Theodor Adorno, parola chiave: Progresso
A Josef König
Una precisazione teoretica sulla categoria del progresso richiede che la si consideri tanto da vicino, che essa finisce col perdere l’illusoria apparenza dell’autointelligibilità inerente al suo uso tanto positivo che negativo. Ma tale vicinanza rende nel contempo più difficile la precisazione. Più ancora di altri, il concetto di progresso si dissolve con la specificazione di ciò che ora propriamente s’intende per esso, per esempio con la specificazione di che cosa progredisce e di che cosa non progredisce. Chi vuole precisare il concetto, però, è facile che distrugga ciò a cui mira. Così quella saggezza di second’ordine che si rifiuta di parlare di progresso prima di essere riuscita a distinguere tra progresso in che cosa, verso che cosa, in relazione a che cosa, trasforma l’unità dei momenti, che nel concetto di progresso si esauriscono l’uno nell’altro, in mera giustapposizione di essi. Una teoria della conoscenza che pretenda di aver sempre ragione, che insista sull’esattezza, laddove l’impossibilità dell’univocità è inerente alla cosa stessa, perde di mira quest’ultima, sabota l’intellezione evidente [Einsicht], e si pone al servizio della conservazione del male, mediante il sollecito divieto di riflettere su ciò che nell’era delle possibilità utopistiche e assolutamente distruttive la coscienza degli individui irretiti potrebbe esperire: se cioè ci sia progresso. Come ogni termine filosofico, anche quello di progresso ha in sé le sue brave ambiguità semantiche; come in qualsiasi termine filosofico, queste indicano però anche la presenza di un qualcosa di comune alle varie accezioni. Ciò che in questo momento si può concepire sotto a concetto di progresso, lo si sa vagamente, ma precisamente per tale motivo non si riesce a usare quel concetto in modo abbastanza approssimato e generale quanto sarebbe opportuno. La pedanteria tipica del suo uso corrente ci defrauda semplicemente di ciò che quel concetto promette, della risposta cioè al dubbio e alla speranza che le cose vadano finalmente in modo migliore, e che gli uomini possano una buona volta respirare più liberamente. Non si può dire con precisione che cosa essa dovrà rappresentarsi sotto il concetto di progresso, proprio per questo motivo: perché la miseria della situazione attuale consiste nel fatto che ognuno percepisce tale miseria, mentre manca la parola risolutrice. Sono vere soltanto quelle riflessioni sul progresso che si immergono in esso, e tuttavia mantengono una certa distanza, che recedono dai fatti paralizzanti e dai significati particolari. Oggi tali riflessioni si orientano verso la meditazione sul problema se l’umanità possa impedire la catastrofe. Ne va della vita delle forme della costituzione sociale globale dell’umanità, ammesso che non si formi e non intervenga un soggetto collettivo cosciente di sé. La possibilità del progresso in ciò soltanto è trapassata: nella possibilità dell’allontanamento della rovina suprema, totale. Ogni altra cosa che si possa intendere nel concetto di progresso dovrebbe cristallizzarsi intorno a essa. La penuria fisica, che a lungo sembrò beffarsi del progresso, è potenzialmente rimossa: dato lo stadio attuale delle forze produttive tecniche, nessuno sulla terra dovrebbe più mancare del necessario. Se ci sarà di nuovo penuria e oppressione — le due cose fanno tutt’uno –, oppure no, questo lo potrà decidere soltanto l’esito del tentativo di evitare la catastrofe mediante una fondazione razionale della società globale in quanto umanità. L’abbozzo kantiano di una teoria del progresso era appunto ancorato all’“idea dell’uomo” :
Poiché solo nella società, e precisamente in quella società in cui si attui, da un lato, la massima libertà congiunta con un generale antagonismo dei suoi membri e, dall’altro, la più rigorosa determinazione e sicurezza dei limiti di tale libertà affinché essa possa coesistere con la libertà degli altri: poiché, ripeto, solo in una società siffatta il supremo fine della natura, cioè lo sviluppo di tutte le facoltà, può essere nell’umanità raggiunto, la natura vuole ancora che l’umanità debba attuare da se stessa così questi come tutti gli altri fini della sua destinazione. Perciò una società, in cui la libertà sotto leggi esterne vada congiunta nel più alto grado possibile con un potere irresistibile, cioè una costituzione civile perfettamente giusta, è il compito supremo della natura nei riguardi della specie umana; poiché solo assolvendo e attuando tale compito la natura può raggiungere tutti gli altri suoi fini nei riguardi della nostra specie.
Il concetto di storia in cui potrebbe trovar posto il progresso è enfatico, quello di Kant è universale o cosmopolitico, non si riferisce cioè a delle sfere di vita particolari. Tuttavia il fatto che il progresso si riferisca [Angewiesenheit] alla totalità, gli volge contro il pungolo del dubbio. La coscienza di ciò anima la polemica di Benjamin contro l’associazione di progresso e umanità, che si trova nelle sue tesi sul concetto di storia, riflessioni invero tra le più importanti che siano state fatte per la critica dell’idea di progresso da parte di coloro che, in termini rozzamente politici, vengono annoverati tra i progressisti. “Il progresso, come si configurò nelle teste dei socialdemocratici, era, un tempo, un progresso della stessa umanità (non solo delle sue abilità e conoscenze)”. Ma quanto meno l’umanità telle quelle progredisce in conformità alla reclamizzata ricetta del sempre e sempre meglio, tanto meno esiste però un’idea di progresso senza quella di umanità; il senso del passo di Benjamin dovrebbe dunque essere piuttosto l’accusa che i socialdemocratici confondono il progresso delle abilità e delle conoscenze con quello dell’umanità, in quanto Benjamin avrebbe voluto eliminare quest’ultimo dalla riflessione filosofica. In Benjamin esso trova tuttavia giustizia nella teoria che l’idea della felicità delle generazioni non ancora nate — senza la quale non si può parlare di progresso — porta inevitabilmente in sé quella della salvazione. Con ciò viene confermata l’opinione che il progresso si concentri nel fine della sopravvivenza della specie: ma in tal modo non si può insinuare che esiste il progresso, come se l’umanità in generale esistesse già, e potesse perciò progredire. Anzi, il progresso sarebbe piuttosto solo la sua restaurazione, la prospettiva della quale si apre davanti all’estinzione dell’umanità. Ne segue, come insegna ancora Benjamin, che il concetto di storia universale non può essere salvato; esso è evidente solo finché e per quel tanto che ci si può fidare dell’illusione di un’umanità già esistente, in accordo con se stessa e uniforme, che si muove verso l’alto. L’umanità resta invece catturata dalla totalità che essa stessa costituisce, e così — come dice Kafka — non si è ancora verificato un progresso, mentre invece l’autentica totalità permette di pensarlo. Ciò si può spiegare nel modo più semplice ricorrendo alla definizione dell’umanità come di ciò che non esclude assolutamente nulla. Se essa infatti diventasse una totalità che non comprenda più in sé alcun principio limitante, sarebbe nel contempo esente dalla coazione che