Tamara de Lempicka, l’erotismo celato negli sguardi
di Marika Lion
Estratto dal libro: Voli d’artista. Vite (e opere) da collezione, di Marika Lion, goWare, 2019, pp. 44–50
Una vita circondata da leggende, con amori maschili e femminili e un carattere cinico, una donna disinibita, libera dai concetti tradizionali di fedeltà o gelosia. Un insieme di forme e atteggiamenti che fanno di Tamara de Lempicka una figura mitica.
La sua personalità è il connubio tra un’estetica decadente e simbolista, di matrice russa, e il futurismo secondo l’interpretazione femminista di Valentine de SaintPoint, autrice del Manifesto futurista della Lussuria.
Nata a Varsavia nel 1898 si trasferisce poi a San Pietroburgo, dove ancora utilizza il nome di battesimo, Maria Gurwik-Górska. In breve sposa Tadeusz Łempicki, un giovane avvocato amante delle donne e del tempo perso: da qui abbandona il cognome per prendere quello del marito e si trasferisce a Parigi nel 1919.
La sua passione per l’arte è quasi “carnale” e in soli pochi anni, dall’arrivo in Francia al 1922, riesce a impadronirsi del mestiere, raggiungendo il livello di una grandissima professionista. Le tele degli anni Venti (come La donna in abito nero e Le due amiche) sono già opere di grande composizione cromatica, proprie dell’arte della Lempicka.
Le sue figure sono prepotentemente visive, grazie a una certa deformazione che entra nelle linee conduttrici, curve che disegnano cerchi e archi. I soggetti sembrano quasi delle composizioni scultoree (secondo la lezione cubista).
Non usa molti colori, le diverse tele riprendono spesso le medesime cromie e il nero, con il grigio, serve a smorzare i rapporti più forti; le sue donne hanno volti con evidenti occhi infossati, segnati da arcate sopraccigliari nette, truccate con ombre scure che richiamano l’uso di Marlene Dietrich di stendere sulle palpebre la cenere delle sigarette stemperata nel caffè.
Frequenta le scuole di due artisti: Maurice Denis, pittore simbolista, e André Lhote, di formazione cubista, che nel 1922 fonda un’accademia in rue d’Odessa, a Montparnasse. La Lempicka eredita da entrambi i maestri la necessità di ricerca uno stile che, necessariamente, diventa controllo dell’immagine, un tumulto di passioni capace di coinvolgere lo spettatore. I personaggi della pittrice diventano statue immobili, manichini femminili con un’ambiguità tutta giocata sugli sguardi.
L’intelligenza pittorica è per l’artista una sorta di equilibrio che deve eliminare tutto ciò che appare volgare, e la sua riesce con grande raffinatezza. Interessanti sono gli arabeschi dei volti che troviamo nei dipinti degli anni Venti, come Testa di donna slava, che richiamano certi volti di Agnolo Bronzino o del Pontormo.
La Lempicka, per tutta la vita, cerca di ritrarre personaggi con una storia capace quasi di influenzare il dipinto, come volesse trasferire nella tela la loro anima, per dare gloria alla sua opera, o come se la stessa fosse capace di riflettere la natura della persona ritratta.
Nel 1925 dipinge alcuni ritratti. Tra questi, Il ritratto del marchese Sommi, dove le geometrie combinano una figura posta quasi su piani asimmetrici tali da spezzare il quadro in diverse sovrapposizioni, facendo risaltare in particolar modo la mano con l’anello in oro con al centro uno smeraldo, appoggiata al braccio sinistro, e il volto dai lineamenti piuttosto femminili.
Nella seconda metà del decennio, La Lempicka viene assorbita dalla ricerca del “ritmo pittorico”, frutto della teoria di Lhote. Nel quadro Gruppo di quattro nudi troviamo un sistema di linee, archi e ovali proprio attraverso i profili e le ombre dei corpi.
Più tardi osserva JeanAugusteDominique Ingres, il ritrattista dei nobili e dell’alta borghesia, nel tentativo di trovare uno stile intellettuale. Nelle opere successive, infatti, vediamo gli ideali estetici di Ingres: tanto più le linee e le forme sono semplici, tanto più c’è bellezza e forza (e il colore aggiunge ornamento, ma non è che una dama di compagnia a confronto di una nobile signora).
La Lempicka ama i grigi per gli sfondi ma anche per le architetture, grigie le pareti di casa sua e delle gallerie dove esponeva. Quello stesso grigio, dell’equilibrio e dell’armonia delle architetture fiorentine, che troviamo sullo sfondo dei ritratti del Pontormo.
Negli anni successivi i personaggi, prima nudi, si vestono pesantemente, con abiti squadrati e voluminosi che coprono i corpi e li sublimano a tal punto da far credere che l’abito sia quasi un velo bagnato che aderisce alle membra, come ad esempio in Giovane fanciulla con i guanti, dove il vestito verde aderisce al corpo e ne esalta le parti anatomiche, ma senza alcun cenno di volgarità e il tutto appare molto naturale.
In Ritratto di madame Allan Bott, del 1930, la figura ha una elegante plasticità e c’è una danza di pieghe dell’abito biancoargento incorniciato da una stola di pelliccia e, sullo sfondo, da alti grattacieli americani, immersi nella notte.
E tra i molti, nel 1933 la Lempicka espone un ritratto che viene presentato a tutta la Parigi che conta: quello del conte Vettor Marcello.
In quegli stessi anni il tema del lesbismo è di grande attualità, indipendentemente dalle propensione della Lempicka. Un esempio lo troviamo nella prima edizione della Recherche di Marcel Proust, in cui sono descritti diversi episodi di amori femminili. Donne della borghesia, che animano la vita intellettuale della rive gauche.
Dagli anni Trenta, La Lempicka inizia a dipingere quadri con soggetti religiosi e nel 1933 espone al Salon des Tuileries una Giovanna d’Arco mentre sente la voce divina. Un’opera che intende lasciare da parte l’alta società, preferendo gli emarginati. Altri dipinti a tema religioso sono Sant’Antonio, San Giovanni Battista, tutti esempi del forte cambiamento pittorico dell’autrice.
Inizia per lei un periodo in cui la sua forza ispiratrice si affievolisce, crisi ancora più evidente durante il soggiorno negli Stati Uniti, dove si era trasferita a partire dal 1939. Dipinge nature morte che rivelano un’evidente stanchezza di maniera, lo sguardo dell’artista è appannato, ormai lontana dal periodo parigino. Negli anni Quaranta e Cinquanta le sue opere comunicano solo un tono fermo, immobile, e la plasticità appare quasi goffa.
Conclude la carriera e la stessa vita ridipingendo i quadri degli années folles a Parigi. Li ricopiava da fotografie, ma nulla poteva essere come prima.
Da: Marika Lion, Voli d’artista. Vite (e opere) da collezione, goWare, 2019, pp. 45–50
Contenuti del libro:
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Marika Lion è autrice di testi su arte e cultura, responsabile del magazine first Arte. Specialista di arte moderna e contemporanea, fotografia e mercato dell’arte. Opera nel settore dell’Art Heritage Management e nello specifico in area patrimoniale. Esperta in strategie di comunicazione pubblica-istituzionale, valorizzazione e promozione di patrimoni artistico-culturali. Docente in Economia dell’Arte e Marketing e comunicazione degli eventi culturali. Fondatrice di Manifesto12 | Arts | Culture | Wealth, studio specialistico associato per la valorizzazione e promozione di collezioni e archivi privati. Ama scrivere, fotografare, i fiori e i gatti. Tutte le sue opere sono dedicate a un libro mai pubblicato, Avrei voluto la luna.