Theodor Adorno, parola chiave: Antisemitismo

Per combattere l’antisemitismo oggi

Mario Mancini
31 min readMar 15, 2020

Vai all‘indice del libro di T. Adorno “Parole chiave”

Una scena dal film Il bambino con il pigiama a righe (The Boy in the Striped Pyjamas) , del 2008 diretto e sceneggiato da Mark Herman, dall’omonimo romanzo di John Boyne.

Gentili signore e signori,

mi sento un po’ costretto nei panni di Hans Sachs, quando dice: «Voi, vi rendete la vita facile, a me, me la rendete difficile, dandomi, ahimè, troppo onore». Non dovete pertanto aspettarvi troppo da ciò che ho da dirvi.

Mi vorrei limitare semplicemente alla discussione di alcuni punti critici. Cercherò di non dire niente di ciò di cui voi tutti siete più o meno al corrente, per soffermarmi su alcune cose che magari non sono così vivamente presenti nella coscienza collettiva.

Parlare oggi dell’antisemitismo e dei possibili rimedi a esso sembra, in un primo momento, un po’ anacronistico, in quanto, così si dice, l’antisemitismo in Germania non costituirebbe un problema attuale. Questo vi verrà confermato, ad esempio, dai dati rilevati dagli istituti demoscopici, soprattutto da quelli commerciali che ci informano continuamente che il numero degli antisemiti sarebbe in diminuzione. I motivi sono a un primo approccio molto tangibili: intanto ci sono i tabù ufficiali sull’antisemitismo nella nostra società, oggi, almeno in Germania; poi il fatto terribile che in Germania non ci sono quasi più ebrei sui quali impostare i pregiudizi antisemiti. Tutto questo non lo vorrei negare, ma ritengo, tuttavia, che la questione sia più complessa delle indicazioni statistiche. Non dovete supporre che l’antisemitismo sia un fenomeno isolato e specifico. Esso è invece, come lo definimmo a suo tempo Horkheimer e io nella Dialettica dell’illuminismo, parte o aspetto di un atteggiamento più complessivo; è, per così dire, una delle assi che compongono una piattaforma, è una parte di un “Ticket”. Dappertutto dove si predichi un certo tipo di nazionalismo militante ed eccessivo, è come se l’antisemitismo venisse automaticamente inglobato. Si è affermato in tali movimenti come lo strumento idoneo a unificare le forze altrimenti molto divergenti che caratterizzano ogni tipo di radicalismo di destra. A questo si aggiunge il fatto che il potenziale è senz’altro sopravvissuto. A questo proposito basta che diate un’occhiata alla stampa radicale di destra in Germania, rappresentata da un numero abbastanza nutrito di giornali, e vi imbatterete in molte espressioni che si possono definire criptoantisemite e che alimentano l’antisemitismo, attraverso le loro implicazioni, o anche con una complice strizzatina d’occhio. In fin dei conti noi, anche nel nostro lavoro all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, abbiamo sufficienti motivi per non fidarci troppo delle belle cifre che ci vengono fornite dagli istituti demoscopici. Tempo fa, ad esempio, da un rilevamento emergeva che i bambini di estrazione piccolo borghese e in parte anche proletaria hanno una certa tendenza ai pregiudizi antisemiti.

Noi la poniamo in correlazione al fatto che i genitori di questi bambini facevano parte, a suo tempo, dei seguaci attivi del Terzo Reich. Oggi si vedono costretti a difendere nei confronti dei figli il loro comportamento di allora, e vengono così quasi automaticamente indotti a rinverdire il loro antisemitismo degli anni Trenta. Il nostro collaboratore Peter Schoenbach ha coniato a tal proposito la ben trovata espressione “antisemitismo di ritorno”. Queste cose andrebbero approfondite. Sarebbe comunque importante, fin da principio, indirizzare l’attenzione a quei gruppi specifici all’interno dei quali si osserva un perdurare dell’antisemitismo fascista. Ogni studio operato in questo campo deve essere improntato all’idea della necessità di capire e riconoscere il manifestarsi di tali fenomeni, anziché indignarsi. Solo se si riescono a capire anche le forme più estreme — non immedesimandosi ma analizzando — sarà possibile contrastarle efficacemente e con verità. Un sintomo dell’enorme potere collettivo della ripulsa dell’intero complesso di colpe del passato è costituito dall’accoglienza entusiastica riservata in Germania, negli ultimi tempi, a una serie di autori anglosassoni che, rispetto alla questione della colpa bellica, sembrano deresponsabilizzare la Germania. Essi vengono citati con entusiasmo, anche se il tenore dei loro libri è tutt’altro che tedescofilo. Si può probabilmente dire, affermare senza forzature, che là dove si riscontrino tali effetti, anche l’antisemitismo del Terzo Reich viene spiegato in qualche modo apologeticamente per puro istinto di autodifesa collettiva. Non appena però lo si renda plausibile, magari ricorrendo all’argomento secondo cui, allora, l’influenza degli ebrei sarebbe stata davvero indebitamente sproporzionata, allora si spiana una via che può condurre a un’immediata rinascita del pregiudizio. Al riguardo si sente dire abbastanza spesso che, oggi, agli ebrei, il cui numero è veramente sparuto, non bisognerebbe concedere troppi spazi, né permettere loro l’accesso ad alte cariche e simili. Lasciatemi subito precisare che io, proprio in ragione della lotta all’antisemitismo, non troverei giusto, per esempio, negare l’influenza degli ebrei nella repubblica di Weimar. Se ci si impelaga in una casistica del genere, o addirittura in un gioco di numeri con i dati, si parte subito in svantaggio. Bisogna argomentare in modo molto più radicale: dire che in una democrazia la sola questione circa la partecipazione di determinati gruppi della popolazione a determinate professioni viola il principio di uguaglianza. Vi dico questo perché qui mi sembra sia dato un caso esemplare dei problemi che comporta la controargomentazione all’antisemitismo, problemi con i quali abbiamo continuamente a che fare.

Avevo richiamato la Vostra attenzione sul fenomeno dell’antisemitismo occulto oggi, nel quale ci imbattiamo a causa dei tabù ufficiali. Questo criptoantisemitismo è una funzione dell’autorità che sta dietro il divieto di manifestazioni apertamente antisemite. Ma è proprio in questo occultarsi che è insito un potenziale pericoloso: il bisbigliare, il vociferare (ho detto, in una circostanza, che l’antisemitismo sarebbe una diceria sugli ebrei), l’opinione mai espressa completamente alla luce del sole, hanno da sempre costituito il modo di palesarsi delle insoddisfazioni sociali dei più svariati tipi, che in un ordinamento sociale non riescono a emergere chiaramente.

Chi si lasci prendere dalle opinioni espresse a mezza bocca suscita subito l’impressione di appartenere a una comunità segreta, giusta, repressa solo dalle forme di superficie della società. Su ciò specula uno dei principali trucchi di cui si servono gli antisemiti oggi: spacciarsi per perseguitati; comportarsi come se, in presenza di un’opinione pubblica che oggi rende impossibile il manifestarsi di atteggiamenti antisemiti, l’antisemita fosse in realtà colui contro cui si indirizzano gli strali della società, mentre generalmente gli antisemiti sono coloro che li gestiscono nel modo più crudelmente efficiente. Il criptoantisemitismo porta difilato alla fede nell’autoritarismo. Il problema dell’autorità nella lotta all’antisemitismo è comunque complesso. Al fine di trovare una formula valida non bisogna semplificare i fenomeni là dove le realtà si presentino difficili e contraddittorie. Non bisogna dire automaticamente: «Combattere l’antisemitismo, significherebbe essere autoritari, quindi non si deve ricorrere all’autorità nemmeno contro l’antisemitismo». Io posso chiarirvi in termini drastici qual è qui il problema. Certamente non si può negare neanche per un attimo lo stretto nesso tra il pregiudizio antisemita, la struttura caratteriale autoritaria, e i poteri autoritari in generale. Là dove siano in gioco i processi formativi della personalità, quindi l’educazione in senso lato, bisognerà certamente contrastare il formarsi del carattere legato all’autorità, comportarsi quindi coerentemente in modo antiautoritario anche alla luce dei risultati delle moderne scienze educative. Ma noi non abbiamo a che fare solo con persone che possiamo formare o cambiare, ma anche con altre per le quali i giochi sono fatti, individui la cui peculiare personalità è, spesso, determinata in un certo senso da un irrigidimento, virtualmente non aperti all’esperienza, non abbastanza flessibili, in breve inaccessibili. Nei confronti di queste persone, che in linea di principio si appellano volentieri all’autorità e la cui fede autoritaria difficilmente si può scuotere, non si può rinunciare all’autorità. Nella misura in cui si avventurino seriamente in manifestazioni antisemite, deve essere adoperato, senza sentimentalismi, ogni mezzo di potere disponibile, ma non per esigenze punitive o per esercitare vendetta su queste persone, bensì per mostrare loro che la sola cosa a cui sono ricettive, cioè l’effettiva autorità sociale, per il momento è ancora contro di loro. Anche le argomentazioni usate nei loro confronti devono essere impostate, fin dall’inizio, in modo da raggiungere le persone “in possesso di una tale struttura caratteriale”, senza comunque rinunciare alla verità.

Parlando di autorità è inevitabile, soprattutto nella nostra cerchia, che io mi esprima anche a proposito del problema dell’autorità religiosa, richiamarsi alla quale appare innanzitutto come uno dei mezzi più drastici nel contrastare i pregiudizi razziali. Sono consapevole del fatto che, effettivamente, le forze più attive e affidabili, disponibili oggi in Germania per la lotta ai fenomeni antisemiti appartengono, spesso, ad associazioni religiose distribuite in egual misura tra le due grandi confessioni cristiane. Va da sé che questi gruppi meritano, appunto perciò, la più sentita gratitudine. Ma proprio perché questi gruppi prendono così sul serio la lotta all’antisemitismo e ciò che, in un senso più alto, si potrebbe chiamare riparazione, si può forse mettere in guardia da un malinteso che si instaura facilmente nel rapporto tra religione positiva e antisemitismo.

Non bisogna cioè dare per scontato che l’appello alla religione contrasti automaticamente l’antisemitismo; soprattutto non bisogna, appartenendo a un gruppo religioso, derivarne qualcosa come un privilegio della religione nella lotta contro l’antisemitismo, nel senso di parlare agli antisemiti sempre e comunque di religione. Altrimenti ne scaturisce facilmente il pericolo di ciò che gli americani chiamano: preaching to the saved [predicare a coloro che sono comunque salvi]. Il rapporto della religione nei confronti dell’antisemitismo è quello dell’obbligo di contrastarlo, non già quello di monopolizzare la lotta. A tal proposito è da considerare soprattutto il grado di coscienza degli stessi antisemiti. Le persone alle quali ci possiamo rivolgere come a gruppi chiave dell’antisemitismo, sono difficilmente accessibili a discorsi religiosi. A loro forse fa grande impressione il potere delle Chiese in quanto istituzioni, ma per il resto sono inclini a una sorta di darwinismo sociale, che pervade anche l’elaborato di Hitler, il Mein Kampf.

I gruppi antisemiti provenivano in larga misura da strati sociali esprimenti un duplice rifiuto: da un lato contro il socialismo, dall’altro contro ciò che ai loro occhi era clericalismo. Essi abbinavano una certa resistenza contro poteri convenzional conservatori a quella contro il movimento operaio. In Austria questo aspetto era particolarmente sviluppato: chi non era cristiano-sociale o socialdemocratico, tendeva automaticamente al popolarismo tedesco e quindi all’antisemitismo. Io ritengo che questa mentalità continui a esistere ancora oggi. Le strutture fondamentali dei raggruppamenti politici hanno una curiosa longevità che evidentemente travalica le immani tragedie che abbiamo già vissuto. Di conseguenza gli argomenti di tipo religioso si trovano facilmente in svantaggio ideologico rispetto a persone che vivono comunque in una sfera che non si lascia avvicinare da quella religiosa e che di essa fiuta soltanto la fittizia pretesa di dominio ultramontano. Anche i gruppi religiosi — e questo richiede una certa autoalienazione — dovrebbero cercare di combattere l’antisemitismo sul suo stesso terreno; da un lato, quindi, contribuire a impedire il costituirsi di strutture caratteriali antisemite, dall’altro riallacciarsi, là dove queste già esistono, a ciò che sappiamo del conscio e dell’inconscio degli antisemiti, andando anche oltre, ma non semplicemente affermare, o addirittura propagare il loro punto di vista. E ciò mi spinge a soffermarmi sulla posizione da assumere rispetto al problema della propaganda nel suo complesso.

Consentitemi di premettere un po’ accentuatamente una tesi: l’antisemitismo è un mezzo di comunicazione di massa nel senso che prende spunto da inconsci istinti, conflitti, inclinazioni, tendenze per rafforzarli e manipolarli anziché rischiararli ed elevarli al livello di coscienza. È un potere completamente anti illuministico e, malgrado il suo naturalismo, si è da sempre collocato in contrasto stridente con l’illuminismo continuamente e ripetutamente biasimato in Germania. Questa struttura è comune alla superstizione, all’astrologia, che cerca anch’essa di potenziare e sfruttare gli istinti inconsci, e a ogni propaganda; fa sempre la stessa cosa. Di conseguenza, ciò che si chiama metodo propagandistico parte già in svantaggio rispetto all’antisemitismo. Io considero proprio questo cristallizzarsi razionale di tendenze irrazionali, la loro conferma o riproduzione attraverso varie forme di comunicazione di massa, oggi, una delle forze ideologiche più pericolose nella società contemporanea.

In occasione di uno studio contro l’astrologia commerciale nelle rubriche dei giornali, che ho pubblicato qualche tempo fa, un noto psicologo, senza nominarmi esplicitamente, ha polemizzato con me rimproverandomi di sopravvalutare queste cose innocue, e sostenendo che sarebbe bello se l’astrologia servisse a convincere gli uomini a essere gentili gli uni con gli altri e un po’ più cauti nella guida. Non voglio sopravvalutare l’importanza della astrologia, ma vorrei altresì ammonire a non sottovalutarla. La tendenza a non rischiarare quanto cova nell’inconscio, ma a manipolarlo e porlo al servizio di interessi particolari è presente anche nel pregiudizio antisemita. Io potrei fornirvi la prova che esiste, fin nei più piccoli par­ticolari, una concomitanza strutturale tra, mi si conceda il termine, “gli stereotipi astrologici” e gli “stereotipi antisemiti”, e che i meccanismi di cui qui si tratta sono nel contempo le costanti della psicologia pubblicitaria. Si potrebbe dire che l’antisemitismo è l’ontologia della réclame.

Per questo ritengo che si debba difendersi da tutto ciò che sa di réclame. Chi nuota contro corrente, e a noi deve essere chiaro che nella attuale situazione, oggi, con il nostro lavoro nuotiamo contro corrente, non può comportarsi come se seguisse la corrente. È utile solo una coerente opera di chiarificazione, con tutta la verità, con l’esclusione sistematica di tutto ciò che sa di réclame. Non dimenticate che i meccanismi di difesa, con i quali dobbiamo fare i conti, registrano ed eliminano con straordinaria puntualità tutto ciò che è riconducibile alla pubblicità. Prendete come barometro la stampa di estrema destra. Con estrema sicurezza vi ritroverete sempre la denuncia di tutto ciò che ricorda in qualche modo la pubblicità. (Detto tra parentesi: sarebbe una buona scuola per il nostro lavoro, se dessimo un’occhiata più attenta ai giornalini in questione analizzandoli sulla base degli stimoli che usano con estrema scaltrezza; potremo così dedurre quali sono oggi i campi più esposti al fine di organizzare in modo più incisivo il nostro lavoro).

C’è un’allergia di principio da parte della popolazione alla réclame imperversante oggi in ogni angolo del mondo. Mentre, tuttavia, i più sono generalmente inermi di fronte alla réclame, laddove essa coincide con le tendenze inconsce, come nel caso dell’antisemitismo, il rifiuto viene trasferito su ciò che si potrebbe chiamare contro réclame; in questo caso si incontrerà una resistenza particolarmente dura. Il rifiuto antisemita del rischiaramento si concentra preferibilmente su dati e fatti che non possono essere sicuri con assoluta certezza, come il numero degli ebrei uccisi, l’autenticità di determinati documenti e simili. Sarebbe sbagliato accettare la logica della casistica. Bisognerebbe invece cercare di indurre a una riflessione sulle forme di un pensiero che si intestardisce nel dire che non sono stati uccisi sei, ma “solo” cinque milioni di ebrei, per passare poi impercettibilmente, come ho potuto osservare ripetutamente in pubblicazioni di estrema destra, alla versione secondo cui ne sarebbero morti solo poche migliaia. Generalmente è meglio fare chiarezza sulle strutture dell’argomentazione, sui meccanismi messi in gioco, anziché impelagarsi ogni volta in un’interminabile discussione all’interno delle strutture che, in un certo senso, sono imposte dagli antisemiti e attraverso cui ci si sottometterebbe a priori alle loro regole del gioco. Esempio: il prediletto schema numerico; che sarebbe vero che un numero tot di ebrei sarebbero stati uccisi; «la guerra — ci suggeriscono — è guerra, e quindi volano le schegge, appunto, ma anche Dresda è stata altrettanto terribile». Nessuna persona ragionevole lo confuterà, ma quel che è da contestare è lo schema mentale nel suo complesso, il raffronto tra azioni di guerra e lo sterminio sistematico di interi gruppi della popolazione. O ancora: «È ormai passato tanto di quel tempo che sarebbe finalmente ora di metterci una pietra sopra», un argomento avanzato sempre da coloro che sono enormemente interessati a queste pietre. Ci sarebbe da rispondere che, fintantoché continuerà a esistere una ideologia simile a quella che ha compiuto l’orrore, la pietra sopra è fuori luogo. Un altro argomento prediletto: «Hitler ha avuto ragione in tante cose, ad esempio ha riconosciuto tempestivamente il pericolo del bolscevismo; beh, anche con gli ebrei non si sarà sbagliato del tutto». Qui bisognerebbe entrare nell’intera dialettica politica, spiegare che i tremendi conflitti che oggi minacciano il mondo probabilmente non si sarebbero mai costituiti in questa forma se lo stesso Hitler non avesse creato una situazione tale che ha successivamente portato a questa minaccia.

Un argomento particolarmente acuto è: «Ma contro gli ebrei oggi non si può dire niente». Proprio dal tabù pubblico dell’antisemitismo si trae per così dire un argomento per l’antisemitismo; se non si può dire niente contro gli ebrei, allora procede la logica associativa: ci deve pur essere qualcosa di vero in ciò che si potrebbe dire contro di loro. Qui è all’opera un meccanismo proiettivo, per cui coloro che erano i persecutori, e potenzialmente lo sono ancora oggi, si atteggiano come se fossero i perseguitati. A questo si può ribattere solo non idealizzando, non tessendo gli elogi di grandi uomini ebrei, e non mostrando graziose immagini di impianti di irrigazione israeliani o di bambini dei Kibbuz, ma spiegando le caratteristiche ebraiche cui gli antisemiti fanno riferimento e precisandone la fondatezza e il grado di verità. Anziché svilire l’importanza degli ebrei rappresentandoli come una sorta di inermi agnellini o di giovinetti baciati dal sole è comunque preferibile dire che hanno avuto una grande, travagliata e burrascosa storia piena di vicende terribili né più né meno come quella di qualsiasi altro popolo. Repellente sarebbe una rappresentazione sentimentalistica da réclame. Non si può neppure, come sovente accade con le migliori intenzioni, identificare gli ebrei con la loro religione, cercando di renderli “appetibili” sotto l’aspetto delle loro azioni e dei risultati religiosi, ma bisogna assolutamente far presente, insistendo su questo, che nell’epoca borghese sono stati elementi portanti dell’illuminismo. Non è possibile un atteggiamento contrario al potenziale antisemita che non si identifichi nello stesso tempo nell’illuminismo. L’antisemitismo non può essere combattuto da chi si rapporti in modo ambiguo nei confronti dell’illuminismo. Non c’è da blaterare sulle cosiddette prestazioni positive (ovviamente esistono tutte queste prestazioni positive), ma è necessario focalizzare l’attenzione sul punto nodale: l’elemento critico nello spirito degli ebrei, legato alla loro mobilità sociale. Questo momento critico è indispensabile alla società come momento della verità stessa; originariamente era insito nel principio della stessa società borghese, che oggi, nella sua tarda fase, cerca di sbarazzarsi del momento critico a favore di uno scialbo e falso ideale di positività. O ancora, se mi è consentito menzionare a caso qualche altro esempio del genere: quando, ad esempio, gli antisemiti dicono che gli ebrei si sottrarrebbero al duro lavoro fisico, non sarebbe il massimo della saggezza ribattere che all’Est ci sono stati tantissimi calzolai e sarti ebrei e che oggi a New York ci sono tantissimi tassisti ebrei. Dicendo queste cose ci si arrende comunque all’anti intellettualismo e ci si pone sul terreno dell’avversario, sul quale si è sempre in svantaggio. Bisognerebbe invece dire che tutto questo ragionamento è dettato dal rancore: perché si ritiene di dover lavorare duro o perché lo si deve davvero; e poiché in fondo si sa che oggi il duro lavoro fisico in realtà è superfluo, si denunciano quelli a proposito dei quali, a ragione o a torto, si dice che se la passerebbero meglio. La vera risposta consisterebbe nel dire che oggi, comunque, il lavoro manuale vecchio stile è superfluo, superato dalla tecnica, e che c’è qualcosa di profondamente mendace nel rimproverare a un determinato gruppo sociale di non svolgere lavori fisici abbastanza duri. E un diritto dell’uomo di non distruggersi fisicamente ma, piuttosto, di svilupparsi mentalmente. Si dovrebbe inol­tre evitare di fare discorsi che si riferiscono al fatto che gli ebrei, in Israele, con il loro sudore hanno bonificato la terra. Mi guarderei bene dallo sminuire l’importanza di queste grandiose opere. Ma in fondo queste sono solo il riflesso della terribile arretratezza sociale imposta agli ebrei con l’antisemitismo, per cui non si devono assolutizzare, o esporre come se il sudore in sé rappresentasse qualcosa di meritevole e positivo. Tutto ciò necessita di una certa ampiezza di vedute, di uno sguardo che metta in connessione i fenomeni, raggiungendo così, senza alcuna apologetica gratuita, se non altro coloro in grado di pensare razionalmente. Questo è senz’altro preferibile al voler affermare a tutti i costi la propria ragione, perché si determinerebbe una situazione in cui chi si vuole difendere si rivela, di fronte all’aggressivo, come il più debole.

Vorrei fornirvi un altro esempio, molto contiguo al precedente, l’accusa agli ebrei per la loro attività di mediatori. Da qui all’accusa di disonestà, imbroglio, inganno — questo termine in tedesco ha la stessa radice di scambio — il passo è breve. Raramente si potrà approfondire appieno la teoria economica di questo pregiudizio e la sua confutazione, ma si potrà richiamare l’attenzione sul fatto che da quando esiste una società borghese sviluppata basata sullo scambio, questa funzione mediatrice è socialmente necessaria. Di conseguenza è illegittimo stigmatizzare questa funzione come da sempre parassitaria, immorale e riprovevole solo perché essa viene meno nell’attuale fase di iperconcentrazione del potere economico. Bisognerà inoltre ricordare che esiste una determinata correlazione tra la mediazione, la sfera della circolazione — come viene definita in economia –, la sfera del denaro e lo spirito, come è stato sottolineato perfino da un pensatore di estrema destra come Oswald Spengler. Senza la sfera della mediazione, quella del commercio, del capitale monetario e della mobilità, la libertà dello spirito che si svincola dall’immediatezza dei rapporti costituiti sarebbe stata impensabile. Ciò che volevo mostrarvi sulla base dei suddetti esempi è che si può parlare efficacemente contro l’antisemitismo solo se si dice la verità, se si vedono le cose nella loro complessità e nella loro connessione con la specificità sociale anziché limitarsi a gratuite confutazioni che a loro volta producono continuamente solo contro argomenti inutilmente interminabili.

Vorrei parlare ora dei due principali tipi di difesa che considero i più validi. Mi avvarrò semplicemente della terminologia americana che distingue tra long term program e short term program; provvedimenti programmati a lungo termine e altri che dovrebbero essere applicati nell’immediato.

Questi due tipi potrebbero altresì essere chiamati programma educativo e immediato programma difensivo. Per essi vale la distinzione che ho suggerito all’inizio: nella pianificazione a lungo termine bisogna possibilmente contrastare il costituirsi di caratteri ricettivi all’autoritarismo, mentre nell’operare immediato in un certo senso non si può rinunciare del tutto all’approccio autoritario. Nel long term program, cioè per quanto riguarda il problema di una educazione che cerchi veramente di venire a capo dell’antisemitismo, è importante sottolineare qualcosa che spesso viene frainteso. Spesso, e non sempre in buona fede, mi si ribatte che l’antisemitismo non è solo un problema psicologico ma che avrebbe le sue radici economiche e culturali e dio solo sa quant’altro. Chi di voi abbia un po’ di dimestichezza con le idee per le quali mi impegno, saprà che sono l’ultimo a avere una inclinazione per lo psicologismo. Non si può semplicemente ridurre l’antisemitismo a una questione di predisposizione psicologica. Supponiamo, tuttavia, che l’antisemitismo sia riconducibile, in misura determinata, a esperienze infantili o che comunque il fondamento che in una fase successiva rende le persone ricettive alle sollecitazioni antisemite venga posto nella prima infanzia, in questo caso si è necessariamente rimandati all’aspetto psicologico. Proprio perché questo aspetto generalmente viene trascurato, lo abbiamo messo particolarmente in risalto nello studio La personalità autoritaria; semplicemente per aggiungere qualcosa, che evidentemente non si sapeva ancora, a tutto il resto già noto. Se mi è consentito, posso aggiungere che elementi di una teoria complessiva dell’antisemitismo nella nostra società si trovano nel libro Dialettica dell’illuminismo, di Horkheimer e mio, e che in esso questi aspetti psicologici trovano la loro giusta collocazione. L’obiettività, in cui sono fissati i meccanismi psicologici dell’antisemitismo, pone naturalmente determinati limiti all’intervento educativo. Ma non si devono interpretare questi limiti come se testimoniassero che l’antisemitismo è un fenomeno primordiale. Anche questi bisognerebbe derivarli dalla dinamica della società.

Si tratta quindi di impedire che nella sfera educativa in senso lato si costituisca qualcosa che assomigli a un carattere ricettivo all’autoritarismo. Non vorrei fornire in questa sede la relativa teoria; potete leggere molto al riguardo. Vorrei solo ricordare che con la repressione, in particolare con il violento e brutale autoritarismo paterno, si costituisce spesso ciò che psicoanaliticamente si chiama carattere edipico, vale a dire: persone che da un lato sono dominate da una rabbia rimossa, ma che dall’altro lato, appunto perché non si sono potute sviluppare, sono inclini a identificarsi con l’autorità che le reprime e quindi a scaricare su altri, generalmente più deboli, i loro istinti repressi e aggressivi. Il carattere specificamente antisemita, propenso all’autoritarismo, è veramente costituito dal suddito rappresentato da Heinrich Mann o, come si dice in gergo, dalla ruffianeria, caratterizzata da un certo atteggiamento pseudoribelle del tipo qui finalmente deve succedere qualcosa, qui ci vuole finalmente ordine; ma poi sempre pronto a sottomettersi e ad arrangiarsi con i detentori del potere reale, di quello economico come di qualsiasi altro.

Se si approfondisce il formarsi del carattere dello stesso Hitler, come è stato fatto da alcuni studiosi americani, tutte queste cose si ritroveranno. Ma qui c’è da fare un’integrazione, e con ciò richiamo la Vostra attenzione su un problema sul quale vi vorrei pregare vivamente di riflettere, senza che io, peraltro, possa prospettarvene la soluzione: oggi non è tanto la brutalità paterna a decidere nell’educazione come nel caso di Hitler, quanto una certa freddezza e una certa carenza di rapporti che i bambini vivono nella loro prima infanzia. Questo a sua volta dipende strettamente dalla trasformazione delle famiglie in un “distributore di benzina”, come è stato qualche volta chiamato. Il tipo di carattere che — se non erro — oggi, nel nostro contesto, è psicologicamente più pericoloso, assomiglia piuttosto a quello che, nella Personalità autoritaria, ho definito manipolatore. Corrispondente a quei tipi pateticamente freddi, incapaci di rapporti, amministratori meccanici come Himmler e il comandante di lager Hoss. È particolarmente difficile contrastare, nella prima infanzia, il costituirsi di questo tipo. È la reazione a una mancanza di affetto e l’affetto non si può predicare. Il fatto che non si giunga a una libertà dell’affetto, è insito nella nostra stessa società. Questo è uno di quei limiti oggettivi dell’educazione psicologica su cui ho richiamato prima la Vostra attenzione. Si tratta di un ambito particolarmente critico; bisognerebbe riflettere molto sul come operare in esso senza ricadere nell’ipocrisia di un calore “sintetico”, calore ad aria condizionata, così come non c’è niente di più stolto che sollecitare gli uomini ad amare.

Le osservazioni che seguono si riferiscono sostanzialmente più alla mia esperienza personale, anziché avanzare pretese di rigorosa dignità scientifica, ma si inseriscono più o meno coerentemente nella concezione scientifica del carattere ricettivo all’autoritarismo.

Le origini dell’antisemitismo nella prima infanzia sono generalmente da ricercare nella famiglia. Al momento della scolarizzazione i giochi sono generalmente già fatti. La scuola è una fonte secondaria; nei compagni di scuola antisemiti l’innesto dell’antisemitismo probabilmente è avvenuto già in famiglia; a scuola poi essi assumono spesso una sorta di posizione chiave. Come ho già accennato, un particolare pericolo è costituito da genitori che si vogliono giustificare di fronte ai loro figli per il proprio passato nazionalsocialista e che perciò tendono a rivangare, a loro discolpa, discorsi antisemitici che vengono poi ripresi dai figli. Sarebbe estremamente importante, già nella fase in cui i bambini vanno all’asilo e qualora si osservassero da parte loro segni di reazione etnocentrica — anche nei confronti di bambini di colore (la struttura di questi fenomeni è esattamente la stessa; non lo posso sottolineare abbastanza) — prendere contatto con i genitori cercando di sensibilizzarli. Tuttavia c’è il pericolo che gli stessi genitori siano svisceratamente antisemiti e quindi impossibili da convincere. In questi casi sarebbe consigliabile individuare proprio i bambini cui già è stato inoculato l’antisemitismo o quelli predisposti e parlare con loro individualmente. È plausibile l’ipotesi per cui si tratta molto spesso di bambini repressi o trattati con particolare freddezza. Mostrando interesse per i loro problemi individuali, alleviando il loro indurimento diventerebbero probabilmente più avvicinabili perché riceverebbero ciò di cui hanno inconsciamente bisogno. Inoltre, i pedagoghi che se ne occupano dovrebbero essere in qualche modo — e in questo “in qualche modo” è riassumibile l’intero problema — in grado di dare ai bambini ciò che viene loro negato a casa.

Poi prefigurerei un approccio che renda possibile, prima nell’asilo, poi nella scuola, l’intervento su un gruppo chiave, di alcuni o pochi bambini, public opinion leaders, per così dire o per usare l’espressione in un contesto insolito. Su di loro andrebbe concentrato dall’inizio l’intervento chiarificatore e educativo nell’infanzia, invece di disperdere in largo lo sforzo educativo senza, necessariamente, la dovuta intensità. Bisognerebbe concentrare su di loro l’attenzione cercando di cambiarli. In casi in cui la famiglia eserciti una forte contropressione, l’educatore non dovrebbe indietreggiare neanche di fronte ai conflitti con i genitori. Dovrebbe insegnare ai bambini che ciò che sentono a casa non è oro colato, che i loro genitori possono sbagliare e perché. Dagli educatori ci si dovrebbe attendere il coraggio civile per affrontare tali conflitti.

Ritengo possibile che nella formazione del carattere sensibile all’autoritarismo e al pregiudizio antisemita ci sia un momento critico. Se non erro, questo momento è costituito dal primo contatto con la scuola (lo dico con delle riserve, i pedagoghi tra di voi confermeranno o smentiranno questa ipotesi; comunque, vale la pena dedicarle una riflessione). Questo è esattamente il momento in cui per la prima volta si entra a fare parte di un gruppo secondario con il quale l’impatto è freddo e di fronte a cui si è estranei; dove si perde improvvisamente, in un certo senso traumaticamente, il calore del nido qualora esista ancora oggi qualcosa del genere. Lo choc che ne deriva potrebbe facilmente dare adito alla formazione di inasprimenti antisemitici. La pressione e la freddezza che il bambino ha vissute vengono trasmesse; poiché ci si sente improvvisamente esclusi si desidera escludere anche gli altri cercando quelli più idonei. I pedagoghi dovrebbero dedicare la loro attenzione a questo momento di choc cercando possibilmente di neutralizzarlo. Prima era diffuso l’uso, almeno nelle scuole rurali, che l’insegnante regalasse dei tarallucci ai bambini al loro primo giorno di scuola. Certo, segretamente li aveva ricevuti dai genitori; l’uso dei tarallucci mostra comunque uno sguardo profondo nel fenomeno. Ispirandosi a questo remoto modello bisognerebbe mirare al superamento dello choc da freddezza che sfocia in aggressione; trasformare, in altre parole, l’uso dei tarallucci in un comportamento che renda la lezione durante le prime settimane quanto più possibile simile al gioco. Ma su questo complesso di problemi bisognerebbe effettuare degli studi sistematici, qualcosa come una sociologia della scuola, prima di mettere a punto misure veramente incisive. Solo che in queste cose delicate non si sa mai quanto tempo si ha a disposizione. Perciò tenderei, se le mie sommarie osservazioni sono plausibili, a trarre subito delle conclusioni operative.

Nella scuola bisognerebbe soprattutto indagare a fondo il problema della esclusione, la formazione di particolari gruppi e cricche che vengono quasi sempre tenuti insieme dal proposito di impedire che altri partecipino ai loro giochi: «Con te non gioco», oppure «Quello, non ci gioca mai nessuno». Questo fenomeno è costruito in linea di principio allo stesso modo di quello antisemita. Il rapporto umano da contrapporvi non sarebbe una comunità scolastica vagamente collettiva, ma un’amicizia individuale. Sarebbe nello spirito di una psicologia che contrasti il pregiudizio incoraggiare e non, come certamente accade ancora nella scuola, ironizzare e sminuire le amicizie individuali; sarebbe invece da contrastare, per quanto possibile, la formazione di gruppetti e aggregazioni facili alle maldicenze, soprattutto non appena evidenziano propositi di controllo. La struttura della formazione delle cricche nella scuola è un fenomeno chiave. Come in un microcosmo vi si riproduce la problematica della società nel suo complesso. Evidentemente le cricche corrispondono a una sorta di gerarchia occulta, che è all’opposto della gerarchia scolastica ufficiale che si misura sul rendimento. Nella prima si riconoscono ben altre qualità — la forza fisica, un certo tipo di scaltrezza e simili — che altrimenti non interesserebbero nessuno. In questo contesto ci sarebbe da richiamare l’attenzione sul pericolo costituito da organizzazioni esterne alle scuole che, condizionandole, fanno sì che le frequentino solo determinati bambini e non altri.

Da questo scaturisce facilmente un principio di esclusione. Il che non è indipendente dal contenuto ideologico di tali organizzazioni. Bambini che hanno una particolare propensione per la formazione di cricche, e tra loro i capetti, molto probabilmente propendono con altrettanta frequenza all’antisemitismo, a essere identici ai public opinion leaders antisemiti. La loro opinione è una forma preliminare di quella “non pubblica” successiva. In linea di principio bisognerebbe studiare a fondo il tipo di bambino infetto da antisemitismo. L’analisi della sua struttura caratteriale aiuterebbe a sviluppare diversamente il carattere di questi bambini. Bambini soggetti a questo problema si troveranno spesso tra coloro che, in senso assolutamente figurato, vorrei definire “proletariato di classe”, cioè nel piccolo gruppo di alunni molto mediocri che sono sempre nel mirino degli insegnanti; che vengono interrogati con la palese aspettativa che la risposta sarà comunque sbagliata, e che vengono inoltre esclusi attraverso una serie di momenti dalla gerarchia scolastica ufficiale. Generalmente vengono spinti a trasmettere ad altri la propria situazione, a escludere, a loro volta, altri. Se le mie osservazioni non mi ingannano si tratta non di rado di bambini senz’altro capaci, non di imbecilli; capaci in un determinato senso pratico-realistico, senza comunque progredire granché con le loro capacità, del tutto analogamente a quella gente che malgrado una certa capacità organizzativa e altre attitudini non ha avuto successo nella vita, e che è invece riuscita a combinare qualcosa toccando subito i vertici con l’avvento del Terzo Reich. Non pochi di questi bambini provengono probabilmente da un ambiente dal quale non hanno avuto, come si suol dire, un grande viatico. A scuola viene loro impedito di mostrare ciò che potenzialmente sentono di essere in grado di fare. La frustrazione, accumulata si volge allora contro gli altri. Naturalmente il potenziale antisemita sarà molto diffuso tra i bambini riluttanti, refrattari, tra coloro che comunque sono inclini alla violenza e al sadismo. Spesso sono i capi nella gerarchia informale delle classi.

Nei casi in cui non si riuscisse a influire individualmente su di loro, bisogna probabilmente confrontarli già a scuola con le autorità, bisogna perseguire il loro influsso ideologico sugli altri ed eseguire quindi le punizioni. È più importante, però, insegnare a parlare a questi bambini, che imparino a esprimersi e non solo per l’effetto catartico che la lingua comunque sortisce. Questi bambini — ripeto che parlo solo di vicende ricordate e di osservazioni — sentono spesso rancore nei confronti di quelli che sanno parlare, che sono capaci di esprimersi. Forse, uno dei mezzi più importanti e convenienti nell’impegno contro l’antisemitismo sarebbe quello di migliorare nel complesso la capacità espressiva e mitigare il ranco­re contro il discorso.

Credo che la cogestione degli alunni, l’elezione di alunni di fiducia, tutte queste istituzioni, anche i “parlamenti scolastici” dovrebbero vedere un compito urgente nello sviluppo della capacità espressiva e nella rimozione del tabù infantile sulla padronanza linguistica. Bambini che accusano un compagno di essere un adulatore solo perché sa esprimersi sono praticamente già reclute del pregiudizio antisemita. Contrappongono abilità e senso pratico allo spirito. Conosco pochi documenti indicativi della formazione del carattere antisemita come uno di cui mi ricordo con certezza, ma che, a quanto mi risulta, è caduto nell’oblio: si tratta di un editto emanato da Hitler nei primi mesi della presa del potere, nell’anno 1933. Diceva, più o meno, che per nessun motivo bambini ebrei dovevano essere i primi della classe. Con il loro fiuto per questi complessi i nazisti centrarono uno dei nodi fondamentali dell’antisemitismo, il rancore contro lo spirito che chiede troppo ai bambini e che nella forma della cultura tradizionale spesso non può significare niente per loro. L’impegno chiarificatore dovrebbe comprendere anche la demolizione dell’identificazione degli ebrei con lo spirito. La libertà nel rapporto tra ebrei e tedeschi dovrebbe consistere anche nel non supporre più automaticamente che tutti gli ebrei siano intelligenti: alcuni sono anche stupidi. Se si riesce a chiarire che l’intelligenza non è appannaggio di un particolare gruppo, razza o religione, ma fondamentalmente una qualità individuale, possiamo dire di avere fatto un piccolo passo avanti.

Bisognerebbe contrastare anche la formazione di cosiddetti stereotipi positivi, dietro i quali sono in agguato gli stereotipi negativi. Se uno dice: «Gli ebrei sono tutti così intelligenti», anche se vuole essere elogiativo, non tarderà molto a dire: «beh, è per questo che ci vogliono imbrogliare». Non bisogna fidarsi neanche dell’espressione: «gli ebrei sono un popolo così strano, particolare, profondo». Il mio amico Nevitt Sanford, allo stereotipo antisemita «some of my best friends are Jews», ha risposto ironicamente: «some of my worst enemies are Jews». Probabilmente, il pregiudizio si contrasta più efficacemente con un’emancipazione dall’idea stereotipata che cataloga un intero gruppo, piuttosto che col sostituire meccanicamente un pregiudizio negativo con uno positivo. Bisogna smantellare proprio i giudizi collettivi in quanto tali, nefastamente diffusi in Germania e che colpiscono i gruppi più disparati; non è assolutamente consigliabile correggere un giudizio collettivo sbagliato con uno altrettanto sbagliato.

Ancora qualche parola sul ruolo dell’insegnante nella lotta all’antisemitismo. Ho il sospetto che esista ancora un numero considerevole di insegnanti che tacitamente e implicitamente simpatizzano con l’antisemitismo. Proprio perché non lo dicono chiaramente, ma lo lasciano intendere a gesti, in modo appena percettibile, convergono in una sorta di intesa con gli alunni predisposti. Questi ne ricavano quindi l’impressione di avere finalmente un’autorità sociale alle loro spalle. Si sentono coperti e rafforzati.

Ho già detto che l’allusione è caratteristica dell’antisemitismo, fino a che non conquista il potere, che la forma allusiva a volte è più pericolosa del discorso palese. Non ho la pretesa di mettere a punto delle regole in questo senso, o addirittura di consigliare test di qualche genere. Ma nella selezione degli insegnanti bisognerebbe sviluppare criteri che permettano di tenere lontani, sin dal primo momento, quelli che simpatizzano col carattere autoritario e quindi con l’antisemitismo. Mi ricordo che, quando andavo a scuola, avevo un insegnante molto bruno — poteva essere preso facilmente per un ebreo — che peraltro non brillava dal punto di vista professionale. Da nessun altro ho imparato così poco come da lui, anche se non mi fece mai niente di male. Ma mostrava una sorta di complicità cameratesca nel rapportarsi agli alunni ed era da questi molto ben visto, un uomo del tipo hail fellow well met. Molto sorprendentemente verso la fine della Prima guerra mondiale se ne venne fuori con dei discorsi violentemente antisemiti che tuttavia non gli impedirono, con la sua scoppiettante disinvoltura e i suoi atteggiamenti da leone da salotto, di sposare non molto tempo dopo la figlia di un ricco ebreo. Come sia andato a finire il matrimonio non lo so, ma era la personificazione della scuola, in modo demagogico, qualcosa come un’esistenza fallita. Questi aspetti sociali del carattere, tra gli insegnanti, che peraltro non giudico solo negativamente, andrebbero studiati più a fondo. Sarei molto lieto se parlassimo proprio della questione relativa alla selezione degli insegnanti, che è naturalmente cosa molto complessa soprattutto a causa del pericolo della delazione e del controllo dell’opinione. Io posso solo indicare un problema molto serio, ma non posso pretendere di trovarne la soluzione, che invece dovrebbe essere riservata all’ambiente pedagogico vero e proprio. Proprio il clima da «ma non si può dire niente», cioè la simpatia con l’opinione non pubblica, metterà insieme tipi come quell’insegnante con la latente gerarchia di classe degli individui forti, realistici, anti intellettuali. Il risultato è una comunità di congiurati di tipo pericolosissimo.

Per concludere vorrei dire qualcosa a proposito della questione di un programma a medio termine. Vi ho già detto che non nutro grande ottimismo circa l’utilità di stabilire cosiddetti contatti e vincoli con persone che siano già soggette al pregiudizio. Queste persone hanno già perso la capacità di esperire. Le manifestazioni antisemite vanno contrastate molto energicamente: devono vedere che chi si pone contro di esse non ha paura. Si può tenere in scacco un cane che morde se si accorge che non lo si teme, ma si è persi non appe­na si rende conto che si trema davanti alle sue zanne. E così succede anche in questi casi. Dopo il mio ritorno in Germania ho avuto esperienze dirette con queste persone. Una volta mi è capitato di passare davanti a degli autisti che lavoravano nel pool della forza d’occupazione americana. Parlando tra di loro lanciarono terribili invettive contro gli ebrei. Andai dalla prima guardia che trovai e li feci arrestare. Al posto di polizia ho avuto un lungo e approfondito colloquio con il loro capoccia dal quale ho sentito una frase che mi è rimasta molto impressa: «Sa com’è, ieri eravamo nazi, oggi siamo ami e domani saremo kommi» [nazisti, americani e comunisti]. Involontariamente mi ha così rivelato una profonda verità sull’intera struttura caratteriale del suo tipo. In esso il motivo dell’adeguamento a tutti i costi prevale su tutto il resto. Si può ottenere qualcosa se in questi casi non ci si tira indietro e se si risponde francamente a tutti i discorsi di queste persone. Ebbi comunque la sensazione che quegli autisti lasciassero il posto di polizia con uno spirito leggermente diverso, almeno secondo la loro stessa convinzione. A contatto con pregiudizi espliciti e ostinati, bisogna confidare in una sorta di terapia d’urto. Bisogna porsi nelle contro posizioni più drastiche. Lo choc e la forza morale devono convergere. Sarebbe invece negativo tirarsi indietro. Proprio chi è estraneo al carattere soggetto all’autoritarismo, non insisterà sull’esecuzione di punizioni e così via. A noialtri ripugna ogni zelo punitivo, in americano punitiveness. Ma l’umanità viene molto spesso interpretata come segno di debolezza o di cattiva coscienza spianando la via al meccanismo del ricatto. Bisogna fare attenzione, nel comportamento come nei discorsi, a non far scattare lo stereotipo della debolezza che le persone piene di pregiudizi sono pronte a cogliere per utilizzarlo contro coloro che hanno idee diverse. Le argomentazioni devono essere coerenti fino in fondo. Esempio: se uno si sente dire più o meno la frase «dove c’è molto fumo, ci deve essere anche arrosto» (se c’è tanto antisemitismo, dipenderà dagli ebrei), bisogna rispondere che questo proverbio è funzionale a un rifiuto anticipato, che non corrisponde al vero, ma è pura ideologia. Parlando con le persone piene di pregiudizi, che solitamente prediligono un determinato tipo di realismo e perseguono ostinatamente il proprio interesse individuale e nazionale, bisogna far leva sulle conseguenze visibili e dimostrabili del nazionalsocialismo. Bisogna richiamare la loro attenzione sui risultati che questo potrebbe produrre e su ciò che molto probabilmente accadrebbe a loro stessi sotto un rinnovamento totale o parziale del fascismo.

Inoltre bisognerebbe far notare a queste persone che, come ho detto, spesso non sono assolutamente stupide, ma solo incattivite e chiuse, che nella nostra società nessuno fa volentieri la parte del fesso. Bisogna dimostrare loro che lo spirito dell’antisemitismo è, effettivamente, come dice quella nota citazione, il socialismo dei babbei, che gli viene affibbiato per trasformarli in oggetti della manipolazione. Questa è la semplice verità che difficilmente dovrebbe mancare il suo effetto se ci si confronta con gli antisemiti al livello del loro realismo un po’ gretto. Sarebbe estremamente utile convincerli che ottengono il contrario di quanto si aspettano. Al momento c’è un’altra particolare situazione che alimenta gli istinti antisemitici. Mi riferisco ai sentimenti anti americani. Se non erro, si stanno intensificando dalla crisi di Berlino in poi, da quando ognuno si è accorto che tra Washington e Bonn non sono solo rose e fiori. È una musica già sentita, probabilmente anche nella propaganda sussurrata, attraverso uno strumento che ben conosciamo: «Ci tradiscono, ci piantano in asso.» Il grido «tradimento, tradimento» è demagogicamente sperimentato in modo straordinario di qua e di là del Reno. Poiché l’attuale governo americano è un governo di sinistra e poiché Kennedy si avvale di una serie di consiglieri ebrei, è evidente che contestualmente al complesso anti Kennedy prosperi anche quello antisemita. Una lotta efficace all’antisemitismo è inscindibile da una lotta efficace al nazionalismo in ogni sua forma. Non si può essere da una parte contro l’antisemitismo e dall’altra un nazionalista militante. Il presupposto più irrinunciabile per un miglioramento è un rapporto razionale con le questioni di politica mondiale al posto di un nazionalismo ideologico e colmo di livore. Strettamente connesso a questo è, nella fase attuale, il risveglio dell’anti intellettualismo. Oggi lo si trova a ogni passo, e non solo tra gli estremisti di destra, ma perfino nelle espressioni del cosiddetto conservatorismo moderato. Questo dipende dalla natura del conformismo tedesco. So che gli anti intellettuali si arrabbiano particolarmente quando sentono la parola conformismo, ma è proprio l’ira che scatena questa parola a confermare la violenza della cosa: che per il momento il conformismo, insomma, continua a fare da bravo il suo servizio. La deviazione dalla opinione di gruppo ormai affermatasi è considerata a priori ambigua e sospetta. A questo proposito un ruolo particolare lo gioca chi indichi le carenze di un sistema o la problematica di una determinata situazione. Questi — secondo lo schema del tradimento — viene considerato responsabile delle carenze, mentre la situazione da lui caratterizzata ne esce assolta. È sempre valido il detto del vecchio Helvetius secondo cui la verità non ha mai fatto male a nessuno, tranne che a colui che la dice. Di questo meccanismo bisognerebbe essere consapevoli.

Sarebbe importante non indietreggiare davanti agli argomenti anti intellettuali, non dare loro alcun appiglio, ma fronteggiarli con un atteggiamento di illuminismo militante, affermando che in una costituzione globale dell’umanità e anche della nazione tedesca in cui la coscienza degli uomini non sia più incatenata e mutilata da ogni genere di meccanismi di condizionamento, essere intellettuali non sarebbe più un privilegio oggetto di invidia e quindi diffamato, ma che in fondo tutti gli uomini potrebbero e in realtà dovrebbero essere ciò che generalmente è concesso solo agli intellettuali. Peraltro le immagini con cui molti mezzi di comunicazione di massa, e in Germania non più che altrove, istigano contro gli intellettuali sono spesso stereotipi antisemiti vagamente camuffati. Bisognerebbe esigere dall’industria cinematografica che evitasse, a causa di quelle implicazioni, stereotipi anti intellettuali di questo genere; i quali non sono tuttavia limitati alla sola industria culturale, ma si aggirano anche nella cosiddetta cultura alta. A suo tempo, espressi la convinzione che in una delle opere più celebri del teatro operistico tedesco, i Maestri cantori, il personaggio violentemente negativo Beckrnesser, quantunque non potesse essere ebreo perché appartenente a una corporazione, fosse caratterizzato in modo tale da riecheggiare ogni immaginabile stereotipo antisemita. Almeno rispetto a una certa tradizionale e ufficiale cultura tedesca sarebbe necessario esprimere queste cose e fare opera di disintossicazione. Non oso immaginare quale scompenso provochi ancora oggi la lettura di libri come Soll und Haben [dare e avere] di Gustav Freytag. Il rispetto del cosiddetto retaggio culturale non dovrebbe impedirci di guardarlo da vicino. Non è stato Hitler il primo a importare, dall’esterno, l’antisemitismo nella cultura tedesca; questa cultura era profondamente intrisa di pregiudizi antisemitici anche laddove riteneva di essere più colta.

I pregiudizi razziali di ogni genere sono oggi arcaici e in stridente contraddizione con la realtà in cui viviamo. Nondimeno, non bisogna trascurare ciò che ha fatto notare un sociologo-filosofo al recente convegno filosofico di Münster: cioè che quanto più queste irrealtà perdono il fondamento reale in una civiltà tecnologicamente sempre più razionale, tanto più virulenta diventa, contemporaneamente, la tendenza irrazionale a tenerle ferme, ad aggrapparvisi. Ora, se si prende coscienza di questa contraddizione per poterla, quindi, chiarire anche agli altri, allora si può veramente procedere con uno spirito che trova la sua più vera espressione nella volontà che: «Quanto è successo non deve ripetersi mai più».

Da: Zur Bekämpfung des Antisemitismus heute, in Gesammelte Schriften, vol. 20, I, pp. 360–832. Edizione italiana, 1994, Il Manifestolibri. Trad. ital. di Franco Filice.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.