Suicidi d’artisti

di Rudolf e Margot Wittkover

Mario Mancini
29 min readNov 1, 2020

Vai all’indice le libro mosaico “Nati sotto Saturno” di Rudolf e Margot Wittkower

La facciata dela chiesa di S. Agnese a Roma in piazza Navona, uno dei progetti più famosi di Francesco Borromini, uno degli artisti suicidi

Un’indagine statistica

Gli psichiatri sono d’opinione che molti tipi psicologici diversi abbiano predisposizione al suicidio. Secondo Gregory Zilboorg «non c’è una sola entità clinica [quali le psicosi depressive, le nevrosi coattive, ecc.] riconosciuta in psichiatria che sia immune da tendenze al suicidio».

L’affermazione è importante nel quadro del nostro studio: se infatti l’immagine dell’«artista matto» formatasi nel corso di un lungo periodo fosse basata su fatti oggettivi, gli artisti dovrebbero essere particolarmente portati al suicidio. Sembra invece che sia vero il contrario. Le nostre ricerche, aiutate da amici e colleghi sono giunte a scoprire un numero singolarmente esiguo di morti volontarie fra gli artisti.

Anche di disposizioni suicide le fonti parlano raramente. Casi come quello del fiorentino Andrea Feltrini (1477–1548) sono del tutto eccezionali. Feltrini era un pittore minore, occupato per lo più in lavori decorativi; il Vasari, che lo conobbe bene per tutta la vita, lo chiama il «migliore uomo che toccasse mai pennello», ma dice che egli era

di natura timido, e non volse mai sopra di sé fare lavoro alcuno, perché temeva a riscuotere i danari delle opere.
Andrea… molte volte per uno umor malinconico che spesso lo tormentava, si fu per tor la vita; ma era da Mariotto suo compagno osservato molto e guardato talmente, che già venuto vecchio di 64 anni finì il corso della vita sua.

Ma la nostra affermazione apodittica della rarità dei suicidi fra gli artisti può essere contestata. In effetti non si riesce a vedere come questo problema numerico possa sollevarsi sopra il livello delle congetture plausibili.

Per lunghi periodi della storia europea il suicidio è stato considerato come qualcosa di infamante, ed è certo che i parenti, gli amici e i biografi dei suicidi avrebbero fatto il possibile per tener celato un misfatto condannato con tanta veemenza dalla Chiesa e dalla società.

Inoltre molti suicidi, particolarmente quelli per avvelenamento, non furono probabilmente mai scopertiFu solo con la Rivoluzione francese che il suicidio cessò di essere un delitto nella maggior parte dei paesi europei.

In secondo luogo, bisognerebbe accertare il rapporto fra il numero dei suicidi nell’ambiente artistico e nelle altre professioni, ma anche qui i dati sono manchevoli.

La scienza statistica è una delle ultime arrivate nel campo delle ricerche, e, ad eccezione della Svezia, le statistiche sui suicidi sono rare prima della seconda metà del secolo XIX; e anche allora i metodi di rilevamento non erano coordinati, ma variavano da un luogo all’altro.

In certi paesi si consultavano i registri di polizia, in altri i certificati di morte dei medici; e non abbiamo neppure la certezza che tutti i casi, o anche solo la maggior parte di essi, venissero registrati. Per giunta le tabelle statistiche erano compilate di solito sotto rubriche per noi prive di utilità, quali il rapporto fra suicidi maschi e femmine, sposati e celibi, o il confronto fra gli indici di frequenza in seno alle varie confessioni religiose.

Anche le classificazioni per mestieri hanno scarso valore per il nostro studio, perché le tabelle differiscono amplissimamente nella definizione dei gruppi professionali.

Di regola gli artisti non compaiono affatto come titolo a sé, e presumibilmente son relegati nella sezione delle «altre professioni». Ma in un’analisi statistica per professioni relativa agli anni 1866–76 in Italia gli artisti figurano invece separatamente, e la rassegna conferma la nostra tesi che essi abbiano poca inclinazione al suicidio: minore, di fatto, che i membri di tutti gli altri gruppi professionali, ad eccezione dei preti.