sottomette tutti i suoi membri a un tale tipo di principi, e quindi non sarebbe più totalità intesa come unità ottenuta coercitivamente con la forza. Il passo dell’Inno alla gioia di Schiller: “E chi non ne è mai stato capace, piangendo, furtivamente esce da quest’alleanza”, che in nome dell’amore universale mette al bando chi non l’ha conseguito, confessa senza volerlo la verità sul concetto borghese, e nello stesso tempo totalitario e particolaristico di umanità. Ciò che in quel verso accade al non amato o all’incapace di amore in nome dell’idea, di fatto smaschera quest’ultima, non diversamente dalla forza affermativa con cui la musica di Beethoven scolpisce l’idea; non è un caso che la poesia, con l’espressione “uscire furtivamente”, nell’umiliazione dell’infelice, al quale quindi la gioia viene ancora una volta negata, richiami associazioni dalla sfera della proprietà e da quella criminologica. L’antagonismo perdurante inerisce al concetto esclusivistico di totalità, come accade nei sistemi politicamente totalitari; analogamente le malvagie feste mistiche delle favole vengono definite attraverso coloro che non sono invitati. Solo se il principio limitante della totalità, foss’anche semplicemente l’imperativo di identificarsi con la totalità stessa, si dissolvesse, potrebbe esistere l’umanità, e non la sua parvenza illusoria. Storicamente la concezione dell’umanità era già implicita nel teorema della media Stoà dello stato universale che, per lo meno oggettivamente, è equivalente al progresso, per quanto estranea l’idea di progresso possa essere stata in passato all’antichità precristiana. Il fatto che quel teorema stoico si sia adattato subito alla fondazione delle aspirazioni imperiali di Roma, rivela qualcosa di simile a ciò che accadde al concetto di progresso in seguito alla sua identificazione con l’aumento delle “abilità e conoscenze”. L’umanità esistente viene surrettiziamente sostituita a quella ancora non nata, la storia diviene senza mediazioni storia della salvazione. Questo fu il prototipo della rappresentazione del progresso fino a Hegel e Marx. Nella Civitas Dei di Agostino essa è connessa alla redenzione per opera di Cristo, in quanto storicamente riuscita; per Agostino può essere tematizzata solo un’umanità già redenta, che si muove, dopo aver deciso in virtù della grazia che ha ricevuto, nel continuum del tempo verso il regno dei cieli. Fu forse sventura della, successiva riflessione sul progresso che essa mutuasse da Agostino la teleologia immanente e la concezione dell’umanità come del soggetto di ogni progresso, mentre la soteriologia cristiana si estingueva nella speculazione storico-filosofica. In tal modo l’idea di progresso è stata assorbita nella civitas terrena, la sua antagonista agostiniana. Essa progredirà, anche nel pensiero dualistico di Kant, in virtù del proprio principio, della propria “natura”. Ma in tale rischiaramento, che in generale innanzitutto pone il progresso dell’umanità nelle mani di quest’ultima, e quindi concretizza l’idea di progresso come realizzabile, sta in agguato il pericolo della conferma conformistica di ciò che è semplicemente esistente. Esso riceve l’aura della salvazione, perché questa non si è avverata, e il male ha continuato a sussistere indiminuito. Quella modificazione immensamente importante del concetto di progresso era inevitabile. Come l’enfatica pretesa della redenzione riuscita fu contestata dalla storia postcristiana, così già nel teologema agostiniano di un movimento immanente della specie verso lo stato di beatitudine, si trovava capovolto il motivo di una irresistibile secolarizzazione. La temporalità del progresso stesso, il suo semplice concetto, lo connette con il mondo empirico; senza tale temporalità l’empietà del corso del mondo sarebbe più che mai eternizzata nel pensiero, la creazione stessa diventerebbe l’opera di un demone gnostico. In Agostino si può intravvedere la costellazione interna delle idee di progresso, di salvazione e di processo storico immanente, che non possono peraltro risolversi l’una nell’altra, se non si vogliono annullare a vicenda. Se il progresso viene identificato con la redenzione come con l’intervento simpliciter trascendente, esso perde, con la dimensione temporale, ogni significato intelligibile, e si dissolve nell’astoricità della teologia. Ma se esso viene mediatizzato invece nella storia, c’è il pericolo della deificazione di quest’ultima, e, nella riflessione del concetto come nella realtà, si cela la minacciosa contraddizione che pretende che il progresso sia proprio ciò che lo inibisce. Le costruzioni ausiliarie di un concetto di progresso immanente-trascendente si condannano da sé già per la loro terminologia. La grandezza della teoria agostiniana era tipica di ciò che viene formulato per la “prima volta”. Essa ha in sé tutti gli abissi dell’idea di progresso, che ha cercato di superare teoreticamente. La struttura della sua dottrina conduce all’enunciazione priva di attenuanti del carattere antinomico del progresso. In Agostino c’è già ciò che riapparirà nella filosofia secolare della storia da Kant in poi, cioè l’antagonismo, al centro di quel movimento storico che, in quanto indirizzato al conseguimento del regno dei cieli, sarebbe il progresso; per lui è la lotta tra il terreno e il celeste. Ogni riflessione sul progresso fatta da allora in poi, ha ricevuto il suo centro di gravità nel gravame imposto dalla rovina storica crescente. Mentre la redenzione in Agostino costituisce il telos della storia, questa non sfocia immediatamente in quella, né quella è totalmente non mediata in questa. La redenzione è calata nella storia in virtù del piano universale divino, e le è contrapposta in seguito al peccato di Adamo. Agostino ha riconosciuto che redenzione e storia non possono esistere l’una senza l’altra, né sono reciprocamente immanenti, ma si trovano invece in una tensione reciproca la cui energia ingorgata vuole in definitiva l’annullamento del mondo storico stesso. Tuttavia, nell’epoca della catastrofe del pensiero, c’è ancora da riflettere non poco sul progresso in generale. Il progresso dev’essere tanto poco antologizzato, assegnato all’esame irriflesso, quanto la decadenza, il privilegiamento della quale è ciò che, in verità, mostra di piacere maggiormente ai filosofi moderni. Troppo poco è il bene che ha la capacità di affermarsi nel mondo, perché se ne debba enunciare il progresso in un giudizio predicativo, ma nessun bene né traccia di bene è senza il progresso. Se, in conformità con quanto sostiene una dottrina mistica, gli eventi interni al mondo, fino alla più insignificante azione od omissione, devono essere gravidi di conseguenze per la vita dell’assoluto stesso, allora una cosa del genere è senz’altro vera anche per il progresso. Ogni singola tendenza particolare, nel contesto dell’accecamento, è tuttavia rilevante per il suo possibile esito. È bene ciò che si libera dalle catene, ciò che trova un linguaggio, ciò che apre gli occhi. In quanto ciò che si svincola è intimamente connesso allo storia, la quale, se non si orienta univocamente verso l’alto, in direzione della salvazione, nel progredire del suo movimento ne lascia però balenare la possibilità.
