Theodor Adorno, parola chiave: Educazione

L’educazione dopo Auschwitz

Mario Mancini
27 min readMar 16, 2020

Vai all‘indice del libro di T. Adorno “Parole chiave”

Frank Stella, “Lo sposalizio tra Ragione e Squallore”, 1959, The Museum of Modern Art, New York

L’esigenza che Auschwitz non si ripeta più un’altra volta si situa prima di ogni altra in campo educativo. Precede di tanto ogni altra, che credo non sia necessario fondarla né si abbia il dovere di farlo . Non riesco a capire come finora si sia potuto occuparsene così poco. Essa dovrebbe giustificare qualcosa di atroce davanti a quel che di atroce accadde. Il fatto però che di quell’esigenza, e delle questioni che essa solleva, si sia così poco consapevoli, indica che quell’atrocità non è stata capita dagli uomini, e ne è sintomo il continuare a sussistere della possibilità della sua reiterazione, per quanto riguarda lo stato conscio e inconscio degli uomini. Ogni dibattito sull’ideale dell’educazione è inutile e insignificante rispetto a questo solo fatto: che Auschwitz non si ripeta. Fu la barbarie, contro la quale insorge ogni educazione. Si parla di minaccia di una ricaduta nella barbarie. Ma la ricaduta non minaccia, bensì fu Auschwitz; la barbarie continua a sussistere, fintantoché sostanzialmente persistono le condizioni che fecero maturare quella ricaduta. Qui sta tutto l’orrore. La pressione grava di nuovo, malgrado ogni invisibilità del pericolo. Spinge gli uomini all’indicibile, che in Auschwitz culminò in proporzioni da storia mondiale. Tra le intuizioni di Freud, che invero sconfinano anche nella cultura e nella sociologia, una delle più profonde mi sembra quella secondo cui la civilizzazione produce, dal canto suo, il principio anti civilizzatore, e lo rafforza sempre più. Le sue opere Il disagio della civiltà e Psicologia delle masse e analisi dell’Io meriterebbero la più ampia divulgazione proprio in relazione ad Auschwitz. Se nel principio di civilizzazione trova le sue fondamenta anche la barbarie, allora esso possiede qualcosa di disperato, contro cui dobbiamo insorgere.

La presa di coscienza di come si possa impedire il ripetersi di Auschwitz viene offuscata dal fatto che si deve essere consci di questo aspetto disperato, se non si vuole cadere in preda al mero verbalismo di cui si pasce la mentalità idealistica. Ciononostante si deve tentare, anche perché la struttura fondamentale della società, e quindi quella dei suoi membri, che hanno condotto le cose fino a quel punto, sono oggi le medesime di venticinque anni fa. Milioni di uomini innocenti rammentare i numeri, o addirittura mercanteggiare su di essi, è già disumano furono sistematicamente assassinati. Nessun essere vivente può liquidarlo come fenomeno superficiale, come aberrazione dal corso normale della storia, di cui non si dovrebbe tener conto di fronte alla tendenza principale al progresso, di fronte al rischiaramento, al sentimento di umanità presumibilmente crescente. Il fatto che si sia verificato è proprio espressione di una tendenza sociale il cui potere si spinge all’estremo. Vorrei inoltre richiamare l’attenzione su un episodio realmente accaduto, che molto sintomaticamente sembra non essere noto in Germania, sebbene un bestseller come Die vierzig Tage des Musa Dagh [I quaranta giorni di Musa Dagh] di Werfel ne abbia tratto il suo argomento. Già nella Prima guerra mondiale i Turchi il cosiddetto movimento dei Giovani Turchi sotto la guida di Enver Pascià e Talaat Pascià fece massacrare più di un milione di Armeni. Gli alti comandi militari tedeschi, e anche gli ambienti governativi, ne sono stati evidentemente a conoscenza, ma l’hanno tenuto rigorosamente segreto. Il genocidio affonda le sue radici in quella resurrezione del nazionalismo aggressivo, che dalla fine del diciannovesimo secolo ha trovato modo di attuarsi in molti Paesi.

Non è possibile respingere la riflessione che indica come l’invenzione della bomba atomica, la quale letteralmente è in grado di cancellare di colpo centinaia di migliaia di persone, appartenga allo stesso contesto storico del genocidio. L’improvviso aumento della popolazione oggi si preferisce chiamarlo “esplosione demografica”: è come se la fatalità storica avesse approntato, in corrispondenza all’esplosione demografica, anche le contro esplosioni, l’uccisione cioè di intere popolazioni. Questo basta per far capire quanto le forze contro cui si deve combattere siano quelle inerenti al corso stesso della storia universale.