Si è detto che nell’età medievale l’autodistruzione era talmente rara che «nessun suicidio importante» si trova registrato fra il 400 d. C. e il 1400. Alcuni studiosi ritengono che dal Cinquecento in poi il numero dei suicidi crebbe bruscamente, e altrettanto, si può supporre, l’interesse del pubblico per questo macabro gesto.

Un autore, tenendo conto soltanto delle opere teoriche più importanti, ha calcolato che fra il 1551 e il 1580 furono scritti quattro trattati sul suicidio, mentre quindici ne apparvero nel XVII secolo, ottantaquattro nel XVIII e cinquecentoquaranta nel XIX. Ma naturalmente bisogna considerare che anche il numero dei libri pubblicati è venuto crescendo enormemente da un secolo all’altro.

Per qualche ignota ragione, sembra che la gente nel Settecento fosse convinta che l’Inghilterra aveva il tasso di suicidi più alto.

Roland Bartel, uno studioso americano che si è occupato di questa curiosa credenza, nomina il Defoe, il quale scriveva che le cronache londinesi contemporanee facevano pensare che ogni anno avvenissero in Inghilterra più suicidi che in tutto il resto d’Europa messo insieme

Un viaggiatore francese notava che «gli inglesi muoiono per mano propria con altrettanta indifferenza che per mano altrui», e un tedesco si meravigliava delle numerose morti volontarie «tanto fra persone di buona famiglia che nella feccia del popolo».

Inutile dire che la colpa di questi atti disperati era attribuita sovente al clima inglese; spiegazione che confortava il Jefferson a sperare che «i chiari cieli d’America avrebbero protetto i suoi abitanti da ogni tendenza ad impiccarsi ereditata per avventura dai loro antenati inglesi».

Quelli che verosimilmente non avevano esperienza del clima inglese o ci si erano abituati, preferivano imputare le inclinazioni suicide dei britanni all’eccessivo consumo di carne e di tè.

Ricordiamo questi pareri più o meno assurdi perché essi mostrano quanto la gente fosse sprovveduta di fronte al fenomeno del suicidio. Ma sarebbe avventato sperare che gli stessi dati essenziali del fenomeno siano stati chiariti dalle ricerche degli ultimi cent’anni.

Basandosi sulle statistiche, taluni studiosi hanno trovato che il numero delle morti volontarie decresce in tempi di calamità generali, come le guerre; altri pensano al contrario che «i periodi di disordine sono particolarmente favorevoli al suicidio».

Alcuni credono che le persone molto sofisticate siano le più inclini al suicidio; altri mettono gli operai di fabbrica in cima alla lista. Alcuni cercano le cause sociali ed economiche; altri i motivi psicologici.

Ai profani tutti questi argomenti e contro-argomenti appaiono insieme giusti e sbagliati. Sembra che il suicidio sia un problema tanto sociale quanto psicologico, e che esistano tanti moventi particolari quanti sono i suicidi.

Vien fatto di leggere quasi con sollievo una conferma di questo truismo nello studio di uno psichiatra che ha esaminato 1817 casi registrati al Policlinico di Cincinnati. «I tentativi di suicidio — egli conclude — si verificano negli individui più diversi, e nelle più diverse circostanze».

Pochi libri sull’argomento — e nessuna statistica — parlano di suicidi per motivi filosofici. Eppure la libertà di scegliere la morte volontariamente era considerata dagli stoici di Roma e più tardi da quelli rinascimentali come naturale e supremo diritto dell’uomo.

Il suicidio non solo cominciò a trovar luogo nella letteratura di questo periodo, ma si ebbero dei suicidi «all’antica», come quello di Filippo Strozzi nel 1538. Inoltre suicidi antichi come quelli di Lucrezia, Didone, Catone Uticense e molti altri furono ora celebrati dagli artisti come simboli di Castità, di Virtù, d’Amore e di Coraggio.

Ma è dubbio se qualche artista seguisse mai i nobili esempi dell’antichità. I casi che son giunti a nostra notizia sono meno eroici: parlano delle traversie, delle sofferenze e delle delusioni di uomini tormentati.

