Theodor Adorno, parola chiave: Passato

Che cosa significa elaborazione del passato

Mario Mancini
24 min readMar 20, 2020

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La questione “Che cosa significa elaborazione del passato” deve essere chiarita. Essa si fonda su un’espressione divenuta, negli ultimi anni, un modo di dire che non può non insospettire. Secondo questo uso linguistico, elaborazione del passato non significa elaborare seriamente le vicende storiche rimuovendone, mediante una coscienza critica, il tabù che le ha segnate. Si vuole, invece, chiudere definitivamente col passato cancellandone possibilmente la stessa memoria. La disponibilità a dimenticare e perdonare tutto, che dovrebbe essere fatta propria da coloro che hanno subìto i crimini, viene proposta dai sostenitori di coloro che li commisero. Una volta, in occasione di un dibattito scientifico, ebbi a scrivere: in casa del boia non si parli della ghigliottina; il rancore sarebbe inevitabile. Ma il fatto che la tendenza al rifiuto, solo fino a un certo punto inconscio, della colpa, si intrecci così paradossalmente con l’idea di elaborazione del passato, offre spunti sufficienti a riflessioni che fanno riferimento a una realtà che si fa fatica a chiamare per nome, dato l’orrore che, ancora oggi, suscita.

Ci si vuole liberare dal passato: a ragione, poiché è assolutamente impossibile vivere alla sua ombra, e perché il terrore non avrebbe mai fine se ci si volesse rivalere delle colpe e violenze subite con nuove colpe e nuove violenze; a torto, perché il passato a cui ci si vorrebbe sottrarre è ancora vivamente presente. Il nazionalsocialismo sopravvive, e fino ad oggi non sappiamo se solo come fantasma di un orrore che si ostina a non morire della sua propria morte, o se sia, invece, la morte dello stesso nazionalsocialismo a non essere ancora sopraggiunta; se la disponibilità all’indicibile continui ad allignare negli uomini come nelle circostanze che li attanagliano.

Non vorrei affrontare la questione relativa alle organizzazioni neonaziste. Considero il perdurare del nazionalsocialismo nella democrazia potenzialmente più pericoloso del perdurare di tendenze fasciste contro la democrazia. Le infiltrazioni sono un dato di fatto; ambigui individui riescono a celebrare il loro come back in posizioni di potere in quanto favoriti dalle circostanze.

È incontestabile il fatto che, in Germania, il passato non sia stato ancora superato non solo nella cerchia dei cosiddetti incorreggibili. Si continua a rimandare al cosiddetto complesso di colpa, spesso associandolo all’idea secondo cui questo sarebbe stato in effetti creato dalla costruzione di una colpa collettiva tedesca. Incontestabilmente, il rapporto col passato è segnato da una serie di nevrosi: atteggiamento di difesa nei casi in cui non si è accusati; reazioni emotive rispetto a situazioni che in realtà le giustificano appena; mancanza di emozioni nei confronti delle cose più serie; non di rado anche rimozione di fatti di cui si è interamente o parzialmente a conoscenza. Ad esempio, in esperimenti di gruppo compiuti dall’Istituto per la ricerca sociale, abbiamo spesso constatato che nel ricordo di deportazioni e massacri vengono scelte espressioni attenuanti, eufemismi, quando non si •crea un vuoto di memoria; l’espressione divenuta corrente, quasi bonaria, “Kristallnacht” per indicare il pogrom del novembre 1938, testimonia questa tendenza. Numerosissimi sono coloro che dicono di essere stati all’oscuro degli eventi di allora, sebbene dappertutto sparissero degli ebrei e nonostante sia difficilmente verosimile che coloro che hanno visto da vicino quanto accadeva a Est abbiano sempre taciuto ciò che per loro doveva rappresentare un peso insopportabile; si può probabilmente presumere che esista una relazione tra l’atteggiamento del non averne saputo nulla e una indifferenza quanto meno ottusa e timorosa. A ogni modo, i nemici decisi del nazionalsocialismo erano abbastanza presto al corrente di quanto succedeva.

Noi tutti conosciamo la tendenza a negare o minimizzare, oggi, quanto successo, per quanto sia difficile immaginare che ci sono persone che non si vergognano di dire che in fondo sarebbero stati gasati al massimo solo cinque e non sei milioni di ebrei. È inoltre irrazionale la diffusa equiparazione della colpa, come se Dresda avesse reso giustizia ad Auschwitz. Nella messa in campo di tali calcoli, nella fretta di esimersi dall’interrogare la propria coscienza ricorrendo, invece, alle controaccuse c’è dietro qualcosa di disumano, e azioni di guerra, il cui modello era stato fornito, tra l’altro, da Coventry e Rotterdam, sono difficilmente paragonabili allo sterminio amministrativo di milioni di innocenti. Viene messa in discussione persino questa innocenza, la cosa più semplice e plausibile. L’enormità del crimine offre addirittura il pretesto per giustificare lo stesso: una cosa del genere, si consola la coscienza assopita, non sarebbe potuta succedere se le vittime non vi avessero, in qualche modo, dato adito, e questo vago “in qualche modo” può essere interpretato e variato secondo i gusti. La mistificazione irrompe sul contrasto stridente tra una colpa estremamente fittizia e una punizione estremamente reale. Talvolta si attribuisce ai vincitori la responsabilità di ciò che fecero i vinti quando questi erano ancora potenti, e per i misfatti di Hitler dovrebbero essere responsabili coloro che ne tollerarono l’ascesa al potere e non coloro che lo acclamarono. L’idiozia di tutto ciò è veramente indicativa di una realtà non superata sul piano psichico, di una lacerazione, anche se il pensiero delle lacerazioni dovrebbe essere destinato, piuttosto, alle vittime.