I momenti in cui ha vita il concetto di progresso sono, secondo l’uso tradizionale, in parte filosofici, in parte sociali. Senza società la sua rappresentazione sarebbe del tutto vuota; tutti i suoi elementi sono attinti da essa. Se la società non fosse passata dall’orda dedita alla raccolta di frutti o alla caccia, all’agricoltura, dalla schiavitù alla libertà formale del soggetto, dalla paura dei demoni alla ragione, dalla penuria alla difesa da epidemie e carestie e al miglioramento delle condizioni generali di vita; se si cercasse dunque di conservare puramente, more philosophico l’idea di progresso, di liberarla per esempio dalla condizione della temporalità, allora essa non avrebbe più alcun contenuto. Ma una volta che il significato di un concetto obblighi al passaggio nella fatticità, non si può imporre arbitrariamente a quest’ultimo di arrestarsi. L’idea stessa di salvazione, il telos trascendente, rispetto al finito, di ogni progresso, non si può disgiungere dall’immanente processo del rischiaramento che elimina la paura, ed erigendo l’uomo come risposta agli interrogativi degli uomini, conquista il concetto di umanità, che solo si eleva al di sopra dell’immanenza del mondo. Tuttavia il progresso non è riducibile alla società, non è identico a essa; così com’è, la società è a volte il contrario del progresso. La filosofia, fintantoché servì a qualcosa, fu generalmente anche, nello stesso tempo, teoria della società; solo che, da quando si è arresa incondizionatamente al potere sociale, deve distinguersi dalla società, affermandosi come tale; la purezza in cui è ricaduta è dunque la cattiva coscienza [Gewissen] della sua impurità, la quale consiste nella complicità col mondo. Il concetto di progresso è filosofico in quanto, mentre articola il movimento sociale, in pari tempo lo contraddice. Avendo nella società la propria origine, esso richiede un confronto critico con la società reale. Il momento della salvazione, per quanto secolarizzato, è ineliminabile in esso. Il fatto però che non si possa ridurre né alla fatticità né all’idea, ne indica il carattere contraddittorio. Poiché il momento del rischiaramento, che sfocia nella riconciliazione con la natura, mitigando il terrore della natura, è strettamente congiunto al momento del dominio sulla natura. Il modello del progresso –e il progresso verrebbe in tal modo dislocato nella divinità — è il controllo della natura extra e intra umana. La repressione che viene esercitata mediante tale controllo, e che ha la sua suprema forma spirituale di riflessione nel principio di identità della ragione, riproduce l’antagonismo. Quanto più l’identità viene posta dallo spirito sovrano, tanto più viene fatta ingiustizia al non identico. L’ingiustizia trapassa poi nella resistenza che il non identico oppone. Lo spirito sovrano, per reazione, di nuovo rafforza il principio repressivo, mentre nel contempo ciò che è represso si trascina ancora una volta avvelenato. Tutto progredisce nella totalità, solo che finora la totalità non è mai esistita. Il goethiano “Ed ogni incalzare, ogni lottare/è eterna pace in Dio Signore”, codifica l’esperienza di ciò, e la dottrina hegeliana del processo dello spirito del mondo, della dinamica assoluta, intesa come un processo che ritorna su se stesso, ovvero addirittura del suo gioco con se stesso, è oltremodo vicina alla sentenza goethiana. Ci sarebbe da aggiungere soltanto un Nota Bene al risultato della sua intuizione: quella totalità non progredisce, nonostante il suo movimento, perché non conosce null’altro al di fuori di sé, perché non è l’assoluto divino, bensì il suo contrario reso irriconoscibile dal pensiero. Kant non si è rassegnato a quest’inganno, né ha assolutizzato la frattura. Egli insegna, nel passo più sublime della sua filosofia della storia, che l’antagonismo, l’irretimento del progresso nel mito, nel pregiudizio ingenuo del dominio sulla natura, in breve, nel regno della non libertà, tende, in virtù della sua legge, al regno della libertà in seguito — da ciò è derivata l’astuzia della ragione di Hegel — e questo esprime dunque proprio le condizioni di possibilità della conciliazione dell’antinomia caratteristica di quell’irretimento, che nella libertà costituisce il momento della non libertà. La teoria di Kant si trova in un punto culminante del passo in questione. Essa concepisce l’idea di quella conciliazione come immanente allo “sviluppo” antagonistico, deducendola da un obiettivo che la natura ha nei riguardi dell’uomo. D’altra parte la rigidità dogmatico-razionalistica con la quale viene attribuito un simile obiettivo alla natura — come se quest’ultima non fosse essa stessa compresa nello sviluppo e non ne modificasse quindi il concetto –, è la riproduzione di quella violenza che lo spirito che pone l’identità fa alla natura. La statica del concetto di natura è funzione del concetto dinamico di ragione; quanto più questo si disgiunge dal non identico, tanto più la natura diventa un residuale caput mortuum, e questo appunto le rende agevole il far sfoggio delle qualità di eternità, che santificano il suo scopo. Lo “scopo” non lo si può affatto concepire in altro modo che in quanto la ragione venga attribuita alla natura stessa. Anche nell’uso metafisico che Kant fa, in quel passo, del concetto di natura e che lo avvicina alla trascendente cosa in sé, la natura rimane un prodotto dello spirito, esattamente come nella Critica della ragion pura. Se lo spirito ha sottomesso la natura, eguagliandosi secondo il programma di Bacone in tutti i suoi stadi a essa, allora nella teoria kantiana esso ha di nuovo riproiettato se stesso sulla natura, in quanto questa dev’essere l’assoluto e non il meramente costituito, in favore di una possibilità di riconciliazione, in cui tuttavia nulla viene sminuito dal primato del soggetto. Nel punto in cui Kant più si avvicina al concetto della riconciliazione, nel pensiero cioè che l’antagonismo termina nel suo annullamento, si trova l’allusione a una società, nella quale la libertà è “legata con forza irresistibile”. Ma persino il discorso della forza ricorda la dialettica del progresso stessa. Se è vero che la repressione continua ha sempre, nello stesso tempo, anche arrestato il progresso che ha scatenato, d’altro lato essa, in quanto ha provocato l’emancipazione della coscienza, ha in generale permesso di riconoscere proprio l’antagonismo e la totalità dell’accecamento mistificante, e tale presa di coscienza è la premessa per conciliarlo. Il progresso che il sempre uguale ha generato, è un progresso tale che in sostanza può cominciare in ogni momento. Se l’immagine dell’umanità progrediente ricorda quella di un gigante che si mette lentamente in moto dopo un sonno durato un tempo immemorabile, e poi si avventa e calpesta tutto ciò che gli capita sul cammino, tuttavia questo suo rozzo svegliarsi è l’unico potenziale di emancipazione; in tal modo l’irretimento nel pregiudizio naturalistico, nel quale il progresso stesso s’inquadra, non ha l’ultima parola. Nelle antiche epoche del mondo la questione del progresso non ebbe alcun senso. Si pose solo da quando divenne libera quella dinamica da cui poteva essere estrapolata l’idea di libertà. Se il progresso che da Agostino in poi coincide con la trasposizione alla specie del corso natura le della vita degli individui, teso tra la nascita e la morte, è mitico come la rappresentazione del percorso che il comando del fato prescrive ai corpi celesti, l’idea di progresso è senz’altro altrettanto antimitologica per eccellenza, perché infrange il corso circolare al quale appartiene.