Prima di occuparcene dobbiamo cercare di risolvere questo quesito: come mai i suicidi siano, a quel che sembra, meno frequenti fra gli artisti che negli altri ambienti professionali.

Melanconia e tendenze suicide sono strettamente connesse, e può meravigliare che i melanconici artisti rinascimentali e post-rinascimentali soccombessero cosi raramente a desideri di morte. Uomini come Piero di Cosimo e il Pontormo, per quanto infelici e solitari, trovavano modo di sfuggire al loro scontento nell’esaltazione creativa. Intensificando una soddisfazione che era loro propria, costoro compensavano la mancanza dei piaceri che sono cari ad altri.

Di qui s’arriva a un altro punto: entusiasmo platonico, creatività prometeica, talento innato od esaltazione divina che dir si voglia, il fatto di credersene dotati reca conforto agli artisti là dove altri potrebbero cedere alla disperazione. In uno dei capitoli precedenti abbiamo osservato che la disperazione originata da un sentimento di insufficienza professionale è rara fra gli artisti. «L’artista è sorretto nelle miserie presenti dalla speranza d’un aureo futuro», si legge nelle memorie di un pittore dell’Ottocento. Inoltre non bisogna sottovalutare il fattore sfogo.

Dove ha corso l’immagine dell’artista-folle le manifestazioni nevrotiche che mal si tollererebbero nella gente comune sono scusate o anzi scontate in anticipo negli artisti. Annibal Caro incoraggiava con queste parole Raffaello da Montelupo, il collaboratore di Michelangelo: «l’esser voi scultore, porta seco un privilegio che vi rende salvo da ogni stravaganza». Questo atteggiamento del pubblico facilitava l’adattamento degli artisti e limitava il ricorso al suicidio.

Il Rosso Fiorentino

La morte del Rosso Fiorentino (1494–1540), il primo suicidio riportato nella letteratura storico-artistica, pone di primo acchito alcuni problemi tipici.

La sola fonte contemporanea sulla presunta autosoppressione del Rosso è il Vasari, che si trovava in Italia quando il pittore mori in terra francese. Era stato il Vasari informato fedelmente sulla morte dell’amico, o aveva accolto troppo affrettatamente voci infondate, non prive forse di intenti calunniosi?

Perché questo artista, allora quarantaseienne e al culmine della fama, avrebbe dovuto togliersi la vita? Sono quesiti importanti, perché riguardano la vita e la morte di un grande artista e al tempo stesso l’interpretazione delle fonti documentarie contemporanee. I fatti essenziali, di cui in gran parte c’informa il Vasari, sono i seguenti.

Giovan Battista di Iacopo de’ Rossi, detto il Rosso, era nato a Firenze. Di buona educazione e cultura e altamente dotato egli fu uno degli esponenti principali del manierismo fiorentino. Dal 1523–24 in poi lavorò a Roma, fu catturato dai tedeschi nel Sacco del 1527, e dopo tre anni di vita alquanto randagia nell’Italia centrale e settentrionale decise di passare in Francia, dove fu bene accolto cosi dalla corte francese, come dalla colonia fiorentina. A Parigi, dice il Vasari,

fatti alcuni quadri, che poi furono posti in Fontanableo nella galleria, gli donò al re Francesco, al quale piacquero infinitamente; ma molto più la presenza, il parlare e la maniera del Rosso, il quale era grande di persona, di pelo rosso, conforme al nome, ed in tutte le sue azioni grave, considerato e di molto giudizio.

Il re ben presto commissionò al Rosso il più importante lavoro della sua carriera, la decorazione della Grande Galerie di Fontainebleau. Fra le molte opere minori, egli «fece disegni per tutti i vasi d’una credenza del re… pepabigliamenti di cavalli, di mascherate, di trionfi».

