Theodor Adorno, parola chiave: Soggetto e oggetto

Mario Mancini
24 min readMar 24, 2020

--

Vai all‘indice del libro di T. Adorno “Parole chiave”

Impegnarsi con ponderazione nella riflessione su soggetto e oggetto, indicare le difficoltà esistenti: di questo ci proponiamo specificamente di parlare. I termini sono notoriamente avvolti nell’equivoco. Così “soggetto” può riferirsi tanto al singolo individuo quanto a determinazioni universali, in conformità con l’espressione dei Prolegomeni kantiani di “coscienza in generale” [Bewusstsein uberhaupt]. L’equivocità in questione non è eliminabile sic et simpliciter mediante una mera chiarificazione terminologica. Questo per il fatto che i due significati hanno reciprocamente bisogno l’uno dell’altro, fino al punto che è impossibile comprendere l’uno senza porlo in rapporto con l’altro. Il momento dell’umanità individuale chiamata in Schelling “egoità” non è pensabile senza il concetto di soggetto; se non ci si ricordasse di ciò, il soggetto perderebbe ogni significato. Il singolo individuo umano viene così rovesciato: non appena infatti esso rifletta in generale sulla propria singolarità in forma più universalmente concettuale che sulla datità dell’individuo, ciò che viene compreso non è solo questa presenza di un qualsiasi individuo particolare, poiché essa, mediante la comprensione, viene appunto ridotta a un universale, analogamente a ciò che è diventato esplicito nel concetto idealistico di soggetto; persino l’espressione “individuo particolare” ha bisogno del concetto di genere, altrimenti sarebbe priva di senso. Il riferimento a quell’universale si trova implicito anche nei nomi propri. Essi valgono per uno che si chiama così e non altrimenti: e “uno” sta ellitticamente per “un individuo”. Se si volessero invece definire, per evitare complicazioni di questo tipo, i due termini, si cadrebbe nell’aporia che conduce alla problematica del definire, che la filosofia moderna da Kant in poi ha sempre di nuovo percepita. In un certo senso cioè i concetti di soggetto e oggetto, anzi ciò a cui sono riferiti, hanno la priorità su ogni definizione. Il definire equivale all’apprensione di un che di oggettivo, che può indifferentemente essere in sé soggettivo mediante la fissazione del concetto. Di qui la resistenza che soggetto e oggetto oppongono alla definizione. La loro determinazione ha bisogno della riflessione appunto sulla cosa, e invece la cosa viene separata, mediante la definizione, in favore della maneggevolezza concettuale. Perciò è consigliabile assumere inizialmente i termini “soggetto” e “oggetto” come ce li offre il linguaggio filosofico perfezionato considerato come sedimento di storia; solo che ovviamente non si deve persistere in tale convenzionalismo, ma lo si deve invece rianalizzare criticamente. Si dovrebbe incominciare con il punto di vista presuntivamente ingenuo, benché esso stesso già mediato, in base al quale un soggetto comunque costituito, un individuo conoscente, sta di fronte a un oggetto parimenti comunque costituito, l’oggetto [Gegenstand] della conoscenza. Allora la riflessione che nella terminologia filosofica va sotto il nome di intentio obliqua, è il controriferimento da parte di quell’ambiguo concetto di oggetto a un non meno ambiguo concetto di soggetto. La seconda riflessione riflette la prima, determina cioè più dettagliatamente l’indeterminato in virtù del contenuto dei concetti di soggetto e oggetto.

La scissione tra soggetto e oggetto è nel contempo reale e apparente. È vera, perché, nell’ambito della conoscenza dell’effettiva scissione, della dissociazione della condizione umana, dà espressione a un che di necessariamente divenuto; falsa, perché la scissione, risultato di un processo in divenire, non dev’essere ipostatizzata, non dev’essere magicamente trasformata in un’invariante. Questa contraddizione della scissione di soggetto e oggetto si comunica alla gnoseologia. È vero che essi possono essere pensati come separati; tuttavia lo pséudos della scissione si manifesta nel fatto che sono reciprocamente mediati l’uno attraverso l’altro: l’oggetto attraverso il soggetto, e, più ancora e in altro modo, il soggetto attraverso l’oggetto. La scissione diventa ideologia, addirittura la sua forma normale, non appena sia fissata senza mediazione. Allora lo spirito usurpa il posto dell’assolutamente autonomo, che esso invece non è: nella rivendicazione della sua autonomia si annunzia lo spirito sovrano. Una volta che sia stato radicalmente separato dall’oggetto, il soggetto già riduce a sé l’oggetto; il soggetto fagocita l’oggetto, dimenticando che esso stesso è oggetto. L’immagine di una condizione temporalmente o extra temporalmente originaria di felice identità di soggetto e oggetto è però romantica; in certi momenti è stata la proiezione del desiderio, oggi è soltanto una menzogna. L’inseparabilità, prima che il soggetto si costituisse, era il terrore del contesto naturale cieco, era il mito; le grandi religioni hanno avuto il loro contenuto di verità nell’opposizione a esso. Del resto l’inseparabilità non è l’unità; quest’ultima esige, già secondo la dialettica platonica, il diverso, di cui essa è unità. Il nuovo orrore, quello della scissione, trasfigura per coloro che lo vivono l’orrore antico, il caos, ma entrambe le cose sono il sempre uguale. L’angoscia viene obliata davanti all’aperta mancanza di senso; quell’angoscia che fu un tempo non minore davanti agli dei vendicativi, e che il materialismo epicureo e il timore cristiano non volevano che fosse compresa dagli uomini. Una simile comprensione è attuabile non altrimenti che mediante il soggetto. Se lo si liquidasse, invece di conservarlo in una forma più alta, non solo ciò provocherebbe una regressione della coscienza, ma anche una regressione a uno stato di effettiva barbarie. La fatalità, la decadenza naturale dei miti, deriva dalla totale minorità sociale, deriva da un’epoca in cui l’autocoscienza non aveva ancora aperto gli occhi, e il soggetto non esisteva ancora. Invece di scongiurare il ripetersi di quell’epoca mediante la prassi collettiva, bisognerebbe piuttosto neutralizzare l’incantesimo dell’antica separazione. Il suo prolungamento è la coscienza dell’identità dello spirito, il quale repressivamente eguaglia a sé ciò che gli è altro. Se fosse lecita la speculazione sullo stato della salvazione, in essa non ci si potrebbe immaginare né l’indifferenziata unità di soggetto e oggetto, né la loro ostile antiteticità: piuttosto la comunicazione del differenziato. Allora soltanto il concetto di comunicazione, in quanto concetto oggettivo, perverrebbe al suo giusto posto. Il concetto attuale invece è così ignominioso, perché tradisce il suo momento migliore, il potenziale cioè di un accordo tra uomini e cose, nella comunicazione tra i soggetti secondo le esigenze della ragione soggettiva. Il rapporto tra soggetto e oggetto sarebbe al suo giusto posto, anche dal punto di vista teoretico-conoscitivo, nella pace realizzata sia tra gli uomini, che tra gli uomini e ciò che è diverso da loro. La pace è lo stato di una differenziazione senza potere, nel quale ciò che è differenziato reciprocamente partecipa dell’altro.

