Theodor Adorno, parola chiave: Ragione e rivelazione

Mario Mancini
13 min readMar 21, 2020

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James Turrell, Tunnel del Roden Crater, Deserto dipinto, Arizona USA.

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La diatriba sulla rivelazione fu combattuta nel diciottesimo secolo. Nel diciannovesimo, in quanto già risolta in senso negativo, è ormai sostanzialmente caduta in oblio. Ma non da ultimo proprio a questo fatto essa deve la sua attuale rinascita. Questo però mette a priori il critico della rivelazione in una posizione ambigua. Chi non vuole diventare la sua vittima, comunque, deve definire tale posizione. Se si ripete proprio esattamente il catalogo davvero perfetto degli argomenti dell’Illuminismo, ci si espone al rimprovero dell’eclettico di fondarci su cose note da un pezzo, e che non interessano più nessuno. Se ci si consola pensando che in quei tempi la religione fondata sulla rivelazione non ha potuto resistere alla critica, si diventa sospetti come razionalisti antiquati. Oggi infatti, invece di riflessioni oggettivo-cosali sulla verità o falsità, è dovunque diffusa l’abitudine mentale di imporre la decisione soggettiva [Entscheidung] del momento in quanto tale, e magari di contrapporre l’altro ieri a ieri. Se dunque, da un lato, non si vuole incorrere nell’alternativa, interdetta dalle critiche, di proporre come obiezione ciò che si conosce da un pezzo e che quindi non è valido, e dall’altro, come alternativa contraria, non ci si vuole adeguare, acquiescenti, all’attuale sentimento religioso, che in modo tanto strano quanto spiegabile combacia col positivismo dominante, si può allora ricordare, a mio avviso, meglio di ogni altra argomentazione, quella descrizione profondamente sorridente, fatta da Benjamin, della teologia, “che oggi è, com’è noto, piccola e brutta, ma anche se non lo fosse, non dovrebbe farsi vedere lo stesso”. Nulla, del contenuto della teologia, potrà continuare a sussistere immutato; ognuno dovrà sottoporsi alla prova di immigrare nel secolare, nel profano. L’opinione attualmente dominante — in antitesi al mondo delle rappresentazioni religiose del passato, foggiato con dovizia e concretezza –, l’attuale vita ed esperienza degli uomini, l’immanenza, che è come una specie di vetrina attraverso le cui pareti si può scorgere l’esistenza eternamente immutabile di una philosophia o religio perennis, è proprio la riproduzione di una situazione in cui la credenza nella rivelazione non è più presente, in sostanza, negli uomini e nell’ordinamento dei loro rapporti, e può essere sostenuta soltanto mediante una disperata astrazione. Le aspirazioni ontologiche si possono oggi considerare riducibili a questo fatto: che esse cercano, per il perdurare della situazione nominalistica non mediata nel realismo, di saltare il mondo delle idee in sé esistente, che viene quindi ridotto, dal canto suo, a prodotto della mera soggettività, della cosiddetta decisione soggettiva, cioè dell’arbitrio, il che viene considerato in ampia misura come la rivoluzione strettamente affine alla religione positiva.

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La posizione di coloro che si batterono nel diciottesimo secolo per la credenza nella rivelazione, era radicalmente diversa da quella di coloro che fanno oggi la stessa cosa; poiché in generale idee identiche, a seconda del momento storico, possono assumere un significato completamente divergente. Allora si trattava di difendere un concetto di scuola già precedentemente dato dalla tradizione, e più o meno protetto, tramite l’autorità sociale costituita, dall’attacco della ragione autonoma, che è disposta ad accettare soltanto ciò che regge alla sua verifica. D’altra parte questo difendersi dalla ragione doveva essere attuato con strumenti razionali, ed era quindi, come disse Hegel nella Fenomenologia, senza speranza fin dall’inizio: con lo strumento dell’argomentazione, di cui si serviva, esso si addossava a priori anche il principio a lui nemico. Oggi si sta verificando invece la svolta verso la credenza nella rivelazione perché si dispera appunto di quegli strumenti, della ragione. L’irresistibilità della ragione è avvertita come meramente negativa, e viene evocata la rivelazione per porre un freno a ciò che in Hegel si chiama la “furia del dileguare”: perché si presume che sarebbe bene avere la rivelazione. I dubbi sulla effettiva possibilità di tale restaurazione vengono soffocati appellandosi al consenso dei molti che parimenti la vorrebbero. “Oggi ormai non si è più antiquati, se si crede in Dio”, mi disse una volta una signora la cui famiglia, dopo un burrascoso intermezzo illuministico, era ritornata alla religione della sua fanciullezza. Nel migliore dei casi — quando non si tratta cioè di un mero atteggiamento di imitazione e di conformismo — il padre di tale atteggiamento è il desiderio: non è la verità e autenticità della rivelazione l’elemento decisivo, bensì il bisogno di orientamento, il fatto che in ciò che è immutabilmente precostituito si può trovare un punto d’appoggio; e inoltre la speranza di poter infondere nel mondo disincantato, mediante la decisione soggettiva, quel senso della cui mancanza si soffre tanto, finché si sta a guardare da meri spettatori ciò che di senso è privo.

