Theodor Adorno, parola chiave: Personalità
Glossa sulla personalità
In queste riflessioni sulla personalità è meglio forse che prenda le mosse da un’idiosincrasia che provo fin dalla mia giovinezza, e che suppongo fosse molto diffusa nella generazione di intellettuali cui appartengo. La penna, e già la lingua, si rifiutavano allora di esprimere una parola che difficilmente si sarebbe potuta usare in modo diverso da un suo scimmiottamento parodistico. Dominava allora l’avversione nei confronti di una sfera considerata ufficiale, che si concentrava nel concetto di personalità. Potevano fregiarsi del nome “personalità” i tipi con decorazioni e nastri, i deputati di quella specie che una canzone satiricopolitica di Monaco sbeffeggiò alla vigilia della Prima guerra mondiale. Il termine “personalità” designava chi è solito darsi delle arie, chi è pretenzioso, chi si ritiene importante. Erano considerati personalità coloro che trascorrevano la vita a parlare della loro morte, che volevano far credere di operare grandi cose. A loro riuscì di far scrivere su di sé e di far celebrare la loro validità esteriore, sociale, come se ciò che uno riesce a conseguire in questo mondo lo giustificasse; come se il successo conseguito da un singolo e il suo essere coincidessero necessariamente, mentre invece in un primo tempo quello suscita sempre diffidenza nei riguardi di questo. Karl Kraus ha scoperto orrori del genere in una consuetudine cara ai giornalisti, che in quel tempo solevano scrivere che non c’era stato un “pubblico”, bensì una “riunione di personalità”. Dopo tutto ciò si potrebbe strisciare sotto il tavolo per la vergogna, tutte le volte che si sente parlare di personalità, per esempio di una “personalità” della vita pubblica.
Se esistesse una storia dei termini filosofici, essa troverebbe un non indegno argomento proprio nell’analisi dell’espressione “personalità” e dei suoi mutamenti di significato. Non erra chi fa risalire a Kant il culmine dell’evoluzione del termine nella direzione dell’autenticità di significato, che segnò nel contempo l’inizio della sua decadenza. Nel capitolo terzo della Critica della ragion pratica, che tratta dei moventi di essa, si parla della personalità con un rigore, di cui quel termine non si è poi più liberato. Secondo Kant la personalità è:
La libertà e l’indipendenza dal meccanismo di tutta la natura, considerata però nello stesso tempo come facoltà di un essere soggetto a leggi speciali, e cioè a leggi pure pratiche, date dalla sua propria ragione; e quindi la persona, come appartenente al mondo sensibile, è soggetta alla sua propria personalità, in quanto appartiene nello stesso tempo al monto intelligibile. Non è dunque da meravigliarsi se l’uomo, come appartenente a due mondi, non debba considerare la propria essenza, in relazione alla sua seconda e suprema determinazione, altrimenti che con venerazione, e le leggi di questa determinazione col più grande rispetto.
Persona e personalità non sono la stessa cosa. Ma ciò che si deve trattare con quella venerazione e quel rispetto che in seguito si arrogarono le personalità, non sono affatto le personalità nel senso depravato della gente realmente o presuntivamente eminente, bensì è il principio universale che si incarna nelle persone effettivamente viventi. Kant rispetta fedelmente la forma grammaticale del termine “personalità”. La sillaba finale “ità” indica un astratto, un’idea, non dei singoli individuali.
Poiché tuttavia questo universale, la libertà morale, appartiene sì al mondo intelligibile, spirituale, e non al mondo sensibile degli individui empirici, ma si manifesta soltanto in questi ultimi, quel concetto kantiano di personalità, col crescere dell’individualismo borghese, andò lentamente perdendo il suo autentico significato, e fu conferito a quei singoli che, quanto alla loro distinzione, si determinano più per la lode che per la dignità. A poco a poco l’individuo come mera particolarità, in virtù di qualche qualità esteriore od interiore, finisce con l’essere immediatamente ciò che in Kant era invece soltanto in modo mediato tramite il principio dell’umanità che è in lui. L’onore che Kant tributa al principio dell’umanità, viene presuntuosamente usurpato dal singolo individuo. Invece di “avere” una personalità, come sarebbe negli intendimenti di Kant, si “è” una personalità; al posto del carattere [Charakter] intelligibile, della possibilità del meglio insita in ogni uomo, viene messo il carattere empirico, l’uomo com’è di fatto già costituito, e lo si feticizza. Le celebri strofe del Libro di Suleika del Divano occidentaleorientale di Goethe, segnano un punto culminante dell’evoluzione del termine. “Che sulla terra unico sommo/ Bene è la personalità”, esclama l’amata. Ella identifica l’ipseità [Selbstheit], di cui non si può “essere privi”, l’esigenza cioè di “rimanere quel che si è”, al virile e all’amato. Ma Goethe non si ferma qui. L’amato, Hatem, le risponde che la suprema felicità lui la trovava non nella personalità, ma nell’amata Suleika. Il nome di lei lo rende felice più dell’astratto principio di identità insito nella personalità. Goethe conferma in tal modo l’ideale di personalità dell’epoca, modellato non da ultimo a sua immagine, per revocarlo poi nel ricordo della natura repressa.