Fu inoltre nominato «capo generale sopra tutte le fabriche, pitture, ed altri ornamenti» di Fontainebleau. La remunerazione fu generosa: benché egli vivesse per lo più a Fontainebleau, gli fu messa a disposizione una casa a Parigi, ebbe un assegno di quattrocento scudi e gli fu dato

un canonicato nella Santa Cappella della Madonna di Parigi [sotto la giurisdizione di Notre-Dame], ed altrettante entrate ed utili, che il Rosso con buon numero di servidori e di cavalli viveva da signore e facea banchetti e cortesie straordinarie a tutti i conoscenti e amici, e massimamente ai forestieri italiani che in quelle parti capitavano.

Ma questo celebre pittore e perfetto cortigiano non era sempre padrone dei propri scatti d’umore.

In un passo precedente della sua biografia il Vasari racconta distesamente come al tempo dei vagabondaggi in Italia il Rosso fosse venuto a vie di fatto con un prete che aveva biasimato il suo comportamento durante la messa, e come lo scandalo l’avesse costretto a fuggire nelle tenebre della notte.

Un’analoga mancanza d’autocontrollo fu probabilmente all’origine della sua rovina. Un pittore fiorentino, Francesco Pellegrini, suo collaboratore e intimo amico, era venuto a stare con lui. Un giorno il Rosso, scopertosi derubato di qualche centinaio di ducati, andò su tutte le furie:

non sospettando d’altri che di detto Francesco, lo fece pigliare dalla corte e con esamine rigorose tormentarlo molto. Ma colui che si trovava innocente, non confessando altro che il vero, finalmente relassato, fu sforzato, mòsso da giusto sdegno, a risentirsi contra il Rosso del vituperoso carico che da lui gli era stato falsamente apposto.

Il Pellegrini intentò causa per diffamazione, e il Rosso,

non se ne potendo aiutare né difendere, si vide a mal partito, parendogli non solo avere falsamente vituperato l’amico, ma ancora macchiato il proprio onore; ed il disdirsi o tenere altri vituperosi modi lo dichiarava similmente uomo disleale e cattivo: perché deliberato d’uccidersi da se stesso, piuttosto che esser castigato da altri, prese questo partito. Un giorno che il re si trovava a Fontanableo, mandò un contadino a Parigi per certo velenosissimo liquore, mostrando voler servirsene per far colori o vernici; con animo, come fece, d’avvelenarsi.

Il racconto del Vasari, al solito, non è stato accettato all’unanimità.

Uno studioso considera la sua Vita del Rosso bene informata e quasi priva d’errori; un altro è fortemente incline a rifiutare il suicidio come leggendario.

Questi ha trovato dei documenti dimostranti che il Rosso cessò di partecipare alle riunioni del Capitolo di Notre-Dame nell’aprile 1540, e mori il 20 novembre dello stesso anno: e non, come scrive il Vasari, nel 1541. Suppone quindi che il pittore cadesse malato nella primavera e morisse di morte naturale sette mesi dopo; e cita a conferma di quest’ipotesi il fatto che pochi giorni dopo la sua scomparsa fu celebrato «un obit triple» per l’anima del defunto22.

Maurice Roy, lo studioso in questione, formulava le sue conclusioni con una certa cautela; ma nonostante le sue riserve si considera ormai generalmente come scontato il fatto che il Vasari sbaglia, e che il Rosso non si suicidò.

Nessuno degli elementi addotti dal Roy contrasta tuttavia col racconto vasariano. Per quanto riguarda la data della morte, si sa che il Vasari, che non era uno storico moderno, non si è mai preoccupato troppo delle date: e in questo caso l’errore è tanto più comprensibile, in quanto egli potrebbe aver pensato all’inverno 1540–41, non essendo stato informato, o non ricordando al momento in cui scriveva la Vita, che il fatto era accaduto prima della fine dell’anno.

Inoltre né l’assenza del Rosso dalle riunioni del Capitolo, né la celebrazione d’una messa dopo la sua morte dimostrano l’assunto dell’autore. È impossibile appurare che cosa impedì al Rosso di adempiere ai suoi doveri di canonico: si potrebbe sostenere con pari legittimità che l’irritazione e le preoccupazioni per il processo di cui riferisce il Vasari lo assorbissero completamente.