Le rinascite religiose dei nostri giorni mi sembrano filosofia della religione, non religione. Concordano comunque con l’apologetica del diciottesimo secolo e dei primi anni del diciannovesimo, nel fatto che cercano, mediante la riflessione razionale, di evocarne l’opposto; ora tuttavia, attraverso la riflessione razionale sulla ragione stessa, con una disposizione segreta a disfarsene, esse inclinano all’oscurantismo, che è eticamente molto più malvagio di qualsiasi ristretta ortodossia dei tempi passati, perché esso stesso non crede affatto in sé. Il tipico gesto neoreligioso è quello del convertito, constatabile in individui nei quali esso non si spinge fino a una conversione nel senso formale del termine, costituendosi in essi in modo semplicemente enfatico rispetto a ciò che sembra loro sanzionato come”religione dei padri”, e che ha contribuito da tempo immemorabile, con paterna autorità, anche in Kierkegaard per quanto riguarda il singolo individuo, a ricacciare giù nel profondo il dubbio che sale minaccioso.

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Il sacrificio dell’intelletto, che un tempo, in Pascal o in Kierkegaard, era offerto dalla coscienza più progredita e a non meno del prezzo di tutta la vita, si è nel frattempo socializzato, e chi lo offre è quindi esente da timore e tremore: nessuno avrebbe potuto reagire con maggiore sdegno a questo fatto dello stesso Kierkegaard. Perché il troppo pensare, l’imperturbabile autonomia, rende più difficile l’adattamento nel mondo amministrato, e arreca dolore, anzi determina la proiezione smisurata di siffatto dolore, a essa socialmente imposto, sulla ragione in quanto tale. Dev’essere stata lei a portare dolori e sciagure nel mondo. La dialettica dell’illuminismo, che di fatto deve pagare il prezzo del progresso, che è tenuta a dare cioè un nome a tutta quella corruzione che la razionalità in quanto dominio progressivo sulla natura arreca, viene per così dire troncata troppo presto, conformemente al modello di una situazione la cui cieca chiusa compattezza [Geschlossenheit] sembra bloccare la via d’uscita. Spasmodicamente, in modo volontaristico viene misconosciuto il fatto che l’eccesso di razionalità, del quale si lamenta specialmente la classe colta, e che essa registra in concetti come quello di meccanizzazione, di atomizzazione, spesso anche di massificazione, è in realtà un difetto di razionalità, è cioè l’aumento e il perfezionamento di tutti gli apparati e strumenti calcolabili di potere, a spese dell’obiettivo consistente nella fondazione razionale dell’umanità, la quale resta così abbandonata alla mera costellazione di potere della non ragione, e alla quale la coscienza, offuscata dalla continua preoccupazione per i rapporti e le datità positive esistenti, non ha più assolutamente fiducia di potersi innalzare. Se, da un lato, è vero che l’autoconferimento di significato [Selbstbesinnung] è concesso a una ragione che rifiuti, rendendosi colpevole, di assolutizzare se stessa alla stregua di un ostinato strumento di potere, e ne è espressione il bisogno religioso oggi unanimemente sentito, dall’altro, però, l’acquisizione di significato non può ridursi a essere la mera negazione operata dal pensiero nei confronti di se medesimo, una specie di sacrificio mistico, non può attuarsi cioè con un “salto”: questo si renderebbe in tal modo in tutto e per tutto simile a quella politica che è apportatrice di catastrofe. Ma la ragione, invece di porre o di negare la razionalità stessa come un assoluto, deve piuttosto cercare di determinarla come un momento compreso entro la totalità, un momento capace anche, contrapponendosi a questa, di affermarsi nella propria autonomia. Spetta alla ragione di rendersi intima alla propria essenza naturale. Questo motivo non è estraneo alle grandi religioni: ma oggi, appunto, bisogna “secolarizzarlo”, in modo che esso non debba servire, isolato e soverchiamente accentuato, all’ottenebrarsi del mondo, che esso medesimo invece potrebbe scongiurare.

