. Che effettivamente gli uomini non sappiano come utilizzare il loro tempo libero, dipende dal fatto che è già tolto loro a priori ciò che potrebbe rendere loro piacevole la condizione stessa del tempo libero. Per tanto tempo essa è stata loro rifiutata e denigrata, che gli uomini non la desiderano nemmeno più. Hanno bisogno dello svago, a causa della cui superficialità vengono trattati con degnazione o addirittura ingiuriati dal conservatorismo culturale, allo scopo di introdurre nel tempo lavorativo quella tensione che l’organizzazione della società difesa dal conservatorismo culturale esige da loro. Non da ultimo per questo motivo sono incatenati al loro lavoro e al sistema che li addestra al lavoro, dato che in ampia misura dovrebbe esserci ormai meno bisogno di quest’ultimo.

Nelle condizioni attualmente dominanti sarebbe erroneo e assurdo aspettarsi o pretendere dagli uomini che attuassero nel loro tempo libero qualcosa di produttivo; perché proprio alla produttività, alla capacità di creare ciò che non sia già esistente, essi vengono disabituati. Ciò che essi allora eventualmente producono nel tempo libero, non è nulla di meglio dell’infausto hobby consistente nell’imitazione di poesie o quadri, che, nell’ambito della condizione difficilmente revocabile della divisione del lavoro, altri sono in grado di riprodurre molto meglio dei dilettanti del tempo libero. Quel che essi producono, ha un po’ del superfluo. Tale superfluità si comunica alla minore qualità del prodotto, la quale di nuovo ne guasta il piacere.

Anche l’attività superflua e priva di senso del tempo libero è socialmente integrata. Di nuovo entra in gioco un bisogno sociale. Certe forme di prestazioni di servizi, specialmente quelle dei domestici, si vanno estinguendo, poiché la domanda è sproporzionata all’offerta. In America le donne di servizio possono ritenersi persone veramente agiate, e presto sarà così anche in Europa. Questo induce molte persone a esercitare attività subalterne, che prima venivano delegate. A tale stato di fatto si ricollega la parola d’ordine: do it yourself, fatelo da voi, come consiglio pratico; in verità essa si ricollega anche al senso di sazietà che gli uomini provano per una meccanizzazione che li sgrava dal lavoro materiale, senza che essi e non è questo fatto che è da contestare, ma solo la sua interpretazione corrente sappiano che farsene del tempo guadagnato. Perciò li si incita, ancora una volta nell’interesse delle industrie specializzate, a fare da sé ciò che altri al posto loro potrebbero fare meglio e in modo più semplice, e che essi, a loro volta, appunto perché ne sono in fondo consapevoli, devono disprezzare profondamente. Del resto appartiene a uno strato molto antico della coscienza borghese l’opinione che si possa risparmiare il denaro che, nella società fondata sulla divisione del lavoro, si spende per le prestazioni di servizi opinione derivante dall’ostinato interesse particolare, il quale ciecamente non vuol riconoscere che l’intero meccanismo si tiene in vita soltanto tramite il baratto di abilità specializzate. Guglielmo Tell, l’esecrabile archetipo di una personalità rigidamente rozza, proclama che l’ascia in casa fa risparmiare il carpentiere; allo stesso modo, inoltre, si potrebbe fissare, ricorrendo alle massime di Schiller, una completa ontologia della coscienza borghese.

Il do it yourself, un tipo di comportamento del tempo libero conforme allo spirito di questi tempi, rientra tuttavia in un contesto relazionale molto più comprensivo. L’ho già designato più di trent’anni fa come pseudo attività. Da allora la pseudo attività si è diffusa spaventosamente, anche e precisamente tra coloro che si sentono i contestatori della società. In generale si deve supporre nella pseudo attività un bisogno di mutamento dei rapporti pietrificati, bloccato in senso regressivo. La pseudo attività è spontaneità deviata. Deviata però non casualmente, ma perché gli uomini hanno il tetro e ottuso presentimento di quanto difficilmente potrebbero cambiare ciò che li opprime. Preferiscono lasciarsi andare alla deriva in attività apparenti, illusorie, in soddisfazioni compensatorie istituzionalizzate, piuttosto che prendere coscienza del perché oggi quella possibilità di mutamento risulti bloccata. La pseudo attività consiste in finzioni e parodie che rimandano a quella produttività che la società da un lato favorisce, ma dall’altro incatena, non desiderando affatto che essa si attui nei singoli individui. Il tempo libero produttivo potrebbe essere possibile solo per gli individui “maggiorenni”, mentalmente emancipati, non per quelli che, in condizioni di eteronomia, sono diventati eteronomi anche nei riguardi di se stessi.

Il tempo libero tuttavia non è soltanto antitetico al lavoro. In un sistema in cui la piena occupazione in sé è assurta a ideale, il tempo libero è l’immediata prosecuzione, simile a ombra, del lavoro. Ancora non esiste una penetrante sociologia dello sport, e in particolare degli spettatori sportivi. Comunque appare evidente, tra le altre, l’ipotesi che attraverso gli sforzi che lo sport esige, attraverso la funzionalizzazione del corpo nella squadra, che si effettua appunto nei tipi di sport che incontrano le maggiori preferenze, gli uomini si addestrino senza saperlo a quei modi di comportamento che, più o meno sublimati, ci si aspetta da loro nel processo lavorativo. La vecchia motivazione che si pratica lo sport per mantenersi in forma, è falsa appunto perché spaccia l’essere in forma per uno scopo autonomo; invece uno degli scopi segreti dello sport è proprio quello di mantenere in forma per il lavoro. Spesso nello sport si finisce coll’irretirsi sempre più in una situazione di coercizione, e col prendere poi come trionfo della propria libertà il male che ci si deve invece infliggere da sé, ignominiosamente infierendo nei propri confronti, sotto la pressione sociale.