Il criterio di valutazione della personalità è in generale costituito dal livello di potenza e potere; dal grado di dominio sugli uomini; sia che la personalità li possieda già in virtù della sua posizione, sia che essa li acquisisca, per esempio grazie a una particolare avidità di potere, in virtù del suo modo di agire e della sua cosiddetta capacità di “irradiazione” o influsso personale. Nella voce “personalità” viene tacitamente pensata una persona forte. Ma la forza come capacità di rendere a sé sottomessi gli altri, non si identifica affatto con la qualità caratterizzante di un uomo. Dal momento che le viene attribuita una componente etica, l’uso linguistico e la coscienza collettiva si sottomettono alla religione borghese del successo; ma nello stesso tempo permane l’illusione che quella qualità sia in quanto qualità dell’essenza pura di un individuo anche la qualità morale che era negli intenti della teoria kantiana. Nel concetto di “carattere”, che conferiva compattezza all’unità di un individuo in se stesso, e che ha nell’etica di Kant una sua importante e non del tutto univoca funzione, si trovano già le condizioni per l’affacciarsi di questa transizione. Coloro che vengono esaltati come personalità, non sono affatto necessariamente importanti, interiormente ricchi, distinti e raffinati, produttivi, particolarmente saggi o veramente buoni. Coloro che realmente sono qualcosa, mancano spesso di un legame con quella sfera nella quale si esercita il dominio sugli uomini, che tale concetto di personalità echeggia in sé. Spesso le forti personalità sono soltanto individui capaci di suggestionare, gente che si fa avanti a gomitate, che si appropria di tutto quello che può, e lo manipola in modo brutale. Nell’ideale della personalità la società del diciannovesimo secolo esaltò questo suo falso principio: il vero uomo è chi identifica quell’ideale con la società, chi è organizzato in se medesimo conformemente a quella legge che tiene intimamente unita la società.
Quest’ideale di personalità nella sua forma tradizionale anticoliberale è ormai decaduto; l’idiosincrasia per l’uso del termine si è in certo qual modo socializzata; lo si incontra infatti molto più raramente che nei discorsi ufficiali che si tenevano intorno al 1910. Ci accade ancora di rammentare personalità di questo stampo soltanto quando ci troviamo di fronte a signori rientranti nel tipo socialmente approvato dell’individuo elegante, dall’aspetto distinto, con lineamenti fini, esemplari che è dato osservare nelle hall dei grandi alberghi; per dirla in breve, i direttori generali o quei dirigenti che sono incaricati di intrattenere amabilmente gli ospiti. Quelli tra loro che detengono un effettivo potere di comando, sono comunque perfettamente fusi con la pubblicità che si fa su di loro. Camminano come la réclame di se stessi o dei loro complessi industriali, all’unisono con lo sviluppo economico, il quale integra le sfere un tempo separate della produzione, della circolazione, e — come si dice oggigiorno della propaganda –, riducendole a un denominatore comune. Dagli altri, da quelli che è più probabile che costituiscano dei modelli di personalità che non coloro che sono stati prima rappresentati come tali, e cioè dagli idoli del cinema e della fotografia, la personalità non viene nemmeno più richiesta, anzi quasi disturba. Quando, nei Paesi anglosassoni, si dice di qualcuno che è quite a character, con tale espressione non si vuol dire nulla di gentile. Quel tale, cioè, non è abbastanza civilizzato, è uno stravagante, un avanzo comico. Chi oppone resistenza agli onnipresenti meccanismi di adattamento, non può più valere alla stessa stregua di coloro che sono capaci di adeguarsi. Dal momento che egli non ha terminato di attuare il suo processo di auto conservazione mediante l’adattamento, viene guardato dall’alto in basso: proprio come si guarda il deforme, lo storpio, il debole.
Nelle condizioni attuali è diventato pressoché impossibile per chiunque pretendere, come voleva l’ideologia culturale del secolo scorso, di diventare una personalità. Una pretesa del genere è sempre stata insolente già persino nei riguardi di una domestica. Lo spazio sociale che permise un tempo il dispiegamento di una personalità anche nel senso problematico della sua sovranità autoritaria, oggi non esiste più, probabilmente nemmeno negli alti comandi del mondo degli affari e della pubblica amministrazione. Al concetto di personalità vien fatto pagare caro il crimine che ha commesso: il fatto cioè che esso abbia livellato l’idea dell’umanità, in un individuo, al suo essere così e non altrimenti. Quell’idea così ridotta è soltanto la maschera di se stessa. Beckett l’ha esemplificato nella figura di Hamm in Fine di partita: la personalità come clown.