In tutto ciò, tuttavia, il discorso del complesso di colpa ha un che di non veritiero. In psichiatria, alla quale attinge e le cui associazioni si trascina dietro, esso indica la morbosità del senso di colpa, inadeguato alla realtà, psicogeno, come lo chiamano gli analisti. Con l’ausilio del termine complesso si vuole far credere che la colpa, il cui senso è respinto, allontanato, deformato dai molti con aberranti operazioni di razionalizzazione, non sarebbe in realtà una colpa, ma qualcosa che esisterebbe solo dentro di essi, nel loro stato d’animo; il passato terribilmente reale viene minimizzato e ridotto alla pura suggestione di coloro che ne sentono il peso. O forse la stessa colpa potrebbe essere, magari, solo un complesso; non potrebbe essere morboso affliggersi per il passato mentre l’uomo sano, dotato di senso del reale, si lascia prendere dal presente e dai suoi scopi pratici? Questa sarebbe la morale di quel “Ed è come se non fosse successo nulla” di Goethe, che tuttavia, in un punto decisivo del Faust, viene pronunciato dal diavolo per rivelarne il principio più profondo, la distruzione della capacità di ricordare. Si vorrebbe sottrarre alle vittime l’unica cosa che la nostra impotenza può loro donare, la memoria. L’ostinazione di coloro che non ne vogliono sentir parlare coinciderebbe comunque con una potente tendenza storica. Hermann Heimpel ha ripetutamente parlato di un affievolimento del senso della continuità storica, in Germania, un sintomo di quell’indebolimento sociale dell’Io che, già in Dialettica dell’illuminismo, Horkheimer e io cercammo di individuare. Rilevamenti empirici che hanno evidenziato che, spesso, la nuova generazione ignora chi fossero Bismarck e l’imperatore Guglielmo I, hanno confermato il sospetto di perdita del senso della storia.

Probabilmente l’oblio del nazionalsocialismo si spiega più alla luce della situazione sociale generale che attraverso la psicopatologia. I meccanismi psicologici nella rimozione di ricordi angoscianti e sgradevoli sono funzionali a scopi estremamente inerenti al reale. Questo è quanto emerge dagli stessi fautori della rimozione quando, ad esempio, animati da senso pratico, fanno notare che rievocare troppo concretamente e ostinatamente il passato potrebbe nuocere all’immagine della Germania all’estero. Un tale zelo si accorda difficilmente con l’osservazione di Richard Wagner, per il quale, quantunque sufficientemente nazionalista, essere tedeschi significherebbe fare una cosa per amore della stessa, nella misura in cui detta cosa non sia aprioristicamente destinata a una finalità pratica. La cancellazione della memoria risulta piuttosto da una coscienza troppo vigile che non dalla sua debolezza nei confronti dello strapotere di processi inconsci. Nell’oblio del passato recentissimo traspare la rabbia di dover rimuovere in se stessi ciò che tutti sanno, prima di poter indurre gli altri a altrettanto.