Progresso significa liberarsi dai ceppi del potere magico e tirannico, anche da quelli del progresso, il quale è esso stesso anche natura, in quanto l’umanità si renda conto della propria naturalità, e ponga un freno al dominio che essa esercita sulla natura e attraverso il quale si perpetua quello della natura. Si potrebbe dunque asserire che il progresso si attua veramente proprio là dove finisce.
Quest’immagine del progresso è racchiusa in modo cifrato in un concetto che oggi tutte le fazioni diffamano all’unanimità: quello di decadenza. Gli artisti dello stile liberty invece dichiaravano di credere a essa. Questo non ha certamente la sua ragione solo nel fatto che essi vollero esprimere la loro particolare situazione storica, che sembrava loro per molti rispetti quella di una morbosità biologica. Nel desiderio di eternarla nell’immagine, era vivo il sentimento ed essi concordavano in ciò profondamente con i filosofi del vitalismo che, in ciò che sembrava in loro profetizzare la loro personale rovina e quella del mondo, veniva salvata la verità. È difficile che qualcuno abbia espresso questo fatto in modo più conciso ed efficace di Peter Altenberg:
Maltrattamento di cavalli. Finirà che i passanti saranno così irritabilmente decadenti, che, non più padroni di sé, desidereranno commettere in tali casi un furibondo e fanatico delitto, e uccideranno a rivoltellate l’abiettamente vigliacco vetturino; il non poter più tollerare la vista del maltrattamento dei cavalli, è l’atto dell’uomo del futuro, decadente e debole di nervi! Finora essi hanno ancora avuto appunto la meschina forza di non occuparsi di simili faccende altrui.
Così Nietzsche, che pure condannava la compassione, crollò a Torino, quando vide come un vetturino percuoteva il suo cavallo. La decadenza era il miraggio di quel progresso che non è ancora incominciato. L’ideale, sia pure limitato, ottuso e volutamente rigido e caparbio, della perfetta distanza dallo scopo, che rinnega la vita, era l’immagine rovesciata della falsa funzionalità dell’attività tipica di un’azienda, in cui ogni cosa è ordinata in vista di ogni altra cosa. L’irrazionalismo della decadenza denunciò l’irrazionalità della ragione dominante. La felicità scissa, arbitraria, privilegiata, è per esso sacra, perché essa soltanto garantisce l’evasione, mentre ogni rappresentazione immediata della felicità del tutto, secondo la corrente formula liberalistica della più grande felicità possibile per il più gran numero di persone, la mercanteggia nell’apparato autoconservatore, nel nemico giurato della felicità, anche quando questa è proclamata come scopo. Da tale spirito incomincia a spuntare in Altenberg il sospetto che l’estrema individuazione costituisca il temporaneo baluardo dell’umanità:
Poiché in quanto una individualità ha… una giustificazione secondo una qualunque direzione, essa non può essere nient’altro che un primo, un precursore in qualunque sviluppo organico dell’umano in generale, che però si trova sul cammino conforme a natura del possibile sviluppo di tutti gli uomini! Essere l’“unico” è privo di valore, è un meschino gioco del destino con un individuo. Essere il “primo” è tutto!… egli sa che l’intera umanità viene dietro di lui! Davanti a lui sta soltanto Dio!… Tutti gli uomini saranno un giorno gentilissimi, tutti pieni di tenerezza e di amore… La vera individualità è soltanto l’essere in anticipo ciò che in seguito tutti, tutti devono diventare!
Solo che attraverso questo estremo di differenziazione, attraverso l’individuazione, non si può pensare l’umanità come concetto superiore estensionalmente più comprensivo.
Il divieto che la teoria dialettica di Hegel, come pure di Marx, decretò contro l’utopia immaginata come un bel quadro, intuisce in essa il tradimento. La decadenza è il punto nevralgico in cui la dialettica del progresso viene per così dire posseduta corporeamente dalla coscienza. Chi impreca contro la decadenza è immancabilmente in rapporto col punto di vista del tabù sessuale, di cui il rituale antinomico della decadenza effettua la violazione. Nell’insistenza su quel tabù, in favore dell’unità dell’Io padrone della natura, riecheggia la voce del progresso accecato, irriflesso. Tale progresso può però essere convinto della propria irrazionalità, perché ogni volta strega, trasformandoli negli scopi che poi si preclude, i mezzi di cui si serve. Tuttavia, in verità, la contrapposizione della decadenza rimane astratta, e questo, non da ultimo, le ha arrecato la maledizione del ridicolo. La decadenza confonde la particolarità della felicità, in cui inevitabilmente si irrigidisce, direttamente con l’utopia, con l’umanità realizzata, mentre essa stessa viene deformata dalla non libertà, dal privilegio, dal dominio di classe, che essa riconosce, è vero, ma glorifica. La disposizione erotica scatenata in conformità con l’ideale della decadenza, sarebbe nel contempo schiavitù perpetuata, come nella furia selvaggia di Salomè.