Nella teoria della conoscenza il soggetto viene per lo più inteso come equivalente al soggetto trascendentale. Secondo la dottrina idealista, esso o costituisce, come in Kant, il mondo oggettivo traendolo da un materiale non qualificato, oppure lo produce, da Fichte in poi, in senso assoluto. Il fatto che questo soggetto trascendentale, costitutivo di ogni esperienza di contenuti, sia dal canto suo astratto dai singoli individui viventi, non fu scoperto soltanto dalla critica all’idealismo. È evidente che il concetto astratto di soggetto trascendentale — cioè le forme del pensiero, la loro unità e la produttività originaria della coscienza — presuppone ciò che promette di costituire: l’essere individuale effettivamente vivente. Il quale era presente nelle filosofie idealistiche. Kant in verità ha tentato di sviluppare una differenza di principio costitutivo-gerarchica tra il soggetto trascendentale e quello empirico, nel capitolo dedicato ai paralogismi psicologici. Tuttavia i suoi successori, in particolare Fichte e Hegel, ma anche Schopenhauer, cercarono di superare l’imprevedibile difficoltà del circolo vizioso con sottili argomentazioni. Spesso ricorsero al motivo aristotelico per cui ciò che è primo per la coscienza qui: il soggetto empirico non è ciò che è in sé primo, e postula il soggetto trascendentale come sua condizione o sua origine. Anche la polemica di Husserl contro lo psicologismo, insieme alla distinzione tra genesi e validità, rientra nella continuità di quel modo di argomentazione. È apologetica. Il condizionato dev’essere fondato come incondizionato, il derivato come primario. Si ripete così un luogo comune di tutta la tradizione filosofica occidentale, secondo il quale soltanto ciò che è primo, ovvero, secondo la formulazione critica di Nietzsche, solo ciò che non è divenuto, può essere vero. Non è possibile misconoscere la funzione ideologica di questa tesi. Quanto più gli uomini singoli vengono di fatto ridotti a funzioni della totalità sociale tramite la loro connessione al sistema, tanto più l’uomo ut sic, come principio, con l’attributo del creatore, viene elevato per consolazione dallo spirito al potere assoluto.