Mi si lasci dire ancora una parola sul rapporto tra tempo libero e industria culturale. Su quest’ultima come strumento di dominio e di integrazione, da quando Horkheimer e io ne introducemmo il concetto più di vent’anni fa, è stato scritto tanto, che vorrei scegliere un problema particolare che allora non ci fu possibile ignorare. Il critico dell’ideologia che si occupi dell’industria culturale, prendendo le mosse dal fatto che gli standard dell’industria culturale sono quelli congelati del vecchio trattenimento ameno e dell’arte di infimo ordine, propenderà per l’opinione che l’industria culturale domina e controlla effettivamente e completamente la coscienza e l’inconscio di coloro a cui essa si indirizza, e dal cui gusto originario dell’epoca liberale essa deriva. C’è comunque motivo di credere che la produzione regoli il consumo tanto nell’ambito del processo vitale materiale, quanto nell’ambito di quello spirituale, soprattutto laddove essa si è tanto avvicinata a quello materiale come nel caso dell’industria culturale. Si potrebbe dunque pensare che l’industria culturale e i suoi consumatori siano reciprocamente adeguati. Poiché però nel frattempo l’industria culturale è diventata totalitaria, fenomeno del sempre uguale, da cui essa si ripromette di distrarre temporaneamente gli uomini, è dubbio se l’equazione di industria culturale e coscienza dei consumatori sia esatta. Un paio d’anni fa abbiamo fatto, all’Institut für Sozialforschung di Francoforte, uno studio dedicato a questo problema. Purtroppo la valorizzazione del materiale fu necessariamente inferiore all’urgenza dei problemi. Un suo esame non impegnativo permette comunque di individuare qualche motivo che può essere rilevante per il cosiddetto “problema del tempo libero”. Lo studio si collegava alle nozze della principessa Beatrice d’Olanda col giovane diplomatico tedesco Claus von Amsberg. Si doveva accertare come la popolazione tedesca reagisse a quelle nozze, che, diffuse da tutti i mass media e interminabilmente divulgate sulle riviste illustrate, avevano costituito un oggetto di consumo nel tempo libero. Poiché il modo di presentazione, come pure gli articoli che si scrissero sull’avvenimento, gli attribuivano un’importanza eccezionale, noi ci aspettavamo che anche gli spettatori e i lettori lo ritenessero altrettanto importante. In particolare credevamo che fosse attiva l’ideologia della personalizzazione, caratteristica dei nostri giorni, che consiste nel sopravvalutare smodatamente evidentemente come compensazione della generale funzionalizzazione della realtà le persone singole e i rapporti privati, di contro a ciò che è effettivamente determinante dal punto di vista sociale. Con ogni cautela vorrei affermare che simili aspettative erano troppo semplicistiche. Lo studio da noi fatto costituisce senz’altro un caso tipico che permette di verificare che cosa la riflessione critico-teoretica apprenda dalla ricerca sociale empirica, e come la prima si possa correggere in quest’ultima. Nel caso in questione si delineano i sintomi di uno sdoppiamento della coscienza. Da un lato, infatti, l’avvenimento fu goduto come un “qui e ora”, come se esso privasse altrimenti gli uomini della vita; veniva senz’altro considerato “unico” [einmalig], per dir la con un beneamato cliché della lingua neotedesca. Fin qui la reazione degli spettatori si adeguava al noto schema che trasforma strada facendo anche la notizia di attualità e magari politica, al di là della sua funzione di informazione, in un bene di consumo. Avevamo aggiunto però nel nostro schema di intervista delle domande miranti a provocare reazioni immediate, per controllare, tramite le reazioni che ne derivavano, quale significato politico ora i soggetti interrogati attribuivano all’altolocato avvenimento. Si vide allora che molti — il campione rappresentativo può autofondarsi — di colpo reagivano in modo del tutto realistico, e valutavano criticamente l’importanza politica e sociale di quell’avvenimento che, nella sua unicità ben pubblicizzata, essi erano stati a guardare stupiti e ansiosi sullo schermo della televisione. Ciò che dunque l’industria culturale offre agli uomini nel loro tempo libero — se la mia deduzione non è troppo avventata –, viene sì consumato e accettato, ma con una specie di riserva, analogamente a come anche gli ingenui non prendono gli avvenimenti teatrali o cinematografici davvero come effettivamente reali. Di più ancora forse: non ci si crede affatto. L’integrazione di coscienza e tempo libero, però, non è evidentemente ancora del tutto riuscita. I reali interessi dei singoli individui sono sempre ancora abbastanza forti da resistere, al limite, alla penetrazione totale. Questo concorderebbe con la prognosi sociale secondo la quale una società le cui contraddizioni fondamentali continuano a sussistere senza la minima riduzione, non può essere integrata totalmente anche nell’ambito della coscienza. Quest’ultimo tipo di integrazione non è una cosa facile, e men che mai nel tempo libero, che condiziona sì gli individui, ma non può però condizionare totalmente il concetto che essi hanno del tempo libero stesso, per ché ciò sarebbe troppo per gli uomini. Rinuncio a inferire le conseguenze; penso però che si possa scorgere nella circostanza summenzionata una possibilità-probabilità di evoluzione verso la maggior età, che in definitiva potrebbe dare un contributo fondamentale per la trasformazione del tempo libero in libertà.

Titolo originale: Freizeit. Intervento alla Deutschlandfunk (Radio tedesca), 25 maggio 1969; non pubblicata.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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