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La rinascita della religione basantesi su una rivelazione si richiama di preferenza al concetto dei legami come obblighi morali [Bindungen] necessari: si sceglie, per così dire, l’eteronomo da un’autonomia precaria. Attualmente però si danno, a dispetto di ciò che crede la mentalità profana, piuttosto troppi che troppo pochi legami. Il concentrarsi dei poteri economici, e quindi politici e amministrativi, fa in larga misura di ogni singolo un mero funzionario dell’ingranaggio. Gli individui sono ora presumibilmente molto più vincolati che nell’era dell’antico liberalismo, nella quale non aspiravano ancora a riconquistare per sé dei legami [Bindungen]. Il loro bisogno di vincoli è oggi prevalentemente un bisogno crescente di sdoppiamento sul piano spirituale, e di conseguenza di legittimazione dell’autorità attualmente vigente. Il discorso sulla mancanza trascendentale di protezione, che un tempo diede espressione alla miseria dell’individuo nella società individualistica, è diventato l’ideologia, il pretesto per il cattivo collettivismo, che si fonda, finché non abbia appunto a disposizione qualche stato autoritario, su altre istituzioni, con pretese sovrapersonali. La sproporzione smisuratamente crescente tra la potenza e l’impotenza sociale conduce, prolungandosi, all’indebolimento da cui è afflitta la conformazione complessiva dell’Io, in modo tale che questo ormai non riesce più a resistere senza identificarsi proprio con ciò che lo condanna all’impotenza. Solo la debolezza va in cerca di vincoli; l’impulso che verso questi è proteso — impulso che si trasfigura come se si spogliasse della limitatezza dell’egoismo, del mero interesse individuale — non è volto in realtà verso ciò che è degno dell’uomo, bensì capitola davanti a ciò che è indegno dell’uomo. Dietro a ciò sta l’apparenza, socialmente necessaria nel suo illusorio mostrarsi sciolta da ogni necessità, e rafforzata con tutti i mezzi immaginabili, stando alla quale il soggetto, gli uomini, sarebbero incapaci di umanità: c’è la disperata feticizzazione dei rapporti esistenti. Il motivo religioso della corruzione del genere umano dal peccato di Adamo in poi, sebbene sia stato una volta radicalmente secolarizzato in Hobbes, entra di nuovo, travisato, al servizio del male. Dal momento che per gli uomini è impossibile l’istituzione di un ordine giusto, viene loro raccomandato quello ingiusto esistente. Quel che una volta Thomas Mann, in polemica con Spengler, chiamò “disfattismo dell’umanità”, si è universalmente diffuso. La svolta verso la trascendenza funge da immagine di copertura della perdita di speranza immanente alla nostra società. Non le è estranea la disposizione a lasciare il mondo così com’è, perché ritiene che come mondo non possa essere altrimenti. Il modello realmente determinante di questa modalità di comportamento è la spartizione del mondo in due enormi blocchi, rigidamente contrapposti tra loro, che si minacciano a vicenda, e minacciano ogni singolo individuo, di distruzione. L’angoscia che intimamente pervade il mondo, dal momento che non si vede nulla che possa portare al suo superamento, viene perciò ipostatizzata come angoscia esistenziale o magari trascendente. Ma le vittorie che la religione basata sulla rivelazione riporta in nome di tale angoscia sono vittorie di Pirro. La religione viene fatta propria in nome di qualcosa di diverso dal suo contenuto di verità, ma in tal modo mina da sé le proprie stesse fondamenta. Il fatto che le religioni positive si impegnino di nuovo con tanta prontezza nella lotta, e magari gareggino con altre istituzioni pubbliche, è semplicemente un indice della disperazione latente insita nella loro positività.