Tuttavia il problema dell’effettiva realtà del soggetto trascendentale è più difficile di quanto esso, ostentandosi, voglia far credere nel sublimarsi del soggetto a spirito puro, e più che mai nella ritrattazione critica dell’idealismo. In un certo senso, — cosa che in verità l’idealismo in definitiva ammetterebbe –, il soggetto trascendentale è più reale, e cioè, per l’effettivo comportamento degli uomini e per la società che si è costituita su di esso, più determinante di quegli individui psicologici dai quali il soggetto trascendentale è stato astratto, e che nel mondo hanno ben poco da dire, essendo essi, a loro volta, diventati appendici del meccanismo sociale, e infine ideologia. Il singolo individuo vivente, non appena sia indotto ad agire e sia stato anche in sé improntato all’azione, è, in quanto incarnazione l’homo oeconomicus, prima il soggetto trascendentale, e poi il singolo individuo vivente, con il quale è tenuto, peraltro, immediatamente a identificare se medesimo. Fin qui la teoria idealistica era realistica, ed era nel suo diritto mostrando di non nutrire soggezione alcuna nei confronti degli avversari che le rimproveravano il suo idealismo. Nella teoria del soggetto trascendentale si manifesta fedelmente la priorità dei rapporti astrattamente razionali, i quali sono separati dai singoli individui e dalla loro situazione relazionale e trovano il loro modello nello scambio. Se la struttura determinante della società è la forma dello scambio, la sua razionalità è dunque costitutiva degli individui; ciò che essi sono di per sé, ciò che essi credono di essere, è secondario. Sono deformati a priori dal meccanismo filosofico trasfigurato secondo il principio trascendentale. Ciò che è presuntivamente evidente in sommo grado, il soggetto empirico cioè, dovrebbe invece essere considerato propriamente come un qualcosa di non ancora affatto esistente; sotto questo rispetto il soggetto trascendentale è “costitutivo”. Origine presunta di tutti gli oggetti dati [Gegenstande], esso è oggettivato nella sua fissa atemporalità, proprio in conformità alla teoria kantiana delle forme immobili e immutabili della coscienza trascendentale. La sua fissità e invarianza, che secondo la filosofia trascendentale produce gli oggetti, o per lo meno prescrive loro la norma, è la forma riflessa della reificazione degli uomini, obiettivamente attuata nella condizione sociale. Il carattere di feticcio, parvenza illusoria socialmente necessaria, è storicamente diventato anteriore a ciò cui, secondo il suo concetto, dovrebbe essere posteriore. Il problema filosofico della costituzione si è specularmente rovesciato; nel suo rovesciamento tuttavia esso manifesta la verità della situazione storica raggiunta; una verità che, com’è ovvio, dovrebbe essere di nuovo teoreticamente negata mediante una seconda rivoluzione copernicana. Tale verità ha però anche, bisogna ammetterlo, il suo momento positivo: il fatto cioè che la società già costituita tiene in vita sé e i suoi membri. L’individuo particolare deve all’universale la possibilità della sua esistenza; testimonia a favore di ciò il pensiero, che è dal canto suo qualcosa di universale, in quanto è rapporto sociale. Non è dunque feticistico il pensiero preordinato al singolo individuo. Solo che nell’idealismo viene ipostatizzato l’uno dei due termini, che invece non può affatto essere concepito altrimenti che nel suo rapporto con l’altro. Ma il dato di fatto, lo scandalo dell’idealismo, che esso peraltro non può eliminare, dimostra sempre di nuovo il fallimento di quell’ipostasi.

Con l’intuizione della priorità dell’oggetto non viene restaurata l’antica intentio recta, il succubo fidarsi del mondo esterno, che è, come appare dal punto di vista della critica, uno stato antropologico privo dell’autocoscienza, che si cristallizza solo nel contesto del controriferimento della conoscenza al soggetto conoscente. È vero che la brutale contrapposizione di soggetto e oggetto nel realismo ingenuo è storicamente necessitata, e che non la si può rimuovere con alcun atto di volontà. Essa è però nel contempo prodotto della falsa astrazione, è già un frammento di reificazione. Una volta che si sia profondamente compreso questo fatto, la coscienza oggettivata a se stessa, rivolta proprio in quanto tale verso l’esterno, virtualmente capace di colpire ciò che le è esterno, non dovrebbe più trascinarsi ancora senza presa di coscienza di sé. La svolta verso il soggetto, che in verità mira fin dall’inizio al primato di quest’ultimo, non si annulla semplicemente con la propria revisione: la quale si verifica non da ultimo nell’interesse soggettivo di libertà. “Priorità dell’oggetto” significa piuttosto che il soggetto, inteso in un senso qualitativamente diverso, più radicale, è dal canto suo oggetto, come l’oggetto, dal momento che di fatto viene conosciuto non altrimenti che mediante la coscienza, è anche soggetto. Ciò che è conosciuto mediante la coscienza dev’essere un qualcosa; la mediazione si riferisce al mediato. Ma il soggetto, il concetto portante [Inbegriff] della mediazione, è il come, e mai, in quanto contrapposto all’oggetto, il quid che viene postulato da ogni rappresentazione concepibile derivante dal concetto di soggetto. Il soggetto potenzialmente, anche se non attualmente, può essere pensato indipendentemente dall’oggettività; ma non si può fare altrettanto per la soggettività rispetto all’oggetto. Non si può far sparire un essente dall’ambito del soggetto, prescindendo totalmente dal modo della sua determinazione. Se il soggetto non è qualcosa — e “qualcosa” designa un momento irriducibilmente oggettivo — allora esso non è proprio nulla; anche come actus purus ha bisogno del riferimento a un agente. La priorità dell’oggetto è l’intentio obliqua dell’intentio obliqua, non una mera rifrittura dell’intentio recta; è il correttivo della riduzione soggettiva, non il rinnegamento di una partecipazione soggettiva. Anche l’oggetto è mediato, solo che, in conformità al suo concetto, non viene affatto rimandato al soggetto nel modo in cui il soggetto è rimandato all’oggettività. L’idealismo ha ignorato tale differenza, e quindi ha reso rozza una spiritualizzazione nella quale l’astrazione si mimetizza. Questo però induce alla revisione dell’atteggiamento nei riguardi del soggetto, che predomina nella teoria tradizionale, la quale esalta il soggetto nell’ideologia, ma lo diffama nella prassi conoscitiva. Se tuttavia si vuole raggiungere l’oggetto, non si devono eliminare le sue determinazioni o qualità soggettive: questo sarebbe proprio contrario alla priorità dell’oggetto. Se il soggetto ha in sé il nucleo dell’oggetto, allora le qualità soggettive dell’oggetto sono più che mai un momento dell’oggettivo. Perché l’oggetto diventa qualcosa unicamente in quanto è determinato. Nelle determinazioni che apparentemente gli conferisce solo il soggetto, s’impone la sua propria oggettività: esse sono tutte mutuate dall’oggettività dell’intentio recta. Anche secondo la dottrina idealistica le determinazioni soggettive non sono un che di meramente conferito, esse vengono sempre anche pretese da ciò che dev’essere determinato, e in tal modo si afferma la priorità dell’oggetto. Viceversa il presunto oggetto puro, esente dall’ingrendiente del pensiero e dell’intuizione, è proprio il riflesso dell’astratta soggettività: solo essa eguaglia a sé l’altro mediante l’astrazione. L’oggetto di un esperienza integra, a differenza del sostrato privo di determinazioni derivante dal riduzionismo, è più obiettivo di quel sostrato. Le qualità tolte all’oggetto e accreditate al soggetto dalla critica gnoseologica tradizionale, sono dovute nell’esperienza soggettiva alla priorità dell’oggetto; a questo proposito il potere dell’intentio obliqua ha ingannato. La sua eredità è però toccata in sorte a una critica dell’esperienza che ne raggiunge la condizionatezza storica, e in definitiva sociale. Perché la società è immanente all’esperienza, non allo ghénos. Solo l’autocoscienza sociale della conoscenza la fa pervenire alla sua oggettività, che la conoscenza stessa si lascia sfuggire finché obbedisce alle costrizioni sociali che dispoticamente agiscono in essa, senza riflettervi. La critica della società è critica della conoscenza, e viceversa.