Certamente i sentimenti e i comportamenti suscitati a tal riguardo non sono del tutto razionali, in quanto stravolgono i fatti cui si riferiscono. Ma sono razionali nel senso che aderiscono a delle tendenze sodali, e che colui che reagisce in questo modo sa di essere conforme allo spirito del tempo. Una tale reazione favorisce immediatamente il desiderio di passar oltre. Chi non si pone problemi inutili, non getta sabbia nell’ingranaggio. È consigliabile usare lo stesso linguaggio di quella cosa che Franz Bohm ha acutamente definito “opinione non pubblica”. Coloro che si adeguano a un clima che, ancorché arginato dai tabù ufficiali, proprio per questo sprigiona una maggiore virulenza, si qualificano contemporaneamente come appartenenti a esso e come uomini indipendenti. In fondo, il movimento di resistenza tedesco non ha mai avuto una base di massa, e questa non può essere stata prodotta dalla sconfitta. Si potrà supporre che la democrazia affondi radici più profonde rispetto al primo dopoguerra: il nazionalsocialismo antifeudale, senz’altro borghese, in un certo senso, e contro la propria volontà, ha spianato la via alla democratizzazione attraverso la politicizzazione della masse. La casta degli Junker e il movimento operaio radicale sono spariti; per la prima volta si è creata una situazione omogeneamente borghese. Ma l’arrivo in ritardo della democrazia, in Germania, cioè la sua mancata coincidenza cronologica con il liberalismo economico al suo apice, e il fatto che sia stata introdotta dai vincitori, non può non intaccare il rapporto del popolo con essa. Di rado ciò viene espresso direttamente perché per il momento si sta troppo bene in democrazia e perché si contrapporrebbe alla comunità d’interessi istituzionalizzata dalle alleanze politiche con l’occidente, in particolare con l’America. Ma il rancore rispetto alla «reeducation» parla abbastanza chiaro. Si potrà dire che il sistema politico democratico è accettato in effetti, in Germania, come qualcosa che in America si chiama working proposition, un sistema funzionante, cioè, che finora ha permesso, se non addirittura favorito la prosperità. Ma la democrazia non si è affermata in modo tale che le persone la vivano come un bene proprio, concependo se stesse come soggetti dei processi politici. La democrazia viene percepita come un sistema tra i tanti, come se su un campionario si dovesse scegliere tra comunismo, democrazia, fascismo, monarchia; non come identica col popolo stesso, espressione della sua emancipazione. La democrazia viene valutata secondo il successo o insuccesso, di cui partecipano anche i singoli interessi, ma non come unità del proprio interesse con quello generale, e in effetti la rappresentanza parlamentare della volontà popolare, nei moderni stati di massa, rende la cosa alquanto difficile. Spesso in Germania, tra tedeschi, capita di sentire la strana affermazione secondo cui i tedeschi non sarebbero ancora maturi per la democrazia. Si fa della propria immaturità un’ideologia, analogamente a degli adolescenti che, sorpresi a compiere qualche atto di violenza, cerchino di giustificarsi rimandando al proprio status di minori. Il grottesco di questo modo di ragionare evidenzia un’eclatante contraddizione della coscienza. Le persone che mettono così poco ingenuamente in campo la propria ingenuità e immaturità politica si percepiscono, da un lato, come soggetti politici che dovrebbero essere in grado di decidere del proprio destino e di organizzare liberamente la società. D’altro canto, però, si scontrano con gli enormi limiti che le circostanze pongono. Poiché non sono in grado di penetrare questi limiti con le proprie riflessioni, ne attribuiscono l’impossibilità, che essi in realtà subiscono, a se stessi o ai grandi o agli altri. Si scindono ulteriormente da sé, per così dire, in soggetto e oggetto. Comunque, è l’ideologia dominante, oggi, che stabilisce che quanto più gli uomini sono in balia di circostanze oggettive sulle quali non sono in grado di incidere, o pensano di non esserlo, tanto più soggettivizzano tale incapacità. Aderendo al motto secondo cui tutto dipende dall’uomo, attribuiscono all’uomo ciò che dipende dalle circostanze, il che a sua volta fa sì che le circostanze ne escano indisturbate. Nel linguaggio filosofico si direbbe che nell’estraneità del popolo alla democrazia si riflette l’auto-estraniazione della società.