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L’irrazionalismo che impronta di sé la religione basata sulla rivelazione si esprime nel ruolo di centralità che viene oggi ad assumere il concetto della paradossalità religiosa. Basta ricordare a questo proposito la teologia dialettica, sebbene essa non sia teologicamente qualcosa di invariante, ma acquisti un valore solo grazie alla sua caratterizzazione storicamente determinata. Ciò che l’apostolo, nell’epoca del rischiaramento [Aufkliirung] ellenistico, chiamò una stoltezza dei Greci, e che ora esige l’abdicazione della ragione, non è sempre stato tale. Nel Medioevo la religione della rivelazione cristiana si difese energicamente dalla teoria delle due verità, che l’avrebbe altrimenti portata all’autodistruzione. La grande Scolastica, e innanzitutto le Summae di Tommaso, trovarono la loro forza e la loro dignità nel fatto che, non avendo assolutizzato il concetto di ragione, non lo misero mai al bando: di ciò la teologia si è dimenticata solo nell’epoca del nominalismo, particolarmente con Lutero. La dottrina tomistica non costituì solo il rispecchiamento dell’ordinamento feudale della sua epoca, in verità già diventato problematico a se stesso, ma corrispose anche allo stadio scientifico più avanzato di quel periodo. Una volta però che la fede religiosa abbia perduto la concordanza con la conoscenza, o perlomeno il fecondo tendere a essa, perde anche quella vincolanza, quel carattere di “cogenza”, che in seguito Kant cercò ancora di salvare nella legge morale, intesa come una secolarizzazione dell’autorità della fede religiosa. Ma perché uno deve abbracciare quella fede religiosa e non un’altra? In risposta a tale interrogativo alla coscienza non è data oggi altra ragione di diritto che il suo mero bisogno, il quale però non è una garanzia di verità. Se potessi quindi accettare la credenza nella rivelazione, a essa dovrebbe spettare un’autorità nei riguardi della mia ragione, autorità che presupporrebbe l’accettazione preventiva da parte mia della credenza nella rivelazione, il che, inevitabilmente, conduce a un circolo vizioso. Se, in conformità alla dottrina dell’antica Scolastica, si aggiunge la mia volontà come condizione esplicita del credere, non c’è possibilità neppure in tal caso di sfuggire alla presa di siffatto circolo vizioso. La volontà stessa, infatti, sarebbe possibile soltanto se esistesse già in noi la convinzione della validità del contenuto di verità della credenza, e quindi proprio ciò che si può conseguire soltanto per mezzo dell’atto di volontà. Una volta che la religione non sia più religione del popolo, non sia più sostanziale nel senso hegeliano, ammesso che in generale lo sia mai stata, si irretirà in una globalità che attrae a sé e afferra senza vincolare, in una visione del mondo autoritaria, nella coercizione e nell’arbitrio. L’intuizione di ciò ha indotto la teologia giudaica a non stipulare alcun dogma, e a non pretendere null’altro dai suoi aderenti che il vivere secondo la legge; il cristianesimo originario di Tolstoj è probabilmente qualcosa di molto simile. Ma quand’anche si riuscisse a evitare l’antinomia di conoscenza e fede religiosa, e si potesse superare anche l’estraniazione tra il comandamento religioso e il soggetto, la contraddizione inespressa sarebbe ancora all’opera. Perché la questione: da dove venga l’autorità della dottrina, non è stata risolta, bensì troncata, una volta che l’elemento giudaico abbia rotto completamente con quello islamico. L’eliminazione dell’elemento oggettivo dalla religione è per essa non meno fatale della reificazione, che vuole imporre al soggetto, in modo rigidamente ostile alla ragione, il dogma, l’“obiettività” della fede. Ma l’asserito momento oggettivo dell’autorità della rivelazione non è più sostenibile, perché esso stesso dovrebbe sottoporsi al criterio di misura dell’oggettività, cioè alla conoscenza, le cui rivendicazioni esso liquida invece con arroganza.