Della priorità dell’oggetto è legittimo parlare, solo se quella priorità sia in qualche modo determinabile nei riguardi del soggetto inteso nel senso più ampio, e quindi la cosa in sé kantiana sia di più dell’ignota causa originaria del fenomeno. In verità anch’essa porta già in sé, malgrado Kant, attraverso la sua semplice differenziazione da ciò che è categorialmente predicato, un minimo di determinazioni; una simile modalità negativa potrebbe essere quella dell’acausalità, che è sufficiente a fondare un dissidio nei riguardi del punto di vista convenzionale concordante col soggettivismo. La priorità dell’oggetto dimostra la propria verità in quanto trasforma qualitativamente le opinioni della coscienza reificata, opinioni che coincidono senza alcun attrito col soggettivismo. Quest’ultimo non ha alcun punto di tangenza col realismo ingenuo sul piano dei contenuti, bensì cerca di stabilire i criteri esclusivamente formali della sua validità, come conferma la formula kantiana del realismo empirico. In favore della priorità dell’oggetto ben parla una circostanza incompatibile con la teoria della costituzione di Kant: il fatto cioè che la ragione, nelle moderne scienze naturali, guarda al di là del muro che essa stessa ha innalzato; afferra quindi un piccolo lembo di ciò che non coincide con le sue categorie perfezionate. Tale estensione della ragione fa vacillare il soggettivismo. Ma ciò attraverso cui l’oggetto prioritario, a differenza del suo apparato soggettivo, si determina, si deve in tendere come ciò che determina, da parte sua, il sistema categoriale, dal quale, secondo lo schema soggettivistico, l’oggetto dev’essere determinato: cioè la condizionatezza del condizionato. Le determinazioni categoriali che, secondo Kant, producono appunto l’oggettività, in quanto sono qualcosa di posto esse stesse, sono, se si vuole, in realtà “meramente soggettive”.

Con ciò la reductio ad hominem diventa la rovina dell’antropocentrismo. Il fatto che anche l’uomo in quanto costituente sia un prodotto dell’uomo, priva di fascino la creatività dello spirito. Poiché però la priorità dell’oggetto ha bisogno della riflessione sul soggetto e della riflessione soggettiva, la soggettività diversamente che nel materialismo primitivo, il quale sostanzialmente non ammette dialettica diventa il momento fermo.