Tra le suddette circostanze oggettive la più stringente è forse lo sviluppo della politica internazionale. La quale sembra giustificare, a posteriori, l’aggressione dell’Unione Sovietica da parte di Hitler. Dal momento che il mondo occidentale determina la sua unità essenzialmente nella comune difesa dalla minaccia russa, si ha l’impressione che i vincitori del 1945 abbiano distrutto solo per stoltezza lo sperimentato baluardo contro il bolscevismo per ricostruirlo pochi anni dopo. Dal disinvolto «Ma Hitler lo ha sempre detto», alla conclusione che egli avesse ragione anche in altre cose, il passo è breve. Solo spensierati oratori della domenica potrebbero sorvolare su una fata­lità storica, sul fatto cioè che, in un certo senso, il disegno che spinse i Chamberlain e il loro seguito a tollerare Hitler come aguzzino dell’Est sia sopravvissuto a Hitler. Veramente una fatalità. Poiché è evidente la minaccia dell’Est di assorbire i contrafforti dell’Europa occidentale. Chi non vi si oppone si rende letteralmente colpevole di una riedizione dell’appeasement chamberlainiano. Si dimentica solo — solo! — che questa minaccia è stata scatenata proprio dall’azione di Hitler che ha portato all’Europa esattamente ciò che egli, secondo la volontà degli appeasers, con la sua guerra espansionistica voleva evitare. Ancor più del destino individuale, è quello dell’intreccio politico un intrico di colpe. La resistenza contro l’Est ha in sé una dinamica che risveglia il passato tedesco. Non solo ideologicamente, perché lo slogan della lotta al bolscevismo da sempre è riuscito a mascherare coloro che della libertà non hanno un concetto migliore, ma anche realmente. Secondo un’osservazione fatta già durante il periodo hitleriano, la potenza organizzativa dei sistemi totalitari impone ai suoi nemici aspetti del suo modo d’essere. Fino a che durerà il divario economico tra Est e Ovest la variante fascista avrà più presa sulle masse rispetto alla propaganda dell’Est, mentre d’altro canto non ci si vede ancora sospinti, tuttavia, verso l’ultima ratio fascista. Ma sono le stesse categorie di persone a essere soggette a entrambe le forme di totalitarismo. Si darebbe un giudizio errato dei caratteri inclini all’autoritarismo se li si riconducesse a una determinata ideologia politico-economica; anche da un punto di vista sociopsicologico non sono un caso le note fluttuazioni di milioni di elettori tra il partito nazionalsocialista e quello comunista, prima del 1933. Studi condotti in America hanno dimostrato che tale struttura caratteriale non dipende poi tanto da criteri politico-economici. La definiscono piuttosto caratteristiche come: un pensiero determinato da categorie del tipo potenza-impotenza, inflessibilità e incapacità di reagire, convenzionalismo, conformismo, mancanza di autocoscienza, insomma incapacità di maturare esperienze. Queste persone si identificano con il potere reale in quanto tale, indipendentemente dalla sua natu­ra. In fondo dispongono solo di un Io debole e hanno perciò bisogno come surrogato della identificazione con grandi collettivi e della copertura da parte di essi. Il fatto che ci si continui a imbattere in individui come quelli rappresentati dal film Wir Wunderkinder non dipende né dalla cattiveria del mondo in quanto tale, né dalle presunte peculiarità del carattere nazionale tedesco, bensì dall’identità tra quei conformisti, che hanno comunque rapporti con le leve di ogni apparato di potere, e i potenziali seguaci totalitari. Inoltre è un’illusione pensare che il regime nazionalsocialista non abbia significato altro che paura e sofferenza, sebbene ciò sia vero anche per molti dei suoi aderenti. Numerosi erano coloro che non se la sono passata male sotto il fascismo. Il terrore vero e proprio si è indirizzato solo contro pochi e relativamente ben definiti gruppi. Dopo le esperienze di crisi del periodo prehitleriano prevalse un sentimento di qualcuno che provvede», e non solo come ideologia legata alle KdFReisen [attività fisico-ricreative del tempo libero organiz­zate dai nazisti] e ai vasi di fiori posti all’interno delle fabbriche. Rispetto al laissez faire l’apparato hitleriano ha effettivamente protetto, in una certa misura, i suoi dalle catastrofi naturali della società di cui gli uomini erano in balia. Ha violentemente anticipato l’attuale gestione della crisi, un barbaro esperimento di controllo statale della società industriale. La tanto invocata integrazione, l’organizzazione di una fitta rete sociale che tutto parava, garantiva anche protezione dalla paura universale di scivolare tra le maglie e di precipitare nel baratro. A molti il freddo di una condizione alienante sembrava essere eliminato dal calore dello stare insieme, quantunque manipolato e sollecitato; l’illusorietà di una comunità di popolo di uomini non liberi e disuguali era nel contempo anche l’esaudimento di un antico e certamente già da sem­pre nefasto sogno borghese. Il sistema, che offriva tali gratificazioni, celava comunque in sé il potenziale del suo disfacimento. La prosperità economica del Terzo Reich si fondava in larga misura sugli armamenti in preparazione della guerra, che portò alla catastrofe. Ma la memoria indebolita, di cui ho parlato, si rifiuta di accettare questo ragionamento. Trasfigura tenacemente la fase nazionalsocialista in cui si realizzarono le collettive fantasie di potere di coloro che individualmente erano impotenti e che solo in seno a un potere collettivo potevano aspirare a sentirsi qualcuno. Nessuna analisi, per quanto illuminante, può a posteriori spazzare via la realtà di questo esaudimento e le energie pulsionali in esso profuse. Lo stesso azzardo hitleriano non era così irrazionale come sembrò allora all’intelligenza liberale media, o come potrà apparire oggi il suo fallimento a una retrospettiva storica. Il calcolo di Hitler di sfruttare il vantaggio temporale sugli altri stati di un riarmo realizzato a ritmi forsennati non era, rispetto agli obiettivi che voleva perseguire, per niente dissennato. A chi richiami alla mente la storia del Terzo Reich, soprattutto la parte relativa alla guerra, i singoli momenti in cui Hitler soccombeva appariranno come casuali, e come necessario invece solo il decorso del tutto in cui appunto si è affermato il più forte potenziale tecnico-economico del resto della terra che non voleva lasciarsi conquistare una necessità statistica, in un certo senso, non una logica palese nel suo susseguirsi. La persistente simpatia per il nazionalsocialismo non ha bisogno di ricorrere a particolari sofismi per convincere sé e gli altri che le cose avrebbero potuto prendere anche un’altra piega, che in effetti sarebbero stati commessi solo degli errori e che la caduta di Hitler sarebbe una casualità della storia che forse lo spirito del mondo prima o poi correggerà.