I documenti rivelano altresì che all’epoca della morte il Rosso era fortemente indebitato, e doveva al Pellegrini una somma di denaro considerevole. Non può darsi che tutto questo influisse sulla condotta d’un uomo avvezzo a vivere come un gran signore?

La celebrazione della messa da requiem per l’anima del pittore sembra a prima vista un argomento valido contro il suo suicidio. Sappiamo che la Chiesa considerava il suicidio come un delitto.

Le deliberazioni del concilio di Praga del 563 erano ancora in vigore, e in base ad esse i suicidi non potevano «essere onorati d’alcun ricordo nel santo sacrificio della Messa…». D’altro canto la Chiesa non abbandonava mai un suicida se il peccatore faceva a tempo a confessarsi e a ricevere l’estrema unzione.

La nostra ipotesi è che gli effetti del veleno furono abbastanza lenti da permettere la somministrazione degli estremi sacramenti.

Abbiamo ragione di credere che questa interpretazione sia quella giusta. La prova più forte del Roy contro il suicidio — l’ordine dei canonici di celebrare una messa da requiem per l’anima del pittore — può significare invece che il modo in cui era morto il pittore aveva creato una situazione delicata.

Il documento dice che fino a quel tempo i canonici solevano celebrare messe per un membro defunto subito dopo la sua scomparsa, o appena possibile, in varie chiese cattedrali e collegiate. Da allora quest’uso sarebbe stato interrotto e sostituito da una messa funebre «sans autre solennité» nella sola Sainte-Chapelle.

Sembra che la nuova regola fosse istituita avendo presente il caso del Rosso: nessuna messa era stata celebrata per lui né la domenica della sua morte, presumibilmente avvenuta a Fontainebleau, né nei giorni successivi.

Inoltre, abbiamo notizia di una strana iscrizione progettata per l’epitaffio del Rosso a Firenze. Il Vasari la pubblicò nella sua prima edizione del 1550, ossia dieci anni dopo la morte dell’artista; e la omise dalla seconda edizione del 1568, verosimilmente perché l’iscrizione non era più stata usata.

Il testo, tradotto dal latino, è il seguente:

Al Rosso Pittore Fiorentino — Per l’invenzione e la composizione — Per la varia espressione dei caratteri — In tutta l’Italia e la Gallia celeberrimo — Che volendo sfuggire la pena del taglione — Preferendo al laccio il veleno — Con atto magnanimo quanto funesto — In Gallia peri miserrimamente — La virtu [sua] e la desolazione di Firenze — Questo monumento eressero.

Guglielmo della Valle, editore dell’edizione vasariana del 1791–94, giudica l’epitaffio «poco in vero religioso». Fare di questa pubblicità al suicidio in una chiesa sembra cosa piuttosto fuori dell’ordinario, e la franchezza del dettato ne rese probabilmente impossibile l’accettazione. D’altra parte esso prova che il suicidio del Rosso era di dominio pubblico a Firenze nel decennio dopo la sua morte.

Francesco Bassano

La morte di Francesco Bassano (1549–92) è registrata in questi termini nel registro parrocchiale di San Canziano: «1592, luglio 3 — Morto messer Francesco Bassan pittor d’anni 42 già etico da longo tempo, et ultimamente per essersi butato giù d’un balcon per fernesia già mesi 8», Questo gesto disperato non rimase un segreto neanche a Roma; il Baglione lo riferiva una cinquantina d’anni più tardi come una diceria. I biografi del Bassano ci informano sulle premesse della sua fine sventurata.

Allevato sotto la guida del padre Iacopo, Francesco si sposò a ventinove anni, e l’anno seguente lasciò per la prima volta il paese natale, Bassano, e la bottega paterna per stabilirsi a Venezia.

La fama del genitore e il suo proprio indiscutibile, se pur minore, talento gli procurarono molte commissioni e buoni guadagni; ma la presenza di maestri come il Tintoretto, il Veronese e Palma il Giovane, oltre alla sollecitudine del Bassano maggiore che spesso compariva a Venezia per tener d’occhio il lavoro del figlio a palazzo ducale, non giovarono certo