Ciò che va sotto il nome di fenomenismo, che cioè di nulla si ha cognizione tranne che proprio attraverso il soggetto conoscente, si associò, fin dal tempo della rivoluzione copernicana, al culto dello spirito. L’uno e l’altro vengono scardinati dall’intuizione della priorità dell’oggetto. Ciò che Hegel intenzionò entro la parentesi soggettiva, spezza quella parentesi nella conseguenza critica. L’asserzione generale che innervazioni, intuizioni evidenti e conoscenze sono “solo soggettive”, non è più valida, appena la soggettività venga intuita come forma dell’oggetto. È illusoria la magica trasformazione del soggetto nella sua causa determinante, la sua posizione come il vero essere. Si deve invece condurre il soggetto stesso alla sua oggettività, né si devono bandire i suoi sentimenti dalla conoscenza. L’illusione del fenomenismo, tuttavia, è un’illusione necessaria. Testimonia del pressoché irresistibile contesto di accecamento che il soggetto, in quanto falsa coscienza, produce, e di cui è, nello stesso tempo, vittima. In tale irresistibilità è radicata l’ideologia del soggetto. Dalla coscienza di una mancanza, dalla coscienza dei limiti della conoscenza, nasce e con ciò la mancanza si può tollerare meglio una virtù. È entrato in azione il narcisismo collettivo. Se esso però non fosse riuscito a imporsi con tale categoricità, e a far nascere le più potenti filosofie, non starebbe alla sua base una verità deformata. Ciò che la filosofia trascendentale esalta nella soggettività creativa, è la prigionia, a se stessa occulta, del soggetto in se medesimo. In ogni obiettivo che pensa esso rimane impigliato, come gli animali corazzati nelle loro armature, di cui cercano invano di sbarazzarsi; solo che a questi ultimi non è venuta l’idea di gridare ai quattro venti spacciando la loro prigionia per libertà. Ci sarebbe proprio da chiedersi perché lo hanno fatto gli uomini. La prigionia del loro spirito è estremamente reale. Il fatto che essi, in quanto soggetti conoscenti, dipendano da spazio, tempo e forme del pensiero, contrassegna il legame di dipendenza che li avvince alla specie. Gli uomini si condensano in quegli elementi costitutivi, i quali, non per questo, sono meno validi. L’“a priori” e la società si compenetrano a vicenda. L’universalità e necessità di quelle forme, in cui consiste la gloria del pensiero kantiano, non è diversa da quella che obbliga gli uomini all’unità. Di essa hanno avuto bisogno per sopravvivere. La prigionia fu interiorizzata: l’individuo è impigliato in se stesso non meno di quanto lo sia nell’universalità, nella società. Di qui l’interesse per quella reinterpretazione della prigionia che la converte speciosamente in libertà. La prigionia categoriale della coscienza individuale riproduce la prigionia reale di ogni singolo individuo. Anche lo sguardo della coscienza, che intuisce la prigionia, viene determinato dalle forme che essa gli ha inculcato. Nell’imprigionamento in sé cui sono condannati, gli uomini potrebbero intuire la prigionia sociale: ma è proprio questa intuizione che si doveva impedire, e ciò costituisce un interesse capitale; ciò che garantisce l’ulteriore esistenza del già costituito. Per amore di quest’ultimo la filosofia, con una necessarietà non minore di quella che ha colpito le forme stesse, inevitabilmente si smarrì. Dunque l’idealismo era ideologico già prima che si accingesse a glorificare il mondo come idea assoluta. La compensazione originaria già racchiude in sé, come presupposto, il fatto che la realtà, innalzata a prodotto del soggetto presunto libero, possa trovare in sé la propria giustificazione, perché in quanto tale, da parte sua, sarebbe già libera.

Il pensiero dell’identità, immagine di copertura della dicotomia dominante, non si atteggia più, nell’epoca dell’impotenza soggettiva, a una assolutizzazione del soggetto. Si forma invece un tipo di pensiero dell’identità apparentemente antisoggettivistico, scientificamente oggettivo: il riduzionismo. Non è un caso che del primo Husserl si parli infatti come di un neorealista. Tale pensiero è l’attuale forma caratteristica della coscienza reificata, falso a causa del suo latente, e perciò tanto più nefasto, soggettivismo. Il resto è modellato alla stregua dei principi dell’ordine della ragione soggettiva, e concorda con la loro astrattezza, astratto esso stesso. La coscienza reificata che si misconosce, come se fosse natura, è ingenua: intende se stessa mentre in realtà è un qualcosa di divenuto e di in sé sommamente mediato come, per dirla con le parole di Husserl, “sfera d’essere delle origini assolute”, e il suo opposto, da essa allestito, come la cosa intuita. L’ideale della spersonalizzazione della conoscenza per amore dell’oggettività, non conserva di questa null’altro che il suo caput mortuum. Se si ammette la priorità dialettica dell’oggetto, si infrange l’ipotesi della conoscenza empirica irriflessa dell’oggetto, intesa come determinazione residuale in seguito alla detrazione del soggetto. Il soggetto non è più allora un addendo sottraibile all’oggettività. Quest’ultima viene falsificata, e non purificata, attraverso la separazione di un suo momento essenziale. La rappresentazione che regge il concetto residuale di oggettività ha dunque proprio la sua immagine originaria in un che di posto, di prodotto dagli uomini; in nessun caso nell’idea di quell’in sé, al posto del quale essa sostituisce l’oggetto purificato. Si tratta piuttosto del modello del profitto, che avanza nel bilancio dopo la detrazione di tutti i costi di produzione. Esso costituisce però l’interesse soggettivo ridotto e circoscritto alla forma del calcolo. Ciò che conta per il freddo realismo del pensiero che si basa sul profitto, infatti, è tutt’altro che la cosa: la quale soccombe nell’utile che frutta a un individuo. Tuttavia la conoscenza dovrebbe essere guidata da ciò che non è mutilato dallo scambio, ovvero perché non c’è nulla di più integro da ciò che si occulta sotto i processi di scambio. L’oggetto è non tanto un residuo privo di soggetto, quanto ciò che è posto dal soggetto. Le due determinazioni tra loro contraddittorie si adeguano l’una all’altra: il rimanente, di cui la scienza può nutrirsi come della sua verità, è il prodotto del suo procedimento manipolativo, soggettivamente organizzato. Il definire che cos’è l’oggetto, sarebbe dal canto suo una frazione di tale organizzazione. L’oggettività si può reperire a una sola condizione: che essa venga rispecchiata, a ogni stadio storico e conoscitivo, tanto in ciò che di volta in volta si rappresenta come soggetto e oggetto, quanto nelle mediazioni. Quindi l’oggetto è effettivamente, come insegnò il neokantismo, “infinitamente dato”. Talvolta il soggetto, in quanto esperienza illimitata, giunge più vicino all’oggetto in quanto residuo filtrato, tagliato apposta secondo le esigenze della ragione soggettiva. La soggettività non limitata, secondo il suo attuale valore posizionale storico-filosofico, quello polemico, può avere una funzione più oggettiva delle riduzioni oggettivistiche. È stregata ogni conoscenza che si verifica sotto il suo magico potere, non da ultimo per il fatto che le tesi epistemologiche tradizionali capovolgono il loro oggetto: fair is foul, and foul is fair, il pulito è sporco e lo sporco è pulito. Il contenuto oggettivo dell’esperienza individuale viene stabilito non tramite il metodo della generalizzazione comparativa, bensì tramite la risoluzione di ciò che quell’esperienza, in quanto essa stessa prevenuta, impedisce; abbandonandosi cioè all’oggetto così, senza riserve, secondo l’espressione di Hegel, con quella libertà che il soggetto della conoscenza privò della sua tensione, finché esso veramente si annulla nell’oggetto, al quale, trasformato, è ridotto in virtù del suo proprio essere oggetto. La posizione chiave del soggetto nella conoscenza è l’esperienza, non la forma; ciò che in Kant si chiama “formazione”, è sostanzialmente deformazione. Lo sforzo della conoscenza è in prevalenza la distruzione del suo sforzo consueto, la violenza nei riguardi dell’oggetto. La conoscenza dell’oggetto si avvicina all’atto nel quale il soggetto lacera il velo che tesse intorno all’oggetto. Ed è capace di compierlo soltanto se, in una passività senza paura, confida nella propria esperienza. Nei punti in cui la ragione soggettiva intuisce la contingenza soggettiva, traspare la priorità dell’oggetto; il quale trova il suo esser tale in ciò che non è riducibile a componente soggettiva. Il soggetto è l’agente, non il costituente dell’oggetto; tale fatto ha anche una sua conseguenza per il rapporto fra teoria e prassi.