Poiché la possibilità di cambiare i presupposti obiettivi, cioè politici e sociali, che covano tali eventi, appare oggi estremamente limitata, i tentativi di contrastarne la ripetizione sono necessariamente accantonati dai soggetti. Con ciò mi riferisco essenzialmente anche alla psicologia degli uomini che cercano di far qualcosa in tale senso. Non credo possa servire a molto appellarsi a valori eterni, ai quali reagirebbero con un’alzata di spalle persino coloro che sono in balia di tali crimini; neppure credo potrebbe essere molto utile la chiarificazione delle qualità positive possedute dalle minoranze perseguitate. Le radici sono da cercare nei persecutori, non nelle vittime, che si è dato ordine di trucidare ricorrendo per questo ai pretesti più vili. È dunque necessaria quella che una volta, per quanto concerne tale aspetto, ho chiamato una svolta nel modo di porsi del soggetto. Si devono riconoscere i meccanismi che rendono gli uomini tali da essere capaci di simili azioni, si devono indicare loro proprio questi meccanismi, e cercare di impedire che essi diventino così un’altra volta, suscitando in loro una generale consapevolezza di quei meccanismi stessi. Non i massacrati sono i colpevoli, neppure nel senso sofistico e caricaturato del termine, che molti oggi gli vorrebbero ancora conferire. Sono colpevoli solo coloro che, infranta ogni barriera della coscienza, hanno dato sfogo sfrenato al loro odio e al loro furore aggressivo sulle vittime. Tale perdita di coscienza ha da essere contrastata; è doveroso si distolgano gli uomini dal colpire verso l’esterno, in assenza di qualsiasi riflessione su se stessi. L’educazione avrebbe un senso in generale, solo allorché fosse un’educazione all’auto riflessione critica. Dal momento però che i caratteri, anche quelli di coloro che in seguito nella vita perpetrarono quei crimini, generalmente si formano come ci fa conoscere la psicologia del profondo già nella prima infanzia, l’educazione che volesse impedire la reiterazione di siffatto orrore dovrebbe quindi di necessità concentrarsi sulla prima infanzia. Vi ho ricordato la tesi di Freud sul disagio della civiltà. Essa però è ancor più ampia e comprensiva di quanto l’abbia intesa Freud stesso; innanzitutto perché nel frattempo la spinta civilizzatrice che egli osservò ha trovato modo di moltiplicarsi fino all’insopportabile. Si sono potenziate così anche quelle tendenze all’esplosione, su cui egli richiamò l’attenzione, ma che non gli fu possibile constatare di persona. Il disagio nella civiltà ha tuttavia cosa che Freud non misconobbe, anche se in pratica non se ne occupò il suo risvolto sociale. Si può parlare della claustrofobia dell’umanità nel mondo amministrato, di un senso dell’essere chiusi nella gabbia di un contesto completamente socializzato, simile al fitto ordito di una rete. Quanto più fitta è la rete, tanto più si vuole uscirne, mentre proprio il suo essere fitta rende impossibile l’uscita. Tale circostanza rafforza il furore contro la civilizzazione. Violentemente e irrazionalmente si insorge allora contro di essa.

Uno schema che si è confermato come valido nella storia di tutte le persecuzioni è quello per cui il furore si indirizza contro i deboli, soprattutto contro quelli che si percepiscono come socialmente deboli, e, nel contempo — a ragione o a torto — come felici. Dal punto di vista sociologico oserei aggiungere che la nostra società, mentre si integra sempre più, cova nello stesso tempo tendenze volte alla disintegrazione. Queste tendenze, fitte sotto la superficie della vita ordinata, civilizzatrice, sono estremamente avanzate. La pressione dell’universale dominante su tutto ciò che è particolare, sui singoli individui e le singole istituzioni, ha un’inclinazione a distruggere il particolare e il singolo insieme con la forza di opposizione che è loro insita. Con la loro identità e la loro forza di resistenza gli uomini perdono anche le qualità in virtù delle quali potrebbero opporsi a ciò che in ogni tempo di nuovo induce in modo allettante al crimine. Forse ancora si rivelerebbero non capaci di resistere, se venisse loro comandato dalle autorità costituite di farlo un’altra volta, purché ciò avvenisse in nome di qualche mezzo ideale, o addirittura di un ideale cui non si crede affatto.

Quando parlo di “educazione dopo Auschwitz”, mi riferisco a un complesso di due fattori: innanzitutto all’educazione nell’infanzia, in particolare nella prima infanzia; e in secondo luogo al rischiaramento universale, che dà origine a un clima spirituale, culturale e sociale che non ammette alcuna reiterazione dell’orrore, un clima dunque in cui i motivi che hanno condotto all’orrore vengano in qualche modo conosciuti. Non ho ovviamente la presunzione di abbozzare anche solo nei suoi lineamenti essenziali il progetto di una simile educazione. Ma vorrei almeno indicarne alcuni punti nodali. Spesso per esempio in America si è addossata la responsabilità del nazionalsocialismo e anche di Auschwitz allo spirito tedesco e alla sua credenza nell’autorità. A mio avviso però questa spiegazione è troppo superficiale, anche se è vero che da noi, come del resto in molti altri Paesi europei, le forme di comportamento autoritario e l’autorità cieca continuano a persistere molto più tenacemente di quanto non si voglia ammetterlo in condizioni di democrazia formale. Si deve piuttosto supporre che il fascismo e l’orrore che esso arrecò fossero strettamente connessi, nel momento del loro insorgere, al fatto che le vecchie autorità consolidatesi all’interno dell’impero tedesco erano dissolte, rovesciate, ma gli uomini, allora, non erano ancora pronti psicologicamente all’auto determinazione. Non si dimostravano, cioè, all’altezza della libertà che era loro piovuta dal cielo. Per questo le strutture autoritarie hanno poi assunto quella dimensione distruttiva e se così posso dire alienata, che prima non avevano, o comunque non manifestavano. Se si pensa a come le visite di qualche sovrano, che dal punto di vista politico non ha più alcuna funzione reale, conducano a scalmane a esito estatico da parte di intere popolazioni, è dunque ben fondato il sospetto che il potenziale autoritario, ora come sempre, sia molto più forte di quanto si potrebbe pensare. Vorrei però energicamente rilevare che la possibilità della reiterazione o meno del fascismo in definitiva non è una questione psicologica, bensì sociale. Del momento psicologico parlo, soltanto perché gli altri momenti essenziali si discostano ampiamente sottraendosi al riferimento alla volontà appunto di educazione, qualora non si faccia eminentemente riferimento all’intervento dei singoli.

Spesso viene citato dai ben intenzionati, che non vorrebbero che quell’orrore si ripetesse ancora una volta, il concetto di legame [Bindung]. Al fatto cioè che gli uomini non fossero più capaci di mantenere alcun legame, andrebbe, secondo costoro, addossata la responsabilità di ciò che accadde. In effetti la perdita dell’autorità, che è una delle condizioni dell’orrore sadicoautoritario, fa con tale fatto tutt’uno. Per il buon senso è dunque plausibile appellarsi ai legami morali, che si vuole impongano a ciò che è sadico, distruttivo, devastatore, di arrestarsi mediante un energico: “Non devi”. Ciononostante ritengo sia un’illusione pensare che, ricorrendo ai legami o addirittura rivendicandoli come necessari e promuovendone l’avvento, nella convinzione che si debbano contrarre nuovi vincoli morali perché in tal modo le cose andrebbero meglio nel mondo e negli uomini, si possa acquisire sul serio un qualche giovamento. La non verità dei legami, che vengono di solito richiesti solo se essi sono in grado di provocare qualcosa sia pure di buono sul piano operativo, senza che di essi, in se stessi, agli uomini sia dato di far esperienza come di qualcosa di ancora sostanziale, viene infatti avvertita molto presto. È sorprendente con quale prontezza reagiscono gli uomini, anche i più stolti e ingenui, quando si tratta di fiutare un lato debole in chi viene avvertito come migliore. Facilmente i cosiddetti legami o diventano una garanzia di legittimazione — li si assume per poter essere definiti cittadini fidati — o producono astioso rancore, e quindi psicologicamente il contrario di ciò per cui vengono adoperati. Essi significano eteronomia, un rendersi dipendente da comandi, da norme, che non si assumono la responsabilità di render conto del loro contenuto davanti alla ragione propria dell’individuo. Quello che la psicologia chiama Super io, la coscienza morale [Gewissen], viene sostituito, in nome del legame, con autorità esterne, non vincolanti, intercambiabili, come si è potuto osservare molto chiaramente anche in Germania dopo il crollo del Terzo Reich. Ma la disposizione a parteggiare per il potere e a sottomettersi formalmente a ciò che è più forte come norma, è appunto il carattere tipico degli aguzzini di Auschwitz, che non deve più risorgere. Per questo motivo la raccomandazione che impone come doverosi i legami si rivela così fatale. Gli uomini che la accettano più o meno volontariamente cadono in una condizione in cui permanentemente hanno bisogno di essere comandati. L’unica vera forza contro il principio di Auschwitz potrebbe essere l’autonomia, se mi è lecito adoperare l’espressione kantiana; la forza cioè che spinge verso la riflessione, l’auto determinazione, il non fare ciò che fanno gli altri.

Una volta mi ha molto spaventato un’esperienza: durante un viaggio al lago di Costanza lessi una rivista del Baden, in cui si riferiva del dramma di Sartre Morti senza sepoltura , che rappresenta le cose più orrende. Per il critico quel dramma era manifestamente scomodo. Ma egli non ha spiegato questo suo disagio con l’orrore della cosa stessa, che è l’orrore del nostro tempo, bensì ha rigirato talmente la questione, che noi, nei riguardi di un atteggiamento come quello di Sartre, che si occupa di tali crimini, saremmo indotti piuttosto a pensare per così dire a qualcosa di più elevato: come se non fosse nella nostra facoltà il riconoscere l’orrore come privo di senso. In breve: il critico voleva sottrarsi con nobili chiacchiere esistenziali al confronto effettivo con l’orrore. Non da ultimo proprio in questo atteggiamento è insito il pericolo che Auschwitz si ripeta, che non si sia capaci di impedire che avvenga, e che si cacci via chi anche solo ne parla, qualora lo faccia senza mezzi termini, quasi fosse lui, e non gli autori materiali del misfatto, da considerare il vero colpevole.

Nel problema di autorità e barbarie mi si impone un aspetto che generalmente non viene preso in considerazione. A esso rimanda un’osservazione del libro Der SS Staat [Lo Stato SS] di Eugen Kogon, che contiene una presa di visione centrale dell’intero complesso, e che non è stato ancora assimilato dalla scienza e dalla pedagogia correnti come meriterebbe. Kogon dice che gli aguzzini del campo di concentramento in cui egli stesso ha trascorso interi anni, erano per la maggior parte figli più giovani di contadini. La differenza culturale pur sempre perdurante tra città e campagna è dunque una, anche se certamente non l’unica e la più importante, delle condizioni dell’orrore. Premetto che ogni alterigia nei riguardi della gente di campagna mi è estranea. So che non è responsabilità di nessuno se un tale si trova ad abitare in città o invece a crescere in un villaggio di campagna. Prendo nota quindi soltanto del fatto che probabilmente la debarbarizzazione in campagna è riuscita ancor meno che altrove. Anche la televisione e gli altri mass media non hanno certo apportato troppi mutamenti nella situazione che caratterizza la campagna, i cui abitanti non sono affatto riusciti finora a tener dietro all’evoluzione culturale. Mi sembra più corretto ammetterlo e cercare di opporvisi, che magnificare sentimentalmente qualche particolare qualità della vita di campagna, che minacci di andar perduta. Giungo anzi al punto di ritenere che la debarbarizzazione della vita di campagna sia uno degli scopi più importanti dell’educazione. Essa presuppone, invero, uno studio della coscienza e dell’inconscio della popolazione rurale. Soprattutto ci si dovrà anche occupare dell’impatto dei moderni mass media con uno stato di coscienza che di gran lunga non ha ancora raggiunto lo stadio del liberalismo culturale borghese del diciannovesimo secolo. Per cambiare questa situazione non dovrebbe essere sufficiente il normale sistema delle scuole elementari, in campagna spesso molto problematico. Penserei piuttosto a una serie di possibilità. Una sarebbe — sto improvvisando — che le trasmissioni televisive fossero progettate in considerazione dei punti nevralgici di quello specifico stato di coscienza, per poter agire su di essi. Sarei tentato poi di immaginare che venisse costituito qualcosa di simile a dei gruppi di studio e a delle colonne mobili di istruzione, formati da volontari, il cui compito sarebbe di girare in lungo e in largo per la campagna nell’intento di promuovere discussioni, conferenze e lezioni supplementari, al fine di colmare le lacune culturali suscettibili di rivelarsi minacciose. Con ciò non intendo certo negare il fatto che tali volontari difficilmente verrebbero considerati graditi. Ciò nonostante potrebbe formarsi intorno a loro un circolo inizialmente assai ristretto di persone interessate a ciò che verrebbe loro detto, e da lì si potrebbe forse in­cominciare.

Nessun malinteso in verità dovrebbe sorgere però sull’asserzione che chiarisce come l’arcaica inclinazione alla violenza si trovi anche nei centri urbani, e, segnatamente, proprio in quelli più grandi. Tendenze alla regressione voglio dire, uomini con pulsioni sadiche represse oggi vengono prodotte dovunque dalla tendenza che il tutto sociale fa sorgere da sé. A questo proposito vorrei ricordare il rapporto obliquo e patologico col corpo, di cui Horkheimer e io abbiamo parlato nella Dialettica dell’Illuminismo . Ovunque la coscienza sia mutilata, essa viene rigettata, in una forma non libera, tendente all’azione violenta, sul corpo e sulla sfera del corporeo. Basta soltanto osservare come in un determinato tipo di incolti già il loro linguaggio soprattutto se si espone o si contesta qualcosa trapassi facilmente nel minaccioso, come se gli atti verbali fossero gesti di una violenza fisica incontrollata. A questo proposito penso che si dovrebbe anche studiare il ruolo dello sport, che in verità non è ancora stato riconosciuto a sufficienza da una psicologia sociale realmente critica. Lo sport è ambiguo: da un lato può agire infatti in senso antibarbarico e antisadico attraverso il fair play, la cavalleria, il rispetto per i più deboli. Dall’altro, però, in parecchi dei suoi tipi e modi di azione, può favorire l’aggressione, la brutalità e il sadismo, soprattutto nelle persone che non si sottopongono esse stesse allo sforzo e alla disciplina dello sport, ma stanno solo a guardare; in quelli, cioè, che sono soliti urlare allo stadio. Tale ambiguità dovrebbe essere analizzata sistematicamente. Nella misura in cui l’educazione può influire su questo stato di cose, i risultati delle indagini sperimentali dovrebbero essere poi applicati alla vita sportiva.

Tutto questo è più o meno strettamente connesso con l’antica struttura autoritariamente vincolata [autoritätsgebunden], con i modi di comportamento per così dire del buon vecchio carattere autoritario.

Ciò che però Auschwitz ha fatto emergere da sé, i tipi caratteristici per il mondo di Auschwitz, rappresenta presumibilmente qualcosa di nuovo. Da un lato tali tipi sono caratterizzati dalla identificazione cieca con la collettività; dall’altro essi sembrano fatti apposta per manipolare le masse, le collettività, al pari dei vari Himmler, Höss e Eichmann. Per questo penso che la cosa più importante da fare, di fronte al pericolo di una ripetizione, sia proprio di contrastare il cieco prepotere di ogni collettività, di aumentare la resistenza a esso, mettendo adeguatamente in luce il problema connesso al processo di collettivizzazione. Il quale non è poi così astratto come sembra, qualora si faccia prevalentemente riferimento alla passione giovanile, alla coscienza di coloro che sono naturalmente progressisti e perciò smaniosi di entrare a far parte per l’appunto di una collettività. In relazione a tale problema vanno rammentate le sofferenze che le collettività arrecano in un primo tempo a tutti gli individui che vengono accolti in esse. Basta per questo pensare alle prime esperienze a scuola di ciascuno di noi. Si dovrebbe combattere contro quella specie di folk ways, di costumi popolari, di riti di iniziazione di qualsiasi forma, che arrecano a un individuo dolore fisico spesso fino all’insopportabile come prezzo da pagare per potersi sentire appartenente al gruppo, uno della collettività. Il male di usanze come le notti brave e le procedure giudiziarie popolari o come altrimenti possono chiamarsi simili popolari costumi autoctoni, costituiscono la premessa all’atto di violenza nazionalsocialista. Non è un caso che i nazisti abbiano esaltato e praticato tali atrocità sotto il nome di “usanza”. La scienza potrebbe trovare qui un compito di altissima attualità. Potrebbe cioè energicamente ribaltare la tendenza del folklore, che fu requisita con entusiasmo fanatico dai nazionalsocialisti, per controllare la sopravvivenza a un tempo brutale e spettrale di questi piaceri popolari.

In quest’ambito complessivo è in gioco un presunto ideale, che nell’educazione tradizionale ha anche per altri aspetti una sua notevole importanza: quello della severità. Esso può anche richiamarsi, abbastanza ignominiosamente, a un motto di Nietzsche, sebbene quest’ultimo veramente significasse qualcos’altro. Ricordo che il terribile Boger, durante un dibattito su Auschwitz, ebbe un’esplosione, che culminò in un panegirico dell’educazione alla disciplina mediante la severità. A suo parere essa sarebbe necessaria per creare il tipo di uomo che a lui sembra giusto. Quest’immagine educativa della severità, a cui molti possono finire col credere se non ci riflettono sopra, è invece completamente distorta. L’idea che la virilità consista nella capacità, sviluppata a un grado altissimo, di sopportare dolori d’ogni genere, è diventata da un pezzo l’immagine di copertura di un masochismo che come ha dimostrato la psicologia si accompagna al sadismo anche troppo facilmente. Il glorificato “essere duro”, a cui si deve allora educare, significa semplicemente insensibilità al dolore. Inoltre non si fa affatto una distinzione molto netta tra il proprio e l’altrui. Chi è duro verso se stesso acquista il diritto di esserlo anche verso gli altri, e si vendica così del dolore, i cui sentimenti non gli era lecito manifestare e che egli doveva reprimere. Rendere coscienti gli individui di questo meccanismo è altrettanto necessario del promuovere un’educazione che non stabilisca più, come prima; premi per il dolore e per la capacità di resistenza alle sofferenze. In altri termini, l’educazione dovrebbe attuare sul serio un concetto che non è affatto estraneo alla filosofia: che cioè non si deve reprimere la paura. Se questa non viene repressa, se ci si permette di avere realmente tanta paura quanta ne richiede questa realtà, allora probabilmente, proprio in tal modo, molto dell’effetto distruttivo della paura inconscia e rimossa si annullerà.

Gli individui che si inquadrano ciecamente nella collettività riducono se stessi a una specie di materiale, si annullano come esseri auto determinati. A ciò fa riscontro la disposizione a trattare gli altri come massa amorfa. Nella Personalità autoritaria ho definito coloro che si comportano così “carattere manipolativo”, e in verità in un periodo in cui non erano ancora noti il diario di Höss o gli appunti di Eichmann. Le mie descrizioni del carattere manipolativo risalgono agli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. A volte infatti la psicologia sociale e la sociologia riescono a costruire concetti, che solo in seguito giungono sul piano empirico a verificare integralmente se medesimi. Il carattere manipolativo ognuno può controllare quest’affermazione sulle fonti di cui è dato disporre intorno ai capi nazisti si distingue per la mania dell’organizzazione, per l’incapacità di fare in generale esperienze umane dirette, per un certo tipo di assenza di emozioni, per un eccessivo realismo. L’individuo che presenta tale carattere vuole a ogni costo fare una politica che pretende di definirsi anche se poi risulta illusoria come politica realistica. Pensa o desidera in continuazione che il mondo, diversamente da com’è, sia posseduto dalla volontà of doing things, di fare le cose, in completa indifferenza al contenuto di tale operare. Ha per il fare, per l’attività, per la cosiddetta efficiency in quanto tale, un culto che ritroviamo riecheggiato dalla pubblicità per gli uomini attivi. Questo tipo ha nel frattempo avuto se le mie osservazioni non mi ingannano e se alcune indagini sociologiche permettono una generalizzazione una diffusione molto più ampia di quanto si potesse pensare. Ciò che allora era esemplificato da alcuni mostri nazisti, lo si può constatare oggi in un grandissimo numero di persone, per esempio nei giovani delinquenti, nei capibanda e simili, di cui ogni giorno si legge sui giornali. Se dovessi ridurre a una formula questo tipo consistente nel carattere manipolativo — forse non si dovrebbe dir così, ma per farsi capire può andar bene –, lo chiamerei il tipo della coscienza reificata. Solo gli uomini che sono così costituiti hanno, per così dire, eguagliato se stessi alle cose. Allora, quando è loro possibile, essi rendono gli altri pari alle cose. L’espressione “liquidare” [fertigmachen] , altrettanto popolare nel mondo dei giovani malviventi come in quello dei nazisti, esprime questo fatto alla perfezione. Tale espressione definisce infatti gli uomini, nel doppio senso che le è insito, alla stregua di cose da liquidare in senso giuridico, come oggetti di un procedimento fallimentare. La tortura, secondo l’intuizione di Max Horkheimer, non è che l’adattamento, “compreso nella regia” e per così dire accelerato, degli uomini alla collettività. Qualcosa di simile costituisce l’essenza dello spirito del nostro tempo per quanto poco ciò possa aver a che fare con lo spirito. Cito soltanto le parole dette da Paul Valéry anteriormente alla Prima guerra mondiale: l’umanità ha un grande avvenire. Risulta particolarmente difficile contrastare una simile affermazione, perché tali uomini manipolativi, che propriamente non sono capaci di vivere delle esperienze, proprio per questo presentano caratteristiche di incomunicabilità, che li rendono assimilabili a certi psicopatici o caratteri psicotici, agli schizoidi.

Nel contesto della ricerca dei modi in cui si può tentare di opporsi al ripetersi di Auschwitz, mi sembra dunque essenziale chiarire innanzitutto come si forma il carattere manipolativo, allo scopo di impedirne poi alla meglio, mediante la trasformazione delle condizioni che lo favoriscono, il nascere. A questo proposito vorrei fare una proposta concreta: dovremmo studiare i colpevoli di Auschwitz con tutti i metodi scientifici disponibili, in particolare con quelli offerti dalla psicoanalisi, che ha al suo attivo anni di ricerche e di approfondimenti, per riuscire a scoprire le ragioni in grado di spiegare come un uomo possa diventare così.

Ciò che di buono i colpevoli possono in qualche modo ancora fare, consiste appunto in questo, nel prestarsi, entrando in dissidio con la loro particolare struttura caratteriale, a dare un aiuto affinché Auschwitz non accada un’altra volta. Ovviamente questo potrebbe verificarsi solo allorché essi volessero collaborare allo studio della genesi del fenomeno che rappresentano. È vero che sarebbe senz’altro difficile indurli a parlare, ma in nessun caso si dovrebbe usare nei loro riguardi qualcosa di simile ai loro metodi, sia pure allo scopo di apprendere come diventarono così. Per ora comunque essi si sentono tanto al sicuro immersi come sono nel loro peculiare collettivo, riscaldati dal sentimento di esser tutti insieme — come buoni vecchi nazisti –, che nemmeno uno ha dato segno anche solo di un elementare senso di colpa. Probabilmente, però, si danno anche tra di loro, o per lo meno in alcuni di loro, dei punti di aggancio psicologici grazie ai quali una tale situazione potrebbe essere trasformata; mi riferisco per esempio al loro narcisismo, e, per dirla in parole semplici, alla loro presunzione. Questi individui riescono infatti a sentirsi importanti, se si dà loro l’occasione di parlare di sé senza impedimenti, al pari di Eichmann, il quale si espresse apertamente e con tale dovizia, che avrebbe potuto riempire, coi suoi detti raccolti in volume, intere biblioteche. Dopo tutto si deve supporre che anche in queste persone, se si scava abbastanza in profondità, si possano trovare dei residui dell’antica istanza della coscienza morale, oggi spesso esistente allo stato di dissoluzione. Ma una volta che si conoscano le condizioni esterne e interne che le resero tali — se mi è lecito avanzare l’ipotesi che le si possa scoprire effettivamente –, allora forse si potranno trarre conclusioni pratiche atte a impedire che le cose diventino ancora una volta così. Se il tentativo possa servire a qualcosa oppure no, risulterà chiaro soltanto quando sarà stato fatto; non vorrei per il momento sopravvalutarlo. È necessario tener presente che gli uomini e il loro agire non possono essere spiegati automaticamente a partire da determinate condizioni: nelle medesime condizioni alcuni diventano così, e altri diventano completamente diversi. Ciononostante varrebbe la pena di intraprendere un simile tentativo. Anche solo nella semplice formulazione del problema: “come si è diventati così”, dovrebbe già esserci infatti un potenziale chiarificatore. Perché è proprio del funesto stato conscio e inconscio dell’uomo il ritenere falsamente il proprio essere così — l’essere così e non altrimenti — come natura, come un dato immutabile, e non come qualcosa che si è divenuti. Ho fatto riferimento al concetto della coscienza reificata. Va detto che tale coscienza è in primo luogo e propriamente una coscienza che si schermisce da ogni essere divenuto, che cerca di eludere ogni presa di visione della propria condizionatezza, e che, in tal modo, pone in modo assoluto ciò che “è così”, l’immediatamente essente. Una volta che si fosse infranto questo meccanismo di coazione, mi troverei a pensare che si sarebbe pur ottenuto qualcosa.

È da aggiungere che, nel contesto della coscienza reificata, si dovrebbe attentamente considerare anche il suo rapporto con la tecnica, e questo non solo per quel che concerne i piccoli gruppi. Tale rapporto è ambiguo come quello dello sport, al quale del resto si mostra imparentato. Da un lato ogni epoca produce quei caratteri — tipi di distribuzione di energia psichica — di cui ha socialmente bisogno. Un mondo in cui la tecnica ha una posizione chiave come quello odierno, produce uomini tecnologici che vibrano all’unisono con la tecnica. Ciò ha la sua brava razionalità: per quel che concerne la sfera peculiare della loro attività, essi si lasceranno impartire meno prescrizioni, e questo potrà avere delle ripercussioni anche in un ambito più generale. Dall’altro lato c’è nel rapporto attuale con la tecnica qualcosa di esagerato, di irrazionale, di patogeno. Tale stato di cose è strettamente connesso a quel che potremmo chiamare il “velo tecnologico”. Gli uomini hanno cioè la tendenza a intendere la tecnica come la cosa stessa, come uno scopo autonomo, come una forza del loro essere, dimenticando perciò che essa è il prolungamento del braccio degli uomini. Gli strumenti — e la tecnica è un complesso [Inbegriff], subordinato a un principio informatore, di strumenti che servono per l’auto conservazione della specie uomo — vengono feticizzati, perché gli scopi — una vita degna di un uomo — sono occultati e separati dalla coscienza degli individui. Enunciandola così in generale come per l’appunto l’ho formulata io, la cosa dovrebbe risultare chiara. Ma una simile ipotesi è ancora troppo astratta. In realtà non si sa affatto con precisione come la feticizzazione della tecnica si faccia strada nella psicologia individuale dei singoli uomini, dove sia da localizzare la soglia che divide un rapporto razionale con la tecnica da quella sopravvalutazione di essa, che in definitiva conduce a un punto estremo, a quella situazione, cioè, in cui si offre lo spettacolo di uno impegnato per esempio a escogitare un sistema di trazione ferroviario, in grado di portare ad Auschwitz le vittime il più velocemente possibile e senza difficoltà, nella più completa dimenticanza di ciò che ad Auschwitz vien fatto loro. Per quanto concerne il tipo che inclina alla feticizzazione della tecnica, appartengono a esso, per dirla in termini semplici, uomini che non sono capaci di amare. Il che non è da intendere in senso sentimentale o moralistico, bensì come qualcosa che denota la mancanza di un investimento libidico in altre persone. Tali individui sono del tutto freddi, sono costretti a negare fin nel profondo la possibilità di amore, distolgono a priori il loro amore dagli altri uomini prima ancora che esso si formi. Ciò che sopravvive in qualche modo in loro di capacità di amore, devono per forza usarlo come strumento. I caratteri impregnati di pregiudizi, autoritariamente vincolati, con i quali avemmo a che fare in occasione del lavoro sulla Personalità autoritaria, a Berkeley, fornirono parecchie prove giustificative ad hoc. Un “soggetto dell’indagine sperimentale” il termine è esso stesso già un termine coniato dalla coscienza reificata disse di sé: I like nice equipment [mi piacciono i bei meccanismi, le belle apparecchiature], nella più completa indifferenza per ciò che erano in effetti queste apparecchiature. Il suo amore veniva assorbito dalle cose, dalle macchine in quanto tali. Ciò che sgomenta — che sgomenta, perché può sembrare, in tal modo, senza speranza l’opporvisi — è il fatto che questa tendenza si presenta associata all’intero processo in cui consiste la civilizzazione. Il combatterla equivale dunque a porsi contro lo spirito del mondo; ma così dicendo io ripeto solo qualcosa da me già anticipato all’inizio, definendolo come l’aspetto più oscuro di quel problema che consiste nell’impostazione di un processo educativo capace di contrapporsi ad Auschwitz.

Ho detto che quegli uomini sono freddi in un modo peculiare. Permettetemi di dire ancora due parole sulla freddezza in generale. Se essa non fosse un tratto fondamentale dell’antropologia, e quindi della specifica conformazione degli uomini, quali essi effettivamente risultano essere nella nostra società; se gli uomini quindi non fossero fin nel più profondo indifferenti a ciò che accade agli altri in generale al di fuori dei pochi cui si trovano, a essere strettamente legati, magari solo per interessi tangibili, allora Auschwitz non sarebbe stata possibile, allora gli uomini non l’avrebbero accettata. La società nella sua forma attuale e certo già da millenni non si fonda, come fu ideologicamente insinuato da Aristotele in poi, sull’attrattiva reciproca, sulla forza di attrazione che unisce i singoli, bensì sul perseguimento, da parte di ciascuno di questi, del proprio esclusivo interesse, di contro a quello di tutti gli altri. Questo fatto si è ripercosso sul carattere degli uomini fin dentro la loro parte più intima. Ciò che lo contraddice, l’istinto gregario della cosiddetta lonely crowd, della folla solitaria, è solo una reazione a esso, un assembramento di individui diventati freddi, che non sopportano la propria freddezza, ma neppure la possono cambiare. Ognuno oggi, senza eccezione, si sente troppo poco amato, perché ognuno è troppo poco capace di amare. L’incapacità di identificazione è stata senza dubbio la condizione psicologica più importante perché sia potuta accadere una cosa come Auschwitz, in mezzo a uomini in certo qual modo civili e innocui. Il fenomeno designato come “sodalizio” coincise primariamente con un interesse commerciale: col fatto cioè che si vedeva il proprio tornaconto prima di ogni altra cosa, e solo per non compromettere questo non ci si abbandonò imprudentemente alla parola. Questa è una legge universale dell’esistente. Il silenzio sotto il terrore ne era solo una conseguenza. La freddezza delle monadi sociali, dei concorrenti isolati, era, in quanto indifferenza al destino degli altri, il presupposto perché soltanto pochissimi si dessero da fare. I giustizieri, i servi accodati alla massa cieca, ben sanno ciò; proprio per questo ne danno sempre di nuovo la prova.

Non fraintendetemi. Non ho intenzione di predicare l’amore. Il predicarlo, lo ritengo inutile: a nessuno, a rigore, spetterebbe anche solo il diritto di predicarlo, perché la mancanza di amore l’ho già detto è una mancanza ravvisabile in tutti gli uomini senza eccezione, così come essi oggi sono, costretti a ciò dal loro stesso esistere. Predicare l’amore già presuppone in coloro a cui ci si rivolge una struttura caratteriale diversa da quella che si vuole cambiare. Questo per il semplice fatto che gli uomini che dovremmo amare sono fatti in un modo tale da risultare incapaci di amare, mostrandosi perciò a loro volta non degni in alcun modo di amore. Uno dei grandi impulsi che mossero il cristianesimo, non immediatamente identici al dogma, è ravvisabile nell’impegno a eliminare in ogni modo il prevalere della freddezza. Ma questo tentativo fallì; certamente perché non toccò l’ordinamento sociale che di continuo produce e riproduce tale freddezza stessa. Probabilmente finora, in generale, tranne che in brevi periodi e in piccolissimi gruppi, fors’anche tra alcuni pacifici selvaggi, non è ancora esistito tra gli uomini quel calore cui tutti aspirano. I molti denigrati utopisti lo hanno intuito. Così Charles Fourier ha definito l’attrazione come un qualcosa che si esplica come forza di avvicinamento solo attraverso un ordinamento sociale umano; egli riconobbe anche che questa situazione è possibile solo qualora le pulsioni degli uomini non siano più represse, bensì soddisfatte nella loro libertà di manifestarsi. Se qualcosa può giovare contro la freddezza come condizione del male, questa è la presa di visione [Einsicht] delle condizioni che mettono in atto la freddezza stessa, e il tentativo, attuato innanzitutto nella sfera individuale, di contrastare queste condizioni. Si potrebbe supporre che quanto meno divieti si oppongano ai desideri durante l’infanzia, quanto meglio, cioè, si trattino i bambini, tante più chances vi siano in questo senso. Ma anche qui sta in agguato la minaccia di illusioni. I bambini, che non hanno alcun sospetto dell’atrocità e della crudeltà della vita, una volta lasciati senza protezione finiscono con l’essere più che mai esposti alla barbarie. Soprattutto però non ha senso incitare al calore i genitori, i quali sono essi stessi prodotti di questa società e ne portano i segni. L’invito a dare più calore ai bambini, infatti, suscita il calore artificialmente, e quindi lo nega. Inoltre non lo si può pretendere in rapporti professionalmente mediati come quello di insegnante e allievo, di medico e paziente, di avvocato e cliente. Il calore è qualcosa di immediato, ed è essenzialmente il contrario dei rapporti mediati. L’esortazione all’amore — magari nella forma imperativa del si deve — è essa stessa un elemento costitutivo dell’ideologia che perpetua la freddezza. Le inerisce la coazione, la repressione, che si oppone alla capacità di amare. La prima cosa da fare sarebbe dunque di aiutare la freddezza a prendere coscienza di se stessa, delle ragioni per cui si è formata. Permettetemi infine di accennare ancora, solo in poche parole, ad alcune possibilità relative alla presa di coscienza dei meccanismi soggettivi in generale, senza i quali Auschwitz non ci sarebbe. La conoscenza di questi meccanismi è necessaria; e altrettanto necessaria è la conoscenza della difesa stereotipata che blocca una simile coscienza. Chi oggi ancora sostiene che le cose non sono state poi così orrende, o non sono state affatto così orrende, con ciò stesso già difende quello che accadde, e sarebbe senza dubbio disposto a stare a guardare o a collaborare, nel caso che Auschwitz accadesse di nuovo. Anche se è vero che la chiarificazione razionale — come ben sa la psicologia — non annulla direttamente i meccanismi inconsci, essa per lo meno rinvigorisce nel preconscio certe istanze antagoniste, e serve a preparare un clima che è sfavorevole all’estremismo. Se realmente l’intera coscienza culturale fosse pervasa dal presentimento del carattere patogeno degli impulsi che giunsero al loro appagamento ad Auschwitz, gli uomini forse controllerebbero meglio quelle pulsioni. Ancora, ci sarebbe da chiarire la possibilità della dislocazione di quegli istinti che si sfogarono ad Auschwitz. Ieri è accaduto agli Ebrei, domani potrebbe toccare a un altro gruppo da essi diverso, per esempio ai vecchi, che furono per l’ultima volta soltanto e a stento risparmiati nel Terzo Reich, o agli intellettuali, o semplicemente a gruppi qualsiasi solo perché considerati anomici. Il clima — vi ho già fatto cenno — che più di ogni altro favorisce tale reviviscenza è quello in cui si produce il ridestarsi del nazionalismo. Il nazionalismo risorgente è un fenomeno così grave, perché, nell’epoca delle comunicazioni estese a livello internazionale e dei blocchi sovrannazionali, a esso non riesce più possibile di credere veramente a se stesso, ed è costretto pertanto a ricorrere a esagerazioni smodate per dare a intendere a sé e agli altri di essere ancora un fatto d’importanza essenziale.

Si dovrebbero comunque indicare le possibilità concrete di resistenza. Si potrebbe per esempio parlare della storia dell’assassinio per eutanasia, che in Germania, grazie all’opposizione a esso, non fu perpetrato in tutta l’estensione in cui i nazionalsocialisti lo avevano pianificato. L’opposizione fu però circoscritta ad alcuni gruppi; e questo è proprio un sintomo particolarmente vistoso e molto diffuso della freddezza universale. È importante notare tuttavia che tale freddezza nei riguardi di ogni altro ha anche dei limiti, e questi sono resi necessari proprio dall’insaziabilità insita nel principio delle persecuzioni. Assolutamente ogni individuo che non appartenga al gruppo persecutore, infatti, può essere colpito; esiste dunque se non altro un drastico interesse egoistico a cui ciascuno potrebbe appellarsi per opporsi a tali crimini. Infine ci si dovrebbe interrogare sulle condizioni particolari, storicamente oggettive, che hanno reso possibili le persecuzioni. I cosiddetti movimenti nazionali di restaurazione, in un’epoca come la nostra in cui il nazionalismo si svela come un fenomeno antiquato, sono evidentemente particolarmente inclini a pratiche sadiche.

Ogni insegnamento politico, infine, dovrebbe essere incentrato su quest’unico obiettivo: che Auschwitz non si ripeta. Il che sarebbe possibile solo se in particolare l’insegnamento politico si occupasse apertamente di quest’obiettivo che è più importante di qualsiasi altro senza paura di urtare in qualche modo un settore qualsiasi in cui s’articola il potere. A questo scopo esso dovrebbe trasformarsi in sociologia, e dunque informare sul gioco delle forze sociali che si trova sotto la superficie delle forme politiche. Si dovrebbe trattare criticamente, tanto per fare un esempio, un concetto così rispettabile come quello della ragion di stato: allorché si pone il diritto dello stato al di sopra di quello dei suoi membri, è potenzialmente già messo in atto l’orrore.

Walter Benjamin mi chiese una volta a Parigi, durante il periodo del nostro esilio politico, quando io ritornavo ancora sporadicamente in Germania, se là ci fosse un numero sufficiente di aguzzini pronti a eseguire i comandi dei nazisti. C’era. La domanda ha tuttavia una sua profonda ragion d’essere. Benjamin intuiva che gli uomini che materialmente commettevano quegli orrori, al contrario degli assassini da tavolino e degli ideologi, agivano in contrasto coi loro interessi immediati, e, assassinando gli altri, diventavano assassini di se stessi. Temo che non si potrà impedire, neppure forse provvedendo a un’educazione così lungimirante come quella che ho fin qui delineata, che risorga la genìa degli assassini da tavolino. Ma contro il fatto che ci siano degli uomini che in fondo fanno, proprio perché sono schiavi, ciò per cui perpetuano la loro schiavitù, degradando così se stessi; contro il fatto che ci siano ancora dei Boger e dei Kaduk, è invece possibile fare qualcosa con l’educazione e il rischiaramento.

Titolo originale: Erziehung nach Auschwitz. Intervento alla radio dell’Assia, 18 aprile 1966; in Zum Bildungsbegriff der Gegenwart, Francoforte, 1967, p. 111 e sgg.

Traduzione italiana di M. Agrati, in T. W. Adorno, Parole chiave. Modelli critici, Sugar, Milano 1974.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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