In ambito soggettivo, nella psiche degli uomini, il nazionalsocialismo ha esasperato il narcisismo collettivo, in parole povere ha esaltato la boria nazionale fino all’inverosimile. I moti pulsionali narcisistici dei singoli, ai quali il mondo disumanizzato prospetta sempre meno possibilità di soddisfacimento, e che continueranno a persistere fintantoché la civiltà negherà loro troppo, trovano nell’identificazione con il tutto un soddisfacimento succedaneo. Questo narcisismo collettivo è stato duramente colpito dal crollo del regime hitleriano. La sua lacerazione si è determinata nell’ambito della mera fat­tualità, senza che i singoli ne fossero consapevoli e rendendone quindi impossibile il superamento. Questo è l’aspetto sociopsicologico del discorso sul passato non superato. Non si è verificato neanche il panico che secondo la teoria freudiana tratta da Psicologia di massa e analisi dell’io si instaura là dove si sgretolano le identificazioni collettive. Non volendo gettare alle ortiche le indicazioni del grande psicologo, non resta che una sola conclusione possibile: che tacitamente, covando inconsciamente e perciò particolarmente forti, quelle identificazioni e il narcisismo collettivo non furono affatto distrutti, ma continuano a esistere. Interiormente la sconfitta non la si è ratificata, come non lo fu dopo il 1918. Ancora di fronte all’evidente catastro­fe, il collettivo integrato da Hitler ha serrato le file aggrappandosi a speranze chimeriche come le armi segrete che poi, in realtà, possedevano gli altri. Dal punto di vista sociopsicologico vi si potrebbe collegare l’aspettativa per cui il narcisismo collettivo lacerato è impa­ziente di essere ricucito, aggrappandosi a tutto ciò che in un primo momento, a livello di coscienza, fa collimare il passato coi desideri narcisistici, o invece, successivamente, rimodellando la realtà in modo da far sì che quella lacerazione non sia mai accaduta. Entro certi limiti c’è riuscito il boom economico, la consapevolezza del tipo «ma come siamo bravi!». Io comunque dubito che il cosiddetto miracolo economico, di cui in effetti tutti si avvantaggiano ma di cui, nel contempo, tutti parlano con un che di sarcastico, sia davvero così profondamente radicato, sotto il profilo sociopsicologico, come si potrebbe pensare in una fase di relativa stabilità. Proprio perché interi continenti continuano a essere afflitti dalla fame, anche se tec­nicamente potrebbe essere superata, nessuno riesce a rallegrarsi veramente del benessere. Come quando, ad esempio nei film, una persona mangia con gusto infilandosi il tovagliolo nel colletto suscitando, individualmente, risa d’invidia, allo stesso modo l’umanità non si concede l’agiatezza rendendosi pienamente conto che il suo prezzo è sempre ancora la privazione; il rancore colpisce ogni felicità, anche la propria. La sazietà è diventata un insulto a priori, mentre il suo unico aspetto negativo dovrebbe consistere nel fatto che ci sono persone che non hanno niente da mangiare; il presunto ideali­smo, che proprio nella Germania odierna sovrasta farisaicamente il presunto materialismo, per molti versi deve solo agli istinti repressi ciò che ritiene essere la sua profondità. L’odio dell’agiatezza palesa in Germania il disagio del benessere, e alla luce di questo il passato si trasfigura in tragicità. Questo malessere non scaturisce comunque assolutamente da motivi torbidi, ma nasce da fatti ben più razionali. Il benessere è soggetto alla congiuntura, nessuno si fida della sua durata illimitata. Nel consolarsi pensando che eventi come quello del venerdì nero del 1929 e la conseguente crisi economica difficilmente potrebbero ripetersi, è implicita la fiducia in un potere statale forte, da cui ci si aspetta di essere tutelati anche quando la libertà politica ed economica non funzionasse più. Ancora in piena prosperità, addirittura in una fase di temporanea carenza di forza lavoro, nel suo intimo la maggior parte delle persone si ritiene probabilmente potenzialmente disoccupata, destinataria di benefici e quindi, a maggior ragione, oggetto e non soggetto della società: questo è il motivo senz’altro legittimo e ragionevole del loro disagio. È evidente che nell’attuale situazione tale disagio può fornire lo stimolo per tornare indietro nel tempo e per rinnovare il disastro.

Indubbiamente, oggi, l’ideale fascista si fonde con il nazionali­smo dei paesi cosiddetti sottosviluppati, che ormai non vengono più definiti tali, bensì paesi in via di sviluppo. L’intesa con coloro che nella competizione imperialistica si sono sentiti svantaggiati volendo partecipare direttamente al banchetto si espresse già durante la guerra negli slogan sulle plutocrazie occidentali e le nazioni proletarie. È difficile stabilire se e in che misura questa tendenza sia già sfociata nella corrente sotterranea anti-civiltà e antioccidentale della tradizione tedesca; se anche in Germania si delinei una convergenza tra nazionalismo fascista e comunista. Il nazionalismo, oggi, è superato e attuale nello stesso tempo. Superato perché, a fronte della obbligata aggregazione delle nazioni ai grandi blocchi sotto la supremazia delle più potenti, dettata dallo stesso sviluppo della tecnologia belli­ca, la singola nazione sovrana, almeno nella progredita Europa con­tinentale, ci ha rimesso la sua sostanzialità storica. La stessa idea di una nazione in cui si concentrava l’unità economica degli interessi di cittadini liberi e indipendenti rispetto ai limiti territoriali del feudalesimo è diventata un limite a fronte dell’evidente potenziale della società complessiva. Ma il nazionalismo è attuale nel senso che la sola idea di nazione tramandata e psicologicamente assai pregnante, sempre espressione della comunione d’interessi nell’economia interna­zionale, è abbastanza forte da impegnare centinaia di milioni di persone per fini che essi non possono considerare direttamente coincidenti con i propri. Il nazionalismo non crede più veramente in se stesso, eppure è politicamente necessario come mezzo efficace per indurre la gente a persistere nella salvaguardia di strutture oggettivamente obsolete. Perciò nel suo essere negativo, volutamente accecato, ha assunto, oggi, tratti grotteschi. Che in realtà non gli sono mai mancati, come eredità di costituzioni tribali barbaramente primitive; essi furono però arginati fino a che il liberalismo garantiva anche sostanzialmente il diritto dell’individuo come condizione del benessere collettivo. Solo in un periodo in cui era già sull’orlo del precipizio, il nazionalismo è diventato completamente sadico e distruttivo. Già l’ira del mondo hitleriano contro tutto ciò che è diverso, il nazionalismo come delirante sistema paranoide, aveva questa impronta; è improbabile che si sia affievolita, oggi, la forza d’attrazione che sprigionano proprio questi aspetti. La paranoia, la mania di persecuzione che perseguita gli altri, sui quali proietta ciò che vorrebbe essa stessa, è contagiosa. La patologia dell’individuo, che psichicamente dimostra di non essere più in grado di affrontare il mondo e viene quindi sospinto in un apparente regno interiore, è confermata da vaneggiamenti collettivi come l’antisemitismo. Probabilmente voi, seguendo la tesi dello psicoanalista Ernst Simmel, vorrete evitare che il singolo semifolle lo diventi completamente. Quanto più la follia del nazionalismo è oggi manifesta nella giustificata paura di nuove catastrofi, tanto più la sua diffusione ne risulta addirittura stimolata. La follia è il succedaneo del sogno — che l’umanità crei un mondo umano — un sogno che il mondo degli uomini si ostina a esorcizzare. Ma il pathos nazionalistico si concilia con tutto ciò che è accaduto tra il 1933 e il 1945.