Anche dopo la seconda riflessione messa in atto dalla rivoluzione copernicana, il più contestabile teorema di Kant, la distinzione cioè tra cosa in sé trascendente e oggetto costituito, conserva una parte di verità. Perché l’oggetto sarebbe finalmente il non identico, liberato dalla tirannide soggettiva, e afferrabile attraverso la sua autocritica se è vero che esso in generale esiste già e non è piuttosto ciò che Kant definisce col concetto dell’idea. Un simile non identico si avvicinerebbe molto alla cosa in sé kantiana, sebbene quel concetto si attenga al punto di fuga della sua coincidenza col soggetto. L’oggetto non sarebbe il relitto di un disincantato mondo intelligibile, ma risulterebbe invece più reale del mondo sensibile, in quanto la rivoluzione copernicana di Kant fa astrazione da quel non identico, trovando in ciò il suo limite. In tal caso tuttavia l’oggetto kantiano è “ciò che è posto” dal soggetto, il quale, a sua volta, è il tessuto formale soggettivo al di là del dequalificato qualcosa. L’oggetto kantiano, cioè, è in ultima analisi la legge che riunisce nell’oggetto i fenomeni disintegrati dal loro controriferimento soggettivo. Gli attributi della necessità e universalità, che Kant fissa nel concetto enfatico di legge, hanno un’immobilità rigido-cosale, e sono impenetrabilmente indifferenti al mondo sociale, col quale coincidono i viventi. Quella legge che secondo Kant il soggetto prescrive alla natura, la suprema esaltazione cioè dell’oggettività nella sua concezione, costituisce tanto la perfetta espressione del soggetto, quanto la sua auto estraniazione: il soggetto, dalla vetta della sua alterigia di costituente, si scambia per l’oggetto. Tale fraintendimento ha tuttavia ancora una volta una sua paradossale ragione: in effetti il soggetto è anche oggetto, solo che appunto, nella sua autonomizzazione nella pura forma, dimentica come e attraverso che cosa esso stesso è venuto costituendosi per quel che è. La rivoluzione copernicana di Kant coglie con esattezza l’oggettivazione del soggetto, la realtà della reificazione. Il suo contenuto di verità è il blocco — che non è per nulla ontologico, bensì risulta essere il prodotto di una stratificazione storica — che viene a situarsi tra soggetto e oggetto. Il soggetto erige siffatto blocco rivendicando la propria supremazia sull’oggetto, e facendosi quindi delle illusioni su di esso. In quanto in realtà non identico, l’oggetto viene spostato tanto più lontano dal soggetto, quanto più il soggetto “costituisce” l’oggetto. Il blocco che, accecandola, ricopre la fronte della filosofia kantiana, è nel contempo il prodotto di quella filosofia. Il soggetto come spontaneità pura, come appercezione originaria, apparentemente è il principio assolutamente dinamico, ma in realtà, in virtù del chorismòs di ogni materia, è non meno reificato del mondo delle cose costituito secondo il modello delle scienze naturali. Perché tramite il chorismòs la pretesa spontaneità assoluta viene sospesa in sé, anche se non per Kant; la forma, che dev’essere invero la forma di qualcosa, secondo la propria subita determinazione [Beschaffenheit], può tuttavia non entrare in interazione con un qualcosa. La sua rigida separazione dall’attività del soggetto individuale, che viene inevitabilmente svalutata in quanto psicologico-contingente, distrugge l’appercezione originaria, il principio più profondo intuito da Kant. Il suo apriorismo priva l’azione pura proprio della dimensione della temporalità, senza la quale assolutamente nulla può essere compreso sotto la dinamica. L’agire rimanda a un essere di second’ordine; espressamente, com’è noto, alla rivoluzione del tardo Fichte nei confronti della teoria scientifica del 1794. Kant codifica tale ambiguità oggettiva del concetto dell’oggetto, e nessun teorema sull’oggetto può superarla. In sostanza “priorità dell’oggetto” significherebbe che non esiste l’oggetto come un che di astrattamente contrapposto al soggetto, e che però l’oggetto in quanto tale appare necessario; la necessità di questo apparire dovrebbe essere eliminata.