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E invece, in conseguenza della generale neutralizzazione di ogni spirito nei riguardi dei puri valori culturali, verificatasi negli ultimi centocinquant’anni, la contraddizione tra la tradizionale religione basata sulla rivelazione e la conoscenza non viene più avvertita come tale, poiché entrambe esistono l’una accanto all’altra come branche dell’attività culturale similmente a quanto accade, per esempio, nelle riviste in cui si susseguono i titoli delle rubriche di medicina, radio, televisione e religione, cosicché la pretesa accampata sulla coscienza dalla religione basata sulla rivelazione dall’epoca dell’Illuminismo in poi, non è affatto venuta meno, anzi è cresciuta a dismisura. Il fatto che nessuno ne parli più dipende dalla circostanza che in generale non si possono più connettere l’una all’altra le due sfere. I tentativi di trasferire nella religione i risultati critici della scienza moderna, che allignano particolarmente ai margini della fisica quantistica, sono logicamente inconcludenti. Con ciò non si deve pensare soltanto al carattere geocentrico e antropocentrico delle grandi religioni tramandate, che è in stridente contrasto con lo stato attuale della cosmologia in tal caso ci si avvale spesso volentieri di questa stridenza, cioè del ridicolo di una messa a confronto della dottrina religiosa con i risultati delle scienze della natura in generale, col risultato di rendere ridicolo il confronto stesso, a causa della sua primitività e grossolanità. Un tempo, e a buon diritto, la religione non si riteneva così sottile. Essa insisteva sulla sua verità anche in senso cosmologico, perché sapeva che la sua pretesa alla verità del contenuto materialeconcreto non potrebbe essere considerata separatamente senza risentirne danno. Non appena infatti la religione espone il suo contenuto cosale, minaccia di andare in fumo già solo per il simbolismo, e ne va della vita della sua pretesa alla verità. È forse decisiva però la frattura tra il modello sociale delle grandi religioni e quello della società odierna. Le prime erano costituite sui rapporti trasparenti della primary community, o tutt’al più sulla semplice economia di baratto. Un poeta ebraico una volta ha scritto, a ragione, che nel giudaismo e nel cristianesimo c’è aria di campagna. Da ciò non si può prescindere, senza contare il fatto che il contenuto dottrinale della religione fu investito di potere mediante una reinterpretazione: il cristianesimo non è pressoché identico in tutte le epoche; gli uomini, nel corso del tempo, vengono colpiti da ciò che una volta percepirono come buona novella. Il concetto del pane quotidiano, generato dall’esperienza della penuria in uno stato di produzione materiale incerta e insufficiente, non si può facilmente trasferire al mondo dei panifici in fase di sovrapproduzione, quando le carestie sono catastrofi spontanee della società e non certo della natura. Ovvero: il concetto di “prossimo” si riferisce a gruppi in cui ci si conosce faccia a faccia. L’aiutare il prossimo, per quanto resti ancora un compito urgente nel mondo devastato da quelle catastrofi spontanee della società, è tuttavia d’importanza trascurabile di fronte alla possibilità di una trasformazione del mondo, che porrebbe finalmente un freno alle catastrofi sociali. Ma se si liquidassero come irrilevanti parole come quelle del Vangelo, e si presumesse di conservare le dottrine rivelate e tuttavia di enunciarle così come sono da intendere hic et nunc, si incorrerebbe in un’alternativa problematica. O si dovrebbe cioè adattarle al mutare dei tempi, il che sarebbe incompatibile con l’autorità della rivelazione. Oppure si presenterebbe la realtà attuale con pretese che sono inattuabili o che non arrivano più al suo nucleo essenziale: la reale sofferenza degli uomini. Ma se, invece, si prescindesse nel modo più assoluto da tutte quelle determinazioni concrete, socialmente e storicamente mediate, della religione rivelata, e si obbedisse alla lettera al detto di Kierkegaard, che il cristianesimo non è altro che un NB, il Nota Bene, cioè che un tempo Dio si era fatto uomo, senza che quel momento in quanto tale, cioè in quanto appunto concretamente storico, entrasse nella coscienza, allora la religione della rivelazione si dissolverebbe, in nome di una paradossale purezza, nel completamente indeterminato, in un nulla che non si potrebbe distinguere dalla sua liquidazione. Ciò che fosse più di questo nulla, condurrebbe subito all’insolubile, e l’insolubilità stessa sarebbe un semplice trucco della coscienza ingabbiata, il naufragare dell’uomo finito come categoria religiosa da trasfigurare, mentre tale insolubilità testimonia dell’impotenza attuale delle categorie religiose. Non vedo perciò alcun’altra possibilità che l’ascetismo supremo, di contro a qualsiasi credenza nella rivelazione; che la fedeltà suprema al divieto di immagini, in senso molto più lato di quel che esso ha significato in momenti particolari del corso storico.

Titolo originale: Vernunft und Offenbarung. Tesi per la conversazione con Eugen Kogon a Münster, Deutschlandfunk (Radio tedesca), 20 novembre 1957; in “Frankfurter Hefte”, anno XIII, n. 6, giugno 1958, p. 397 e sgg.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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