La tendenza a infrangere le catene, tipica del progresso, non è solo semplicemente l’altra faccia del movimento del progrediente dominio sulla natura, la sua negazione astratta, bensì esige anche l’estrinsecazione e il dispiegamento della ragione attraverso lo stesso dominio sulla natura. Soltanto la ragione, il principio voltasi nel soggetto del dominio sociale, potrebbe essere capace di annullare quest’ultimo. La possibilità di liberarsi dai vincoli viene fatta maturare dalla pressione della negatività. D’altra parte la ragione che vorrebbe estraniarsi dalla natura, imprime la negatività soltanto a ciò che ha da temere. Il concetto di progresso è dialettico, nel senso rigorosamente non metaforico del termine, in ciò: che il suo organo, la ragione, è unità; che nella ragione non sono giustapposti uno strato che domina sulla natura e uno che si concilia con essa, bensì entrambi ne condividono le determinazioni. Il momento unitario si capovolge nel suo contrario, soltanto perché letteralmente si riflette, perché la ragione si applica alla ragione, e nella sua auto limitazione si emancipa dal demone dell’identità. La grandezza incomparabile di Kant si è comprovata non da ultimo nel fatto che egli incorruttibilmente tenne ferma l’unità della ragione anche nel suo uso antinomico, in quello cioè, dominante sulla natura, della ragione secondo le sue parole teoretica e meccanicistico-causale, e in quello, conciliantemente adattantesi alla natura, della facoltà del giudizio; e nel fatto che traspose il momento diversificante della ragione esattamente nell’auto delimitazione della ragione dominante sulla natura. Una interpretazione metafisica di Kant non dovrebbe imputargli alcuna ontologia latente, bensì dovrebbe leggere la struttura di tutto il suo pensiero come una dialettica del rischiaramento, che il dialettico per eccellenza, Hegel, non scorge, perché egli ne annulla i limiti nella coscienza della ragione unitaria, e cade quindi nella mitica totalità, che egli ritiene “conciliata” nell’idea assoluta. Il progresso non definisce soltanto, come accade nella filosofia della storia hegeliana, l’estensione del dominio della dialettica, ma è dialettico nel proprio concetto, al pari delle categorie della Scienza della logica. Il dominio assoluto sulla natura coincide con l’assoluta decadenza e dissoluzione della natura, ma viene abbattuto dall’autocoscienza, il mito che lo demitologizza. L’opposizione fatta dal soggetto, però, non potrebbe più essere teoretica né contemplativa. La rappresentazione del potere della ragion pura come di un ente in sé, separato dalla prassi, sottomette anche il soggetto, lo riduce a strumento rispetto a scopi. La costruttiva autoriflessione della ragione, tuttavia, dovrebbe costituire la sua transizione alla prassi: la ragione si intuirebbe allora come un momento della prassi; saprebbe, invece di disconoscersi come l’assoluto, che essa è una modalità di azione. Il carattere antimitologico del progresso non si può pensare senza l’atto pratico che imbriglia l’illusione dell’autarchia dello spirito. Perciò il progresso non è cosa che si possa determinare con una considerazione disinteressata.
Coloro che fin dall’antichità, e con sempre nuove parole, vogliono proprio questo: che non ci sia progresso, trovano in ciò il pretesto più pericoloso. Tale pretesto vive del sillogismo fallace secondo il quale, poiché nessun progresso finora si è avverato, nessun progresso di conseguenza sarà possibile in futuro. Esso presenta il ritorno desolato dell’identico come messaggio dell’essere che dovrebbe essere appreso e rispettato, mentre invece l’essere stesso, al quale quel messaggio viene attribuito, è un criptogramma del mito, il liberarsi dal quale costituirebbe un frammento di libertà. Nella traduzione della disperazione storica nella norma cui si deve obbedire, riecheggia quell’esecrabile apparato concettuale della dottrina teologica del peccato originale, secondo il quale la corruzione della natura umana legittima il potere, il male radicale. Questa concezione ha una parola d’ordine, con la quale oscurantisticamente mette al bando l’idea del progresso nell’epoca moderna: fede nel progresso. L’habitus mentale di coloro che criticano in modo piattamente positivistico il concetto di progresso, è per lo più esso stesso positivistico. Essi spiegano il corso del mondo, che sempre di nuovo ha annullato il progresso, qualunque esso fosse, con questa istanza: che il piano universale non ammette il progresso, e che chi non desiste da quest’ultimo, commette un delittuoso peccato. Con profondo senso di sicurezza di sé ci si mette, autolegittimandosi, dalla parte del temibile, l’idea di progresso viene calunniata secondo lo schema che ciò che non è riuscito agli uomini, è loro negato ontologicamente; in nome della loro finitezza e mortalità essi avrebbero il dovere di fare di queste due cose il contenuto [Sache] delle proprie convinzioni. Si potrebbe disincantatamente replicare a tale falso timore reverenziale, che è vero che il progresso, dalla fionda alla bomba atomica, non è che una risata satanica, ma che soltanto nell’epoca della bomba è possibile mirare a una condizione in cui la violenza scompaia completamente. Tuttavia una teoria del progresso deve assorbire ciò che c’è di valido nelle invettive scagliate contro la fede nel progresso, come antidoto alla mitologia di cui è malata. Infine converrebbe a una teoria del progresso che sia autenticamente all’altezza di se stessa, contestare che ci sia un progresso piattamente orizzontale, superficiale, solo perché il sarcasmo su quest’ultimo appartiene alla miniera inesauribile dell’ideologia. In verità è meno superficiale, malgrado Condorcet, la molto criticata idea di progresso del diciottesimo secolo; in Rousseau la teoria della perfettibilità radicale viene connessa con quella della corruzione radicale della natura umana che non quella del secolo diciannovesimo. Finché la classe borghese fu oppressa, perlomeno nelle forme politiche, essa si oppose con la parola d’ordine “progresso” alla situazione stazionaria dominante; il suo pathos era l’eco di ciò. Solo quando la classe borghese ebbe occupate le posizioni di potere determinanti, il concetto di progresso decadde nell’ideologia, la cui acutezza ideologica accusò poi il diciottesimo secolo. Il diciannovesimo urtò nei limiti della società borghese; essa non poteva realizzare la propria ragione, il proprio ideale di libertà, giustizia e immediatezza umana, senza che il suo ordinamento fosse stato eliminato. Questo la costrinse ad accreditarsi, mentendo, come se fosse stato da lei compiuto, ciò che invece non era riuscita ad attuare. La menzogna che in seguito i borghesi colti rimproverarono alla fede nel progresso dei borghesi incolti o dei capi riformisti dei lavoratori, era espressione dell’apologetica borghese. In verità la borghesia rinuncio ben presto a quell’ideologia, allorché con l’imperialismo calarono le ombre, e ricorse all’ideologia disperata di trasformare, mistificandola, la negatività, che la fede nel progresso poneva in questione e liquidava, in un sostanziale metafisico.
Chi, con falsa umiltà, soddisfatto della propria intuizione, si stropiccia le mani al ricordo del naufragio del Titanic, perché l’iceberg avrebbe inferto il primo colpo all’idea del progresso, dimentica od omette il fatto che questa sciagura, quanto al resto per nulla fatale, ha fatto sì che si prendessero quei provvedimenti che poi hanno prevenuto impreviste catastrofi naturali della navigazione nel successivo mezzo secolo. Un elemento della dialettica del progresso è appunto costituito dal fatto che gli insuccessi storici che vengono provocati anche dal principio del progresso — che cosa potrebbe essere più progressista della contesa per il nastro azzurro? — pongono anche le condizioni perché l’umanità trovi i mezzi per evitarli in futuro. Il contesto di accecamento del progresso rimanda al di là di se stesso, al suo superamento. Esso è in rapporto con quell’ordinamento in cui soltanto la categoria del progresso potrebbe conquistare il proprio diritto, per questo fatto: che le devastazioni che il progresso determina, eventualmente sono di nuovo da riparare con le forze proprie del progresso, ma mai mediante la restaurazione delle precedenti condizioni, che ne sono diventate la vittima. Il progresso del dominio sulla natura, che, secondo l’immagine di Walter Benjamin, corre in senso contrario a quel progresso vero che ha il suo telos nella salvazione, non è tuttavia privo di ogni speranza. Non solo nell’allontanamento dell’estrema rovina, ma piuttosto anche in ogni forma attuale di mitigazione della sofferenza universalmente perdurante, i due concetti di progresso comunicano tra loro.