A dire il vero “esiste” propriamente altrettanto poco il soggetto. La sua ipostasi nell’idealismo conduce ad assurdità, che si possono compendiare nel fatto che la determinazione del soggetto si avviluppa in sé, mentre invece il soggetto è posto. E cioè non è per nulla soltanto puro, perché dall’idealismo stesso viene presupposto come costituente il costituito. Il soggetto è anche oggetto, in quanto “esiste”, il che implica la teoria idealistica della costituzione — il soggetto deve dare, quindi può in qualche modo costituire qualcosa — e dal canto suo è stato mutuato dalla sfera della fatticità. Il concetto di ciò che esiste, che “c’è”, che si dà [es gibt], non vuol dire null’altro del concetto dell’essente determinato [Daseiend], e in quanto essente determinato il soggetto cade a priori sotto l’oggetto. In quanto appercezione pura, però, il soggetto dovrebbe essere ciò che è semplicemente diverso da ogni essente determinato. Anche in ciò appare, sia pure al negativo, una parte di verità: che cioè la reificazione, che ha reso il soggetto sovrano di tutto, sé compreso, è apparenza illusoria. Nell’abisso del suo sé il soggetto smarrisce ciò che sarebbe esente dalla reificazione; in verità con la conseguenza contraddittoria che esso rilascia in tal modo una patente d’immunità a qualsiasi altra reificazione. L’idealismo falsamente proietta l’idea dell’autenticità della vita verso l’interno. Il soggetto come forza immaginativa produttiva, appercezione pura, infine libera azione fattiva, simbolizza quell’attività in cui realmente si riproduce la vita degli uomini, e anticipa in essa, a ragione, la libertà. Perciò il soggetto non si dissolve semplicemente nell’oggetto, o in un qualsiasi presunto ente più alto, nell’essere, allo stesso modo che non può essere ipostatizzato. Il soggetto è, nella sua auto posizione, apparenza illusoria, e, nel contempo, un che di storicamente del tutto vero. Esso contiene in sé il potenziale di annullamento del proprio potere.

La differenza tra soggetto e oggetto interseca tanto il soggetto che l’oggetto. È necessario che il pensiero eviti il più possibile sia di assolutizzarla sia di eliminarla. Nel soggetto tutto si può propriamente attribuire all’oggetto; ciò che in esso non è oggetto fa saltare semanticamente l’“è”. La pura forma soggettiva della gnoseologia tradizionale può essere di volta in volta pensata, in conformità al proprio concetto, soltanto come forma dell’oggettivo, non senza di esso, poiché senza di esso non è nemmeno pensabile. L’immobilità dell’Io della teoria della conoscenza, l’identità dell’autocoscienza, è evidentemente ricalcata sull’esperienza irriflessa dell’oggetto permanente, identico; a esso si riferisce essenzialmente anche Kant. Se egli non avesse potuto rivendicare le forme soggettive come condizioni dell’oggettività, non avrebbe tacitamente concesso loro un’oggettività, che Kant prende a prestito da quella a cui contrappone il soggetto. Tuttavia, nell’estremo che si concentra nella soggettività, dal punto di vista della sua unità sintetica, viene sempre raccolto solo ciò che è anche in sé omogeneo. Altrimenti la sintesi sarebbe mero arbitrio classificatorio. Tale reciproca omogeneità, comunque, non può essere immaginata senza l’attuazione soggettiva della sintesi. Anche dell’a priori soggettivo si può asserire l’oggettività della sua validità, in quanto esso ha un lato oggettivo; senza quest’ultimo l’oggetto costituito dall’a priori sarebbe una pura tautologia per il soggetto. Infine il suo contenuto, in Kant la materia della conoscenza –, in virtù della sua irresolubilità, della sua datità, della sua esteriorità al soggetto, è parimenti un che di oggettivo nel soggetto. Conformemente a ciò, è facile che il soggetto sembri, dal canto suo — analogamente a come lo pensò Hegel — un nulla e un oggetto assoluto. Questa tuttavia è di nuovo illusione trascendentale. Il soggetto diventa il nulla attraverso la sua ipostasi, attraverso la reificazione del non cosale. La quale però incorre inevitabilmente nella contestazione, perché non può soddisfare al criterio, in sostanza ingenuamente realistico, dell’essere determinato. La costruzione idealistica del soggetto naufraga, perché confonde il soggetto con un che di oggettivo, — inteso come un in sé essente –, che invece non esiste: alla stregua dell’essente, il soggetto è condannato alla nullità. Il soggetto tanto più è, quanto meno è, e quanto meno è, tanto più si illude di essere un qualcosa di per sé oggettivo. Come momento, tuttavia, è ineliminabile. In seguito all’eliminazione del momento soggettivo, l’oggetto si disperderebbe qua e là, come i fuggevoli sentimenti e istanti della vita soggettiva.