Che il fascismo continui a esistere; che la tanto citata elabora­zione del passato fino a ora non sia riuscita degenerando nella sua caricatura, il vuoto e freddo oblio, dipende dal fatto che esistono ancora i presupposti sociali oggettivi che hanno prodotto il fascismo. Nella sua essenza, non lo si può ricondurre a una predisposizione soggettiva. L’ordinamento economico e, sul suo modello, anche l’organizzazione economica in senso lato, spinge la maggioranza, oggi come in passato, alla dipendenza da condizioni sulle quali non ha voce in capitolo, e a uno stato di minorità. Se vogliono vivere non resta loro altro che adeguarsi alle condizioni date, piegarsi; devono cancellare proprio quella soggettività autonoma alla quale si appella l’idea di democrazia, possono preservarsi solo rinunciando a se stessi. Smascherare il contesto di accecamento esige da loro proprio quel doloroso sforzo di conoscenza che viene impedito dalle strutture della vita, non ultima la totalizzante industria culturale. La necessità di un tale adeguamento, che conduce all’identificazione con l’esistente, il costituito, con il potere in quanto tale, crea il potenziale totalitario. Esso viene rafforzato dall’insoddisfazione e dalla rabbia che proprio la costrizione all’adeguamento produce e riproduce. Poiché la realtà non soddisfa quella autonomia, in ultima analisi quella possibile felicità che il concetto di democrazia in realtà prospetta, essi assumono un atteggiamento di indifferenza nei confronti di queste istanze, se non addirittura, intimamente, di odio. La forma di organizzazione politica è vissuta come inadeguata alla realtà sodale ed economica; così come si deve adeguare l’individuo, si vorrebbe un adeguamento anche delle forme della vita collettiva, tanto più che da un adeguamento ci si aspetta l’efficienza dello stato come un’enorme azienda in una tutt’altro che pacifica competizione tra tutti. Coloro, la cui reale impotenza perdura, non possono sopportare il meglio nemmeno come apparenza; preferirebbero sbarazzarsi dell’obbligo di un’autonomia, alla quale dubitano comunque di poter sopravvivere, gettandosi nel crogiolo dell’Io collettivo.