In tal modo la critica all’ideale di personalità si è diffusa con l’andar del tempo, analogamente a come in passato si diffuse quell’ideale stesso. Così quella ferrea parte delle teorie pedagogiche che vorrebbero essere all’altezza dello spirito del tempo, si è proposta il compito di liquidare l’obiettivo culturale humboldtiano dell’uomo sviluppato e formato in ogni senso, cioè appunto della personalità. Inosservata, nasce dall’impossibilità di realizzarlo — se mai dovesse essere stato altrimenti realizzato — una norma. Ciò che non può essere, altresì “deve” non essere; ciò che non si può realizzare, dev’essere liquidato. L’avversione per il vuoto pathos della personalità entra, all’insegna di una coscienza della realtà presuntivamente libera da ideologie, al servizio della legittimazione dell’adattamento universale, come se quest’ultimo non trionfasse già dovunque senza bisogno di giustificazione. Eppure il concetto di personalità di Humboldt non consisteva affatto semplicemente nel culto dell’individuo che dev’essere innaffiato come una pianta per fiorire. Così come egli tiene ferma proprio l’idea kantiana “dell’umanità insita nella nostra persona”, nemmeno ha rinnegato ciò che nei suoi contemporanei Goethe ed Hegel sta al centro della teoria dell’individuo. Per tutti loro il soggetto perviene a se stesso non attraverso la preoccupazione, narcisisticamente controriferita a se medesimo, per il suo essere per sé, bensì attraverso l’estraniazione, attraverso la dedizione a ciò che lo stesso soggetto non è. Nel frammento di Humboldt Theorie der Bildung des Menschen [Teoria della formazione dell’uomo], si dice:
Soltanto perché le due cose, il suo pensiero e la sua azione, non sono altrimenti possibili che solo in virtù di una terza, solo in virtù della rappresentazione e della elaborazione di qualcosa la cui caratteristica propriamente distintiva è di essere non uomo, cioè mondo, l’individuo cerca di afferrare quanto più mondo è possibile, e di connetterselo il più strettamente che può.
Quel grande e umano scrittore che fu Humboldt, si è potuto farlo entrare con la forza nel ruolo del capro espiatorio pedagogico, unicamente perché ci si è dimenticati della sua raffinata teoria.
Al perfido atteggiamento liquidatorio che induce al motto “ciò che cade, devi colpirlo”, s’associa ora il concetto di personalità, e potenzialmente chiunque non si arrenda completamente alla pretesa sociale di ridurre l’umanità all’ideologia dello specialismo — richiesta sorgente dalla società stessa — accoglie in sé coloro che soccombono e la loro immagine in cui si riflette l’idea della conciliazione. C’è motivo di sospettare che in ciò che non deve più essere, perché finora non è potuto né può essere, si celi il potenziale di un qual cosa di migliore. La svalutazione attuale della personalità come di un che di antiquato, favorisce la regressione psicologica. L’impedimento della formazione dell’Io, che è sempre più chiaramente la tendenza dominante di una società in corso di formazione, viene considerato come un obiettivo superiore, degno di essere incoraggiato e promosso. Viene sacrificato il momento dell’autonomia, della libertà, dell’opposizione, che un tempo, sebbene ideologicamente corrotto, risuonava nell’ideale di personalità. Il concetto di personalità non si deve salvare. Nell’epoca della sua liquidazione, tuttavia, ci sarebbe da conservare qualcosa di esso: la forza dell’individuo di non arrendersi a quel che ciecamente accade al di sopra di lui, come pure di non identificarsi ciecamente con esso. Ciò che si deve conservare non è una riserva di natura informe in mezzo alla società socializzata. È proprio l’enorme pressione di quest’ultima, anzi, che produce sempre di nuovo natura informe. La forza dell’Io, che minaccia di andar perduta, e che in passato, sebbene ridotta a caricatura autoritaria, era pur contenuta nell’ideale di personalità, è la forza della coscienza, della razionalità. A essa essenzialmente spetta il compito della verifica della realtà. Essa rappresenta nel singolo individuo la realtà, il non Io, altrettanto bene di quanto rappresenti l’individuo stesso. Soltanto perché l’individuo accoglie in sé la datità oggettiva e in un certo senso, cioè coscientemente, le si adegua, può organizzare la resistenza a essa. Organo di ciò che una volta si chiamava senza infamia “personalità”, è diventata la coscienza critica. Essa compenetra anche quella ipseità, che si era ostinatamente irrigidita nel concetto di personalità.
Sul concetto di uomo autentico, si può dire almeno qualcosa di negativo. Tale uomo né dovrebbe essere mera funzione di un tutto, il quale, ammaliandolo, lo irretisca così profondamente che egli non possa più distinguersene; né dovrebbe chiudersi nella sua pura ipseità come in una fortezza; questa è proprio la forma della cattiva naturalità, che pur sempre sopravvive. Se fosse un uomo autentico, egli non sarebbe più una personalità, ma nemmeno sarebbe inferiore e assoggettato a essa, come un mero fascio di luce riflessa; sarebbe invece una terza cosa. Essa balena nella visione holderliniana del poeta:
Drum, so wandle nur wehrlos
Fort durchs Leben, und fürchte nichts!
[Perciò, va’ pure inerme
attraverso la vita, e nulla temere!]
Titolo originale: Glosse Uber Persönlichkeit. Intervento alla Deutschlandfunk (Radio tedesca), 2 gennaio 1966; in “Neue deutsche Hefte”, n. 109, 1966, p. 47 e. sgg.