La credenza nell’interiorità crede di essere il correttivo della credenza nel progresso. Ma la credenza nell’interiorità non garantisce il progresso, né la possibilità di miglioramento degli uomini. Già in Agostino la rappresentazione del progresso egli non avrebbe ancora potuto usare, tuttavia, questo termine è tanto ambivalente quanto prescrive il dogma della redenzione riuscita nei riguardi del mondo irredento. Da un lato esso è storico, secondo le sei età del mondo che corrispondono alla periodizzazione della vita umana; dall’altro non è di questo mondo, è interiore, è secondo le stesse parole di Agostino mistico. La civitas terrena e la civitas Dei sono regni invisibili, e nessuno può dire quale dei viventi appartenga a questo o a quello; di ciò decide la misteriosa predestinazione, quella stessa imperscrutabile volontà divina che muove secondo un piano la storia. Già in Agostino, tuttavia, l’interiorizzazione del progresso permette, secondo Karl Heinz Haag, di assegnare il mondo alle potenze, e quindi, analogamente a quanto farà poi Lutero, di raccomandare il cristianesimo come adatto alla conservazione dello stato esistente. La trascendenza platonica, che in Agostino viene fusa con l’idea cristiana della storia della redenzione, permette di cedere il mondo terreno al principio contro il quale il progresso è concepito, e di consentire che solo nel giorno del giudizio universale, malgrado ogni filosofia della storia, si verifichi, all’improvviso, la restaurazione dell’universo creato nello stato di non sconvolgimento. Questa caratteristica ideologica dell’interiorizzazione del progresso è rimasta fino ad oggi occultata. Nei suoi confronti la stessa interiorità in quanto prodotto storico, è funzione del progresso o del suo contrario. La determinazione [Beschaffenheit] dell’essere degli uomini costituisce solo un momento nel progresso intramondano; oggi certamente non quello primario. L’argomentazione secondo la quale non esiste alcun progresso, perché nessun progresso si verifica nell’interiorità, è falsa, perché si immagina la società, nel suo processo storico, come una società immediatamente umana, che ha la sua legge in ciò che gli uomini stessi sono. Ma costituisce l’essenza dell’obiettività storica l’ammettere che ciò che è creato dagli uomini, le istituzioni nel senso più lato, si rendano indipendenti da loro e diventino una seconda natura. Quell’argomentazione fallace consente poi di formulare la tesi ora trasfigurata ed esaltata, ora deplorata della costanza della natura umana. Il progresso intramondano ha il suo momento mitico nel fatto che esso, come riconobbero Hegel e Marx, si verifica al di sopra delle teste dei soggetti, e le plasma a sua immagine; ma è assurdo contestare il progresso soltanto perché esso non riesce affatto a venire a capo dei suoi oggetti, i soggetti. Per arrestare ciò che Schopenhauer chiama la ruota che rivolge se stessa, ci sarebbe bisogno in verità di quel potenziale umano che non viene affatto assorbito dalla necessità del movimento storico. Il fatto che l’idea di un progresso che conduca al superamento sia oggi bloccata, dipende dalla circostanza che i momenti soggettivi della spontaneità nel processo storico incominciano ad atrofizzarsi. Il contrapporre disperatamente all’onnipotenza sociale un concetto isolato, presuntivamente ontologico, del soggettivamente spontaneo, come fanno gli esistenzialisti francesi, è, anche come espressione della disperazione, troppo ottimistico; la spontaneità, che facilmente muta configurazione, non la si può immaginare al di fuori del contesto storico. Sarebbe illusoriamente idealistica la speranza che essa possa bastare hic et nunc. La si nutre unicamente in quei momenti storici in cui non sia visibile alcun fondamento di speranza. Il decisionismo esistenzialistico è soltanto il movimento riflesso dello spirito del mondo verso la totalità senza lacune. Tuttavia questa totalità è anche illusione. Le istituzioni cristallizzate, i rapporti di produzione, non sono simpliciter un essere, bensì sono, anche in quanto onnipotenti, un prodotto degli uomini, qualcosa di revocabile. Nel loro rapporto coi soggetti, da cui derivano, e che strettamente abbracciano, restano completamente antagonistici. Non solo la totalità esige, per non soccombere, la sua trasformazione, ma le è anche impossibile, in virtù del suo essere antagonistico, raggiungere quella completa identità con gli uomini, che viene gustata nell’utopia negativa. Perciò il progresso intramondano è antagonista dell’altro, e nel contempo anche aperto alla sua possibilità, per quanto poco possa inglobarla nella propria legge.
A ciò si obietta plausibilmente che non si progredisce con altrettanto vigore nelle sfere spirituali, nell’arte, e più ancora nel diritto, nella politica e nell’antropologia, come nell’ambito delle forze produttive materiali. A proposito dell’arte, Hegel stesso, e in termini più radicali Jochmann, ne hanno parlato; Marx ha poi formulato in linea di principio la mancanza di simultaneità del movimento di sovrastruttura e struttura, formulando la tesi che la sovrastruttura si rovescia più lentamente della struttura. Evidentemente nessuno si è meravigliato del fatto che lo spirito, un’entità fuggevole e mobile, al contrario della rudis indigestaque moles di ciò che non per niente viene chiamato materiale anche nel contesto sociale, dev’essere stazionario. La psicoanalisi ha insegnato, analogamente, che l’inconscio, da cui sono alimentate la coscienza e le forme oggettive dello spirito, è astorico. Certamente ciò che viene sussunto anche in un’approssimativa classificazione sotto il concetto di cultura, e che comprende in sé anche la coscienza soggettiva, solleva una perenne obiezione contro l’essere sempre uguale [Immergleichheit] del mero essente. Ma trova però la sua obiezione perennemente dimenticata. La perenne identità [Immergleichheit] del tutto a se stesso, la dipendenza degli uomini dalla necessità della vita, dalle condizioni materiali della propria auto-conversazione, si occulta, per così dire, dietro alla propria dinamica, dietro al crescere della presunta ricchezza sociale; questo torna a vantaggio dell’ideologia. Tuttavia, allo spirito che vorrebbe pervenire all’autentico principio dinamico, si può facilmente rinfacciare che non gli è riuscito, e di questo si compiace non meno l’ideologia. La realtà produce l’apparenza dello sviluppo verso l’alto, ma rimane in sostanza ciò che era. Lo spirito che mira a qualcosa di nuovo, in quanto lo spirito non è solo una parte dell’apparato, batte la testa nel tentativo reiterato senza speranza, come un insetto che va a urtare contro la vetrata mentre vuol volare verso la luce. Lo spirito non è, come pretende di essere ponendosi sul trono, l’“altro”, il trascendente nella sua purezza, bensì è anche un frammento della storia della natura. Dal momento che questa si presenta nella società come dinamica, lo spirito si illude, a partire dagli Eleati e da Platone in poi, di possedere l’altro, ciò che è lontano dalla civitas terrena rapito nell’estasi dell’immutabile identità a se stesso, e le sue forme prima di tutte quelle della logica, che in generale si trovano latenti in tutto ciò che sia spirituale sono improntate in conformità a ciò. In esse si impadronisce dello spirito quel momento statico, al quale lo spirito oppone resistenza e del quale tuttavia rimane parte. Il potere tirannico della realtà sullo spirito gli impedisce di volare, cosa che il suo concetto vuole fare nei riguardi del mero essente. In quanto è qualcosa di più sottile e volatile, lo spirito è più che mai esposto alla repressione e alla mutilazione. Colui che sostiene l’idea di ciò che sarebbe progresso al di là di ogni progresso, si trova in una posizione ambigua rispetto a quel progresso che effettivamente si verifica, e ciò gli torna a onore ancora una volta: attraverso l’assenza di complicità con il progresso egli dimostra di essere in realtà in accordo con esso. Dovunque tuttavia si possa giudicare fondatamente che lo spirito per sé essente progredisca, esso partecipa anche al dominio sulla natura, appunto perché non è, come presume, choris, bensì è coinvolto in quel processo vitale, dal quale si separò in conformità alla sua legge. Tutti i progressi negli ambiti culturali sono progressi del potere materiale, della tecnica. Il contenuto di verità dello spirito non è indifferente a ciò. Un quartetto di Mozart è non solo fatto meglio di una sinfonia della Scuola di Mannheim, ma è anche classificato come composizione migliore, qualcosa di più musicale anche nel senso enfatico di superiore. D’altronde è problematico se mediante lo sviluppo della tecnica della prospettiva la pittura dell’alto Rinascimento abbia effettivamente superato la cosiddetta arte primitiva; se il meglio delle opere d’arte non finisca con l’incorrere nell’imperfezione del potere materiale, in quanto ciò che ricorre “per la prima volta”, ciò che d’improvviso si manifesta, si vanifica non appena diventa tecnicamente disponibile. I progressi delle forze materiali nell’arte non fanno affatto immediatamente tutt’uno con il progresso dell’arte stessa. Se tuttavia si fosse difeso nel primo Rinascimento lo sfondo dorato, di contro alla prospettiva, ciò non solo sarebbe stato reazionario, ma anche obiettivamente falso, cioè contrario a quanto era richiesto dalla logica; anche la complessità del progresso si sviluppa solo storicamente. A lungo andare nella vita delle formazioni spirituali, la loro qualità, e, in definitiva, il loro contenuto di verità, potrebbe imporsi al di sopra del loro rispettivo grado di avanzamento tecnico-materiale, ma soltanto in virtù di un processo della coscienza progrediente. La rappresentazione dell’essenza canonica della grecità, che si conservò anche nei dialettici Hegel e Marx, non solo è un residuo irrisolto della tradizione culturale, ma è anche, in tutta la sua problematicità, parimenti la condensazione di un’evidenza [Einsicht] dialettica. L’arte, e nell’ambito spirituale non essa sola, per esprimere il suo intrinseco contenuto, deve inevitabilmente assorbire il crescente dominio sulla natura. In tal modo tuttavia essa lavora segretamente proprio contro ciò che vuol esprimere; si allontana da quell’immediato contenuto di verità che essa oppone, senza parole e senza concetti, al crescente dominio sulla natura. Questo può aiutare a chiarire perché l’apparente continuità dei cosiddetti sviluppi spirituali spesso si interrompe, e anzi frequentemente all’insegna della parola d’ordine — per quanto guidata dall’equivoco — di un “ritorno alla natura”. La colpa è imputabile, oltre ad altri momenti, e in particolare a dei momenti sociali, al fatto che lo spirito si spaventa della contraddizione insita nel suo sviluppo, e che cerca di correggerlo, inutilmente invero, mediante il ricorso a quel che lo spirito si è estraniato e che perciò misconosce considerandolo invariante.
Forse in nessun luogo il paradosso per cui un progresso c’è, eppure, nello stesso tempo, non c’è, è così drastico come nella filosofia, nella quale ha sede la stessa idea di progresso. Per quanto rigorosi possano essere i passaggi da una filosofia autentica all’altra, attraverso la mediazione della critica, rimarrebbe dubbia, tuttavia, l’asserzione che vi sarebbe un progresso da Platone ad Aristotele, da Kant a Hegel, o addirittura nell’ambito di una storia della filosofia universale nel suo complesso. Non è però responsabile di ciò neppure l’invarianza del presunto oggetto filosofico, del vero essere, il cui concetto si è dissolto irrevocabilmente nella storia della filosofia, né sarebbe lecito difendere una concezione meramente estetica della filosofia, qual è quella che porrebbe l’imponente architettura del pensiero, o addirittura i fatali grandi pensatori, più in alto della verità, la quale non è affatto identica alla perfetta compattezza immanente e alla categoricità delle varie filosofie. Sarebbe completamente farisaico e falso il verdetto stando al quale i progressi della filosofia risulterebbero averla allontanata da ciò che il gergo delle cattive filosofie spaccia per la sua aderenza: in tal modo il bisogno diventerebbe garante del contenuto di verità. Piuttosto esistono i progressi inevitabili e problematici di ciò che trova il suo limite nel suo stesso tema, limite posto dal principio medesimo di ragione, senza il quale la filosofia non potrebbe essere concepita, per il fatto che a essa non è dato di venir pensata senza di esso. Un concetto dopo l’altro precipita nell’orco del mitico. La filosofia vive in simbiosi con la scienza; non può rompere con essa senza dogmatismo e, in definitiva, senza la ricaduta nella mitologia. Il suo contenuto però potrebbe consistere nell’esprimere che cosa dalla scienza, dalla divisione del lavoro, dalle forme di riflessione dell’attività orientata all’autoconservazione, venga omesso o eliminato. Perciò il suo progresso si allontana in pari tempo da ciò verso cui dovrebbe avanzare; la forza delle esperienze che essa registra si indebolisce quanto più la filosofia trascina dietro l’apparato scientifico. Il movimento che essa compie in quanto totalità, è la pura identità a se stesso del suo principio. Ogni volta la filosofia fa senz’altro le spese anche di ciò che dovrebbe comprendere e può comprendere soltanto in virtù dell’auto riflessione, mediante la quale abbandona il punto di vista dell’ostinata immediatezza hegelianamente: della filosofia della riflessione. Il progresso filosofico inganna, perché, quanto più strettamente congiunge i rapporti di fondazione, quanto più invulnerabili diventano le sue asserzioni, sempre più diventa pensiero dell’identità. Esso avvolge gli oggetti con una rete che, otturando le falle costituite da ciò che essa stessa non è, presuntuosamente si colloca al posto della cosa stessa. Alla fine, invero, in accordo con le reali tendenze involutive della società, sembra attuarsi una vendetta sul progresso della filosofia, se mai ce n’è stato uno. Postulare un progresso da Hegel ai positivisti logici, che liquidano il progresso come oscuro o privo di senso, è ancora una volta soltanto comico. Anche la filosofia non è immune dalla possibilità di ricadere, sia per una scientificizzazione limitata, sia per il rinnegamento della ragione, in quel regresso che certamente non è migliore della fede nel progresso malignamente derisa.
La convergenza del progresso totale nella società borghese che ha creato il concetto di progresso con la negazione del progresso, trae origine dal principio di tale società: lo scambio. Esso è la forma razionale della mitica perenne identità. Nel “pari per pari” di ogni processo di scambio, un atto riprende l’altro; il saldo è in pareggio. Se lo scambio era equo, allora non sarà accaduto nulla, le cose restano come sono. Ma nel contempo l’asserzione del progresso, che si contrappone a quel principio, è vera nella misura in cui è menzogna la dottrina del pari per pari. Da tempo immemorabile, e non solo nell’appropriazione capitalistica del plusvalore nello scambio della merce forza lavoro in cambio del suo salario di riproduzione, il contraente socialmente più potente riceve di più dell’altro. Attraverso questa ingiustizia si verifica nello scambio un fatto nuovo: il processo che proclama la propria statica diventa dinamico. La verità di tale ampliamento si nutre della menzogna dell’eguaglianza. Le azioni sociali devono compensarsi reciprocamente nel sistema totale, eppure non lo fanno. Se la società borghese soddisfa il concetto che ha di se stessa, non conosce alcun progresso; se lo conosce, trasgredisce la propria legge, nella quale già è insita questa trasgressione, e perpetua con l’ineguaglianza l’ingiustizia, su cui dovrà innalzarsi il progresso. Ma in ciò è nello stesso tempo ravvisabile la condizione in cui si rende possibile la giustizia. L’adempimento del contratto di scambio, sempre di nuovo violato, finirebbe col convergere nel suo annullamento; lo scambio scomparirebbe, se si scambiasse veramente l’uguale; il vero progresso nei riguardi dello scambio è non solo un’altra cosa, bensì anche lo scambio stesso ricondotto a se medesimo, alla sua autenticità. Così hanno pensato Marx e Nietzsche agli antipodi; Zarathustra postula che l’uomo sia riscattato dalla vendetta. Perché la vendetta è la mitica immagine originaria dello scambio; finché s i domina mediante lo scambio, domina anche il mito.
L’implicazione reciproca della perenne identità e dell’emergenza del nuovo nel rapporto di scambio si manifesta, durante il periodo dell’industrialismo borghese, nelle immagini di progresso. In esse interviene il fatto paradossale che in generale ne nasce anche qualcosa di diverso, che esse invecchiano, perché, grazie alla tecnica, la perenne identità del principio di scambio, in virtù del potere della reiterazione, si innalza fino alla sfera della produzione. Il processo vitale stesso si irrigidisce nell’espressione del sempre uguale: di qui lo choc provocato dalle fotografie del diciannovesimo secolo e dei primi anni del ventesimo. Esplode la contraddizione per cui accade qualcosa proprio là dove il fenomeno dice che nulla può più accadere; il suo aspetto diventa terrificante. Nell’osservatore la contraddizione del sistema si concentra nel fenomeno per il quale, quanto più il sistema si espande, tanto più esso si irrigidisce in ciò che da sempre è stato. Quella che Benjamin chiamò dialettica in stato di quiete, credo che sia non tanto un residuo platonizzante, quanto piuttosto il tentativo di rendere filosoficamente cosciente tale paradossalità. Quelle che si intendono per immagini dialettiche sono gli archetipi storicamente oggettivi di quell’unità antagonistica di stato di quiete e movimento, che definisce il più generale concetto borghese di progresso.
Che anche la concezione dialettica del progresso abbia bisogno di correzione, l’hanno dimostrato sia Hegel che Marx. La dinamica che essi insegnarono non è concepita, simpliciter, come dinamica, bensì in unità col suo contrario, lo statico e immutabile, in cui soltanto è dato di cogliere la dinamica in generale. Marx, che criticò tutte le rappresentazioni della spontaneità o primitività sociale come feticistiche, allo stesso modo, contro il lassalliano Programma di Gotha, ha condannato anche l’assolutizzazione della dinamica nella teoria del lavoro in quanto unica fonte della ricchezza sociale; ed ha ammesso la possibilità della ricaduta nella barbarie. Non può essere più un puro caso, allora, che Hegel, malgrado la sua celebre definizione della storia, non abbia formulato alcuna dettagliata teoria del progresso, e che lo stesso Marx sembri aver evitato il termine “progresso” anche in quel passo programmatico, ripetutamente citato, dell’introduzione alla Critica dell’economia politica. Il tabù dialettico sui feticci concettuali, retaggio dell’antico rischiaramento anti mitologico nella fase della sua auto riflessione, si estende anche alla categoria che un tempo annullò la reificazione, al progresso cioè, che inganna, non appena come momento singolo usurpi il tutto. La feticizzazione del progresso consolida la sua particolarizzazione, la sua limitazione alle tecniche. Se veramente diventasse efficace il progresso della totalità, il concetto della quale porta i segni della violenza che il progresso le usa, allora esso non sarebbe più totalitario. Esso non è alcuna categoria definitiva. Vuole gustare e contrastare il trionfo del male radicale, non trionfare in se stesso. È concepibile una situazione in cui la categoria di progresso perda il suo significato, e che tuttavia non sia la situazione della regressione universale che oggi si allea col progresso. In tal caso il progresso si trasformerebbe nella resistenza all’incessante pericolo della ricaduta. Il progresso è quest’opporre resistenza al pericolo su ogni gradino, non l’abbandonarsi al flusso globale del processo, non il lasciarsi andare in balia della scalinata.
Titolo originale: Fortschritt. Relazione tenuta al Congresso di filosofia di Münster il 22 ottobre 1962; in Argumentationen, Festchrift für Josef König, a cura di Harald Delius e Günther Patzig, Gottinga, 1964, p. 1 e sgg.