Ho accentuato gli aspetti cupi seguendo la massima secondo cui oggi solo l’esagerazione sarebbe lo strumento della verità. Non interpretate le mie osservazioni frammentarie e, per molti versi, rapsodiche come esercizio spengleriano: questo farebbe causa comune con la sciagura. Il mio intento era di definire una tendenza coperta dalla piatta facciata del quotidiano, prima che rompa gli argini istituzionali che per il momento le si frappongono. Il pericolo è oggettivò; non è primariamente nelle persone. Come detto, molte cose inducono a ritenere che la democrazia, con tutti i suoi addentellati, incida sulle persone più profondamente che nel periodo weimariano. Sottolineando quanto non è così evidente ho trascurato ciò che per esigenza di ponderatezza non si può non considerare: il fatto che, all’interno della democrazia tedesca, dal 1945 ad oggi, la vita materiale della società si sia riprodotta in modo più ricco, come non era mai successo prima a memoria d’uomo, e questo, naturalmente, è rilevante anche dal punto di vista sociopsicologico. L’affermazione secondo cui la democrazia tedesca, e quindi anche l’autentica elaborazione del passato, non se la passerebbe male, se solo ne avesse il tempo e molte altre cose ancora, certamente non sarebbe troppo ottimistica. Solo che il concetto dell’aver tempo implica un che di ingenuo e nel contempo di contemplativo in senso deteriore. Non siamo né semplici spettatori della storia del mondo, che possano scorrazzare più o meno indisturbati all’interno dei suoi grandi spazi, né la stessa storia universale, il cui ritmo somiglia sempre più a quello della catastrofe, sembra concedere ai suoi soggetti un tempo in cui tutto migliori da sé. Questo rimanda direttamente alla pedagogia democratica. Rischiarare quanto successo deve contrastare soprattutto un oblio che troppo facilmente coincide con la giustificazione dell’oblio; per esempio da parte dei genitori, che dai loro figli devono sentire l’imbarazzante domanda su come siano andate le cose per quanto riguarda Hitler, e che rispondono, anche per lavarsene le mani, parlando dei lati buoni e dicendo che non sarebbe stato poi così terribile. In Germania è di moda bistrattare l’educazione sociopolitica, e certamente potrebbe essere migliore, ma la sociologia scolastica dispone già ora di dati che indicano che l’istruzione politica, nella misura in cui è applicata seriamente e non come fastidiosa incombenza, produce più cose positive di quanto generalmente la si ritenga capace. Se si prende tuttavia sul serio, come credo si debba fare, il potenziale oggettivo di un perdurare del nazionalsocialismo, allora bisogna dire che questo pone dei limiti anche alla pedagogia illuminata. Che sia impostata sociologicamente o psicologicamente, in pratica raggiunge per lo più solo quelli che sono aperti a questo discorso e proprio perciò difficilmente inclini al fascismo. È tutt’altro che superfluo però, rinsaldare anche questo gruppo, mediante un’azione illuminante, nei confronti dell’opinione non pubblica. Al contrario, sarebbe pensabile che al suo interno possa formarsi qualcosa che assomigli a dei quadri il cui agire nei vari settori potrebbe quindi toccare l’insieme, e a tal fine le possibilità sono tanto più favorevoli quanto più ne diventano essi stessi coscienti. Ma naturalmente non ci si può accontentare della Aufklärung presso questi gruppi. Voglio, a tal proposito, prescindere da una questione estremamente difficile e che grava di un’enorme responsabilità: fino a che punto, cioè, sia efficace scavare nel passato nell’ambito dei tentativi di rischiaramento pubblico o se piuttosto l’insistere su questo aspetto non susciti un’ostinata resistenza e un effetto contrario quello desiderato. A me sembra piuttosto che il conscio non può mai veicolare tanta sventura come l’inconscio, il semi-conscio e il preconscio. Probabilmente dipenderà dal modo in cui si richiama alla memoria il passato; dipende se ci si ferma al semplice rimprovero o se si affronta l’orrore con la forza di capire perfino l’inconcepibile. A tal fine si renderebbe tuttavia necessaria l’educazione degli educatori. La quale è serissimamente pregiudicata dal fatto che ciò che in America si chiama «behavioural sdences» non trova alcun riscontro, o quasi, in Germania. Bisognerebbe rivendicare con urgenza, nelle università, il potenziamento di una sociologia che coincida con gli studi storici della nostra epoca. Anziché diffondere profonde riflessioni di seconda mano sull’essere dell’uomo, la pedagogia dovrebbe assumersi il compito del quale la “reeducation”, secondo le critiche mossele, non si sarebbe dimostrata all’altezza. In Germania la criminologia è ancora lungi dall’aver raggiunto lo standard moderno. Bisogna però pensare soprattutto alla psicoanalisi, che continua a essere rimossa. O è del tutto assente, o la si è sostituita con degli indirizzi che, mentre si vantano di superare il tanto biasimato diciannovesimo secolo, in realtà non hanno ancora digerito la teoria freudiana, o magari la trasformano nel suo contrario. La sua conoscenza puntuale e non annacquata è più attuale che mai. L’odio contro di essa è immediatamente identico all’antisemitismo, assolutamente non solo perché Freud era ebreo, ma perché la psicoanalisi consiste proprio in quell’autocoscienza critica che manda in bestia gli antisemiti. Quanto meno è pensabile, se non altro per motivi di tempo, qualcosa come un’analisi di massa, tanto più salutare sarebbe tuttavia l’influsso di una seria psicoanalisi, se trovasse riscontro sul piano istituzionale, sul clima culturale in Germania, anche se consistesse solo nel fatto che diventi normale non vibrare fendenti verso l’esterno, ma riflettere su se stessi e sul proprio rapporto con coloro contro cui solitamente infuria la coscienza incallita. Comunque, i tentativi di contrastare soggettivamente l’oggettivo potenziale della tragedia non dovrebbero limitarsi a rettifiche che inciderebbero appena sulla gravità del fenomeno che si tratta di combattere. Eventuali riferimenti alle grandi prove di cui alcuni ebrei in passato si sarebbero resi meritevoli, per quanto veri, non sono molto utili ma sanno di propaganda. Ma la propaganda, la manipolazione razionale dell’irrazionale, è prerogativa dei totalitari. Coloro che vi si oppongono non dovrebbero imitarne i modi in cui avrebbero inevitabilmente la peggio. Gli elogi di ebrei, che li isolano come gruppo, avvantaggiano troppo l’antisemitismo. Il quale è difficile da confutare proprio perché l’economia psichica di un’infinità di persone ne aveva bisogno e, in misura ridotta, probabilmente ne ha bisogno ancora oggi. Tutto ciò che si fa di propagandistico, rimane ambiguo. Mi hanno raccontato di una donna che ha assistito a una rappresentazione teatrale del Diario di Anna Frank e che alla fine, sconvolta, ha detto: ma almeno la ragazza avrebbero potuto lasciarla viva. Certo, non male come primo passo per una presa di coscienza. Ma il caso individuale, che dovrebbe rischiarare esemplarmente l’orrore del tutto, nello stesso tempo, in virtù della sua stessa individualità, è diventato l’alibi del tutto, di cui quella donna si è dimenticata. Ciò che infastidisce facendo tali osservazioni è che non si possono sconsigliare, per causa sua, rappresentazioni del brano di Anna Frank e simili, perché il loro effetto, anche se uno lo può trovare ripugnante, e sebbene paia oltraggiare la dignità dei morti, affluisce comunque alla causa del meglio. Io non credo neanche che siano molto utili gli incontri tra gruppi, incontri tra giovani tedeschi e israeliani e altre manifestazioni d’amicizia, per quanto desiderabile resti tale contatto. Questo atteggiamento presuppone troppo disinvoltamente che l’antisemitismo abbia a che vedere essenzialmente con gli ebrei e che possa esse­re combattuto mediante esperienze concrete con ebrei, mentre il vero antisemita si definisce per la sua indisponibilità all’esperienza e al dialogo. Se l’antisemitismo si fonda principalmente su basi oggettivo-sociali, e solo marginalmente sugli antisemiti, allora questi ultimi avrebbero probabilmente dovuto inventare gli ebrei, conformemente alla barzelletta nazionalsocialista, se non ci fossero. Nella misura in cui lo si vuole combattere nei soggetti, sarebbe bene non aspettarsi troppo dal rimando a fatti coi quali essi in molti casi rifiuterebbero di confrontarsi o che neutralizzerebbero come eccezioni. Bisognerebbe piuttosto indirizzare gli argomenti ai soggetti ai quali si parla. Bisognerebbe renderli consci dei meccanismi che in loro stessi producono il pregiudizio razziale. Elaborazione del passato come rischiaramento è essenzialmente un indirizzarsi in questi termini al soggetto, un potenziamento della sua autocoscienza e quindi del suo Io. Ciò dovrebbe collegarsi alla conoscenza di alcuni indistrutti­bili trucchi propagandistici che si conciliano proprio con quelle predisposizioni psicologiche della cui presenza, negli uomini, dobbiamo tener conto. Poiché questi trucchi sono rigidi e di numero limitato, non è molto difficile individuarli, renderli noti e utilizzarli come una sorta di vaccino. Il problema della realizzazione pratica di un tale rischiaramento soggettivo potrebbe essere risolto, probabilmente, solo mediante uno sforzo comune di pedagogisti e psicologi che non si sottraggano, con il pretesto dell’oggettività scientifica, al compito più urgente posto alle loro discipline, oggi. A fronte tuttavia della violenza oggettiva veicolata dal perdurante potenziale, il rischiaramento soggettivo, anche se affrontato con tutt’altro vigore e con tutt’altra intensità rispetto al passato, non basterà. Se si vuole oggettivamente contrapporre qualcosa al pericolo oggettivo, non basta la sola idea, neanche quella di libertà e umanità che, come abbiamo avuto modo di imparare, nella sua forma astratta non significa poi gran che per gli uomini. Dal momento che il potenziale fascista si connette ai loro seppur limitati interessi, il rimedio più efficace è dato dal rimando ai loro interessi, e proprio a quelli più immediati, chiarificante in forza della sua verità. Ci si renderebbe veramente colpevoli di uno psicologismo cervellotico se questi sforzi non tenessero conto del fatto che la guerra e le sofferenze inflitte alla popolazione tedesca, pur non essendo riuscite a eliminare quel potenziale, ne hanno comunque condizionato la portata. Ricordare alla gente le cose più semplici: che un risveglio, aperto o mascherato, del fascismo genererebbe guerra, sofferenza e privazioni in un sistema autoritario, per sfociare in un probabile predominio della Russia sull’Europa; in breve, che condurrebbe a una politica disastrosa: tutto ciò colpirà la gente molto di più del rimando agli ideali o addirittura alla sofferenza degli altri, di cui, come aveva già intuito La Rochefoucauld, ci si dimentica relativamente presto. A fronte di questa prospettiva l’attuale malessere significa poco più che il lusso di uno stato d’animo. Ma Stalingrado e i bombardamenti notturni, nonostante la rimozione, non sono stati poi così dimenticati al punto da non rendere a tutti comprensibile il nesso tra la rianimazione di una politica che li ha resi possibili e la prospettiva di una terza guerra punica. Anche se questo riesce, il pericolo persisterà. Il passato verrebbe elaborato solo se ne fossero rimosse le cause. Ma il suo incantesimo finora non è stato spezzato perché le cause continuano a sussistere.

Da: Was bedeutet: Aufarbeitung der Vergangenheit, in Gesammelte Schriften, vol. 10, II, pp. 555572. Edizione italiana, 1994, Il Manifestolibri. Trad. ital. di Franco Filice.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.