Anche l’oggetto, sebbene in misura minore, non esiste senza il soggetto. Se mancasse il soggetto come momento nello stesso oggetto, l’oggettività di quest’ultimo diventerebbe un nonsenso. Ciò diviene evidente nella debolezza della teoria della conoscenza di Hume, che era in realtà a orientamento soggettivo, mentre si illudeva di poter fare a meno del soggetto. Si possono inoltre formulare dei giudizi sul rapporto tra soggetto individuale e soggetto trascendentale. Il soggetto individuale è, come è stato variamente ripetuto innumerevoli volte da Kant in poi, elemento costitutivo del mondo empirico. Tuttavia la sua funzione, la sua capacità di esperienza che manca al soggetto trascendentale, perché nessun ente logico puro potrebbe mai esperire, è in verità molto più costitutiva di quella attribuita dall’idealismo al soggetto trascendentale, che fu dal canto suo un’astrazione dalla coscienza individuale, ipostatizzata in modo completamente precritico. Ciononostante il concetto di soggetto trascendentale ricorda che il pensiero, in virtù dei momenti di universalità a esso immanenti, va al di là della propria necessaria individuazione. Anche l’antitesi di universale e particolare è tanto necessaria quanto illusoria. Nessuna delle due categorie esiste senza l’altra: il particolare esiste solo in quanto determinato e quindi universalmente, l’universale solo in quanto determinazione del particolare e quindi particolarmente. Entrambe sono e non sono. Questo è uno dei più importanti motivi della dialettica non idealistica.

La riflessione del soggetto sul suo formalismo è riflessione sulla società, poiché paradossalmente, in conformità con lo spirito che intenziona l’ultimo Durkheim, i “formanti costitutivi” hanno un’origine sociale; d’altra parte, tuttavia — e di ciò può vantarsi la corrente gnoseologica — sono obiettivamente validi; dalle argomentazioni di Durkheim essi vengono già presupposti in quel principio che dimostra la loro condizionatezza. Il loro carattere paradossale dovrebbe coincidere con l’oggettiva prigionia del soggetto in se medesimo. La funzione conoscitiva, senza la quale la differenza non sarebbe unità del soggetto, è, per quanto la riguarda, derivata. È essenzialmente costituita da quei formanti; fin dove c’è conoscenza, essa deve attuarsi in conformità a essi, anche se il suo sguardo va al di là di essi. I formanti costitutivi definiscono il concetto di conoscenza. Tuttavia non sono assoluti, bensì il risultato di un processo di divenire, come la funzione conoscitiva in generale. Il fatto che potrebbero venir meno, non è al di là di ogni possibilità. Per predicare la loro assolutezza, la funzione conoscitiva pose il soggetto in modo assoluto; per relativizzarli, la funzione conoscitiva lo ritrattò in modo dogmatico. Di contro a ciò, si osserva che l’argomento implica quest’assurdo sociologismo: Dio ha creato la società, e questa ha creato l’uomo e Dio a sua immagine. Ma la tesi della priorità è contraddittoria solo finché l’individuo, o la sua protoforma biologica, vengano ipostatizzati. Dal punto di vista della spiegazione storica si deve supporre piuttosto il prius temporale, o per lo meno la contemporaneità della specie. Che l’uomo debba essere esistito prima della specie, è o una reminiscenza biblica, o mero platonismo. La natura, nei suoi stadi inferiori, è piena di organismi non individuati. Se, in conformità con la tesi dei biologi moderni, gli uomini effettivamente sono nati dotati al pari degli altri esseri viventi, allora devono essersi semplicemente associati solo per potersi conservare in vita mediante un rudimentale lavoro sociale; il principium individuationis è secondario rispetto a quel lavoro, è ipoteticamente una modalità della divisione biologica del lavoro. E, improbabile che un qualunque individuo singolo sia stato primordiale rispetto a tutti gli altri. La credenza in una simile eventualità proietta miticamente all’indietro, o sull’eterno cielo delle idee, il principium individuationis, già storicamente del tutto sviluppato. La specie ha potuto individuarsi attraverso la mutazione, per riprodursi poi attraverso l’individuazione in individui in condizioni di associazione nel singolare biologico. L’uomo è un risultato, non un éidos; la teoria della conoscenza di Hegel e Marx giunge fin nell’essenza più intima dei cosiddetti problemi della costituzione. L’ontologia dell’uomo modello della costruzione del soggetto trascendentale è orientata verso il singolo individuo sviluppato, così come indica sul piano linguistico l’equivoco insito nell’articolo “Io” (l’uomo), che designa tanto l’essere che appartiene alla specie, quanto l’individuo. Quindi il nominalismo, di contro all’ontologia, contiene, molto prima di quest’ultima, il primato della specie, della società. In verità l’ontologia concorda col nominalismo nel fatto che nega senza indugio la specie, forse perché essa ricorda gli animali: l’ontologia, innalzando il singolo individuo alla forma di unità e all’in sé essente, di contro alla pluralità; il nominalismo, dichiarando in modo irriflesso che l’individuo inteso secondo il modello dell’individuo singolo è il vero essere. Il nominalismo nega la società nei concetti, riducendola all’abbreviazione dell’individuale.

Titolo originale: Dialektische Epilegomena: Zu Subjekt.

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet