The Economist

Un’istituzione che resiste ai social e alla crisi della grande stampa

Mario Mancini
8 min readJul 10, 2021

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Perché è un giornale?

Non è solo il nome Tthe Economist che la gente trova sorprendente. Ecco alcune altre frequenti domande che gli vengono rivolte.

La più frequente: perché si definisce un giornale? Anche dopo aver incorporato la Bankers’ Gazette e il Railway Monitor dal 1845 al 1932, l’Economist continuava a definirsi “un giornale politico, letterario e generale”.

Lo fa ancora perché, oltre a offrire analisi e opinioni, cerca in ogni numero di coprire i principali eventi, economici e politici, della settimana. Va in produzione il giovedì e, stampato simultaneamente in sei paesi, è disponibile nella maggior parte delle principali città del mondo il giorno seguente o subito dopo.

I lettori di tutto il mondo ricevono lo stesso contenuto editoriale. Le pubblicità sono diverse. Anche l’ordine delle sezioni e, a volte, la copertina, differiscono. Ma le parole sono le stesse, tranne che ogni settimana i lettori in Gran Bretagna ricevono alcune pagine extra dedicate alle notizie del loro paese.

Perché è anonimo?

Molte mani scrivono l’Economist, ma esso parla con una sola voce. Le opinioni dei capi vengono discusse, spesso contestate, ogni settimana in riunioni aperte a tutti i membri della redazione. Più giornalisti spesso collaborano agli articoli. E alcuni articoli sono pesantemente riscritti.

La ragione principale dell’anonimato, tuttavia, è la certezza che ciò che viene scritto è più importante di chi lo scrive. Come dice Geoffrey Crowther, direttore dal 1938 al 1956, l’anonimato mantiene il direttore “non come un padrone ma come un pari al sevizio di qualcosa di molto più grande di lui. Potete chiamarlo culto degli antenati se volete, ma dà al giornale un grande slancio di pensiero e di principi”.

Chi possiede The Economist?

L’Economist Newspaper Limited, la società madre dell’Economist Group, è una società privata e nessuna delle sue azioni è quotata. EXOR SA possiede il 43,4% del capitale, mentre il resto è di proprietà divisa tra un gruppo di azionisti indipendenti, tra cui molti membri dello staff. L’indipendenza del direttore è garantita dall’esistenza di un consiglio di amministrazione che lo nomina formalmente e lo può rimuovere.

In cosa crede The Economist, oltre al libero scambio e al libero mercato?

“È ai Radicali che l’Economist ama ancora pensare di appartenere. Il centro estremo è la posizione storica del giornale”. Questo è vero oggi come quando Crowther lo disse nel 1955. L’Economist si considera il nemico del privilegio, della pomposità e della prevedibilità.

Ha sostenuto conservatori come Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Ha sostenuto gli americani in Vietnam. Ma ha anche appoggiato Harold Wilson e Bill Clinton e ha sposato una varietà di cause liberali: si è opposto alla pena capitale fin dai suoi primi giorni, ha favorito la riforma penale e la decolonizzazione, così come, più recentemente, il controllo delle armi e i matrimoni gay.

Il linguaggio semplice

Infine, l’Economist crede nel linguaggio semplice. Walter Bagehot, il primo direttore, si sforzava di “essere colloquiale, di mettere le cose nel modo più diretto e avvincente, come la gente ne parlerebbe tra sé in una comune conversazione, usando colloquialismi espressivi”. Questo rimane lo stile del giornale oggi.

La visione di James Wilson, il fondatore

l’Economist fu fondato nel 1843 per portare avanti una campagna su una delle grandi questioni politiche dell’epoca. Dopo quasi due secoli rimane fedele ai principi del suo fondatore, James Wilson. Wilson, un cappellaio della piccola città scozzese di Hawick, credeva nel libero scambio, nell’internazionalismo e nella minima interferenza del governo, specialmente negli affari del mercato.

Anche se le leggi protezionistiche del grano che ispirarono Wilson a fondare l’Economist furono abrogate nel 1846, il giornale è andato avanti senza mai abbandonare il suo impegno per le idee liberali classiche del XIX secolo abbracciate dal suo fondatore.

Le Corn Laws, che tassando e limitando le importazioni di grano, rendevano il pane costoso e la fame diffusa, erano un male per la Gran Bretagna. Il libero scambio, secondo Wilson, era invece un bene per tutti.

Nel suo prospectus per l’Economist, Wilson scrisse:

“Se guardiamo all’estero, nell’ambito dei nostri rapporti commerciali, vediamo intere isole e continenti, sui quali la luce della civiltà non è ancora spuntata; e crediamo seriamente che il libero commercio, i liberi rapporti, faranno più di qualsiasi altro agente visibile per estendere la civiltà e la moralità in tutto il mondo — sì, per estinguere la schiavitù stessa”.

La visione di Wilson era, quindi, morale, persino civilizzatrice, ma non moralista. Credeva “che la ragione ci è data per guidare i nostri sentimenti”. Il ragionamento lo convinse in particolare che Adam Smith aveva visto giusto: attraverso la mano invisibile il mercato recava benefici sia agli individui in cerca di profitto (come lui) che alla società nel suo complesso.

Lui stesso era un produttore e voleva soprattutto parlare agli “uomini d’affari”. Di conseguenza, insisteva che tutti gli argomenti e i programmi presentati nel documento fondativo fossero sottoposti alla prova dei fatti. Per questo il giornale si chiamava The Economist.

La visione di Walter Bagehot

Wilson non è stato il più grande direttore dell’Economist in termini intellettuali. Quel titolo va probabilmente a suo genero, Walter Bagehot (pronunciato Bajut), che fu il terzo direttore del giornale, dal 1861 al 1877.

Bagehot era un banchiere, ma è meglio ricordato per i suoi scritti politici e in particolare per i suoi articoli sulla costituzione britannica. Il monarca, sosteneva, era a capo delle parti “dignitarie” della costituzione, quelle che “stimolano e preservano la riverenza della popolazione”; il primo ministro era a capo delle parti “efficienti”, cioè “quelle con cui, di fatto, la monarchia funziona e governa”. Questa distinzione è spesso richiamata, anche oggi.

Fu Bagehot che allargò il campo del giornale alla politica. Si deve a lui il rafforzamento dell’interesse per l’America che l’Economist ha sempre mostrato.

Sotto la direzione di Bagehot, che sosteneva che “lo scopo dell’Economist è quello di gettare luce bianca sui soggetti opachi”, l’influenza del giornale crebbe. Un ministro degli esteri britannico, Lord Granville, disse che ogni volta che si sentiva incerto, gli piaceva aspettare di vedere cosa aveva da dire il numero dell’Economist. Un altro ammiratore di Bagehot fu Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921.

Il giornale, comunque, dovette aspettare quasi mezzo secolo prima di avere un altro direttore altrettanto autorevole. Nel 1922 arrivò Walter Layton, il cui successo, nelle parole della storica dell’Economist, Ruth Dudley Edwards, fu quello di fare leggere il giornale “diffusamente nei corridoi del potere all’estero così come in patria”, anche se i critici dissero che era “leggermente noioso”.

Questa non era certo una critica che poteva essere mossa al suo successore, Geoffrey Crowther, che è stato probabilmente il più grande direttore dell’Economist dopo Bagehot. Il suo contributo fu quello di sviluppare e migliorare la copertura degli affari esteri, specialmente quelli americani e dell’economia. La sua autorevolezza non era mai stata così elevata e diffusa.

L’internazionalismo

Fin dai primi giorni, l’Economist ha guardato all’estero, sia per gli argomenti di cui scrivere che per la diffusione. Già negli anni 1840, aveva lettori in Europa e negli Stati Uniti. Nel 1938, metà delle sue vendite erano all’estero anche se, per via della guerra mondiale, non per molto.

La grande innovazione di Crowther fu quella di iniziare una sezione dedicata agli affari americani, passo che fece subito dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour nel dicembre 1941.

“American Survey” (ribattezzato “United States” nel 1997) era rivolto non agli americani ma ai lettori britannici che, secondo Crowther, avevano bisogno di sapere di più sui loro nuovi alleati. Col tempo, però, si guadagnò un seguito negli Stati Uniti che divenne la base per il grande aumento della diffusione americana che iniziò negli anni ‘70.

Per la maggior parte della sua esistenza l’Economist si è accontentato di una modesta diffusione. Quando Bagehot rinunciò alla carica di direttore, erano 3.700 le copie vendute, nel 1920 erano salite a 6.000. Dopo la seconda guerra mondiale, la difussione crebbe rapidamente a 18.000 copie.

Quando Crowther lasciò si trovava ancora a 55.000 copie, non raggiunse le 100.000 fino al 1970. Oggi la diffusione è di oltre 1,4 milioni di copie, più di quattro quinti fuori dalla Gran Bretagna. La diffusione in America rappresenta più della metà del totale.

Un recente direttore, Rupert Pennant-Rea, una volta ha parlato dell’Economist come di “un giornale d’opinione del venerdì, dove i lettori, con redditi più alti della media e menti migliori della media ma con meno tempo della media, possono testare le loro opinioni contro le nostre.

Cerchiamo di raccontare al mondo il mondo, di persuadere l’esperto e raggiungere l’appassionato, con un’iniezione di opinioni e di argomenti”. Con lettori come questi, e obiettivi come questi, l’Economist era destinato a trovare sempre più difficile aumentare la diffusione in Gran Bretagna.

Questo divenne particolarmente vero negli anni ’60 e ’70, quando i quotidiani britannici iniziarono a pubblicare più articoli interpretativi, argomentativi e analitici che erano stati tradizionalmente appannaggio dei settimanali. L’Economist è sopravvissuto, e in effetti ha prosperato, costruendo sull’internazionalismo delle sue prospettive e vendendo tantissimo all’estero.

In questa espansione è stato aiutato enormemente dalla copertura dell’economia e del business. Wilson credeva che anche la statistica, lungi dall’essere noiosa, potesse “offrire un interesse più profondo e spesso più stimolante nei confronti degli eventi”.

Ancora oggi, lettori come Helmut Schmidt, cancelliere della Germania Ovest dal 1974 al 1982, sono d’accordo. Ma pochi lettori comprano l’Economist solo per una cosa, e negli ultimi anni il giornale ha aggiunto sezioni dedicate a Europa, Asia, America Latina, questioni internazionali, scienza e tecnologia. Ha anche ampliato la recensioni di libri e arte e ha introdotto una nuova rubrica sui mercati finanziari, Buttonwood.

Lo staff dell’Economist

Gli articoli dell’Economist non sono firmati e non sono tutti opera della redazione centrale. Inizialmente, il giornale era scritto in gran parte a Londra, con rapporti di collaboratori dall’estero. Nel corso degli anni, questi hanno lasciato il posto a corrispondenti che inviavano le loro storie per posta marittima o aerea e poi per telex e cavo.

Oggi, in aggiunta a una rete mondiale di corrispondenti, il giornale ha circa 20 giornalisti stabili all’estero. I collaboratori hanno spaziato da Kim Philby, che faceva la spia per l’Unione Sovietica, a H.H. Asquith, il principale scrittore del giornale prima che diventasse il primo ministro britannico, da Garret FitzGerald, che divenne premier irlandese a Luigi Einaudi, presidente dell’Italia dal 1948 al 1955.

Anche le persone più illustri del suo staff, comunque, scrivono in forma anonima: solo i rapporti speciali, i supplementi piuttosto lunghi pubblicati una 20na di volte all’anno su varie questioni o paesi, sono firmati. Nel maggio 2001, una nuova veste grafica ha introdotto più informazioni per i lettori e il colore in tutte le pagine.

Il logo

Il logo aziendale dell’Economist si è evoluto dal lettering gotico usato sulla copertina del primo numero, pubblicato nel 1843, al fondo rettangolare rosso nel 1959 ideato da Reynolds Stone, incisore e tipografo britannico. Ora usa un font l’Economist Typefamily, un famiglia di caratteri creata appositamente per il giornale.

Maggiori dettagli sul carattere tipografico dell’Economist

Dal maggio 1991 l’Economist ha iniziato a usare una famiglia di caratteri appositamente progettata. Il lavoro di sviluppo si è concentrato specificamente sul modo nel quale la nuova famiglia di caratteri avrebbe risposto alla diffusione telematica e alle diverse condizioni di stampa nei sette siti di produzione internazionali dell’Economist.

Nel nostro recente re-design è stato introdotto un nuovo carattere, Officina, per i titoli di copertina e tutte le informazioni di navigazione. Anche Ecotype, il carattere principale degli interni, è stato ridisegnato per rendere più facile la lettura degli articoli.

Da: About us, The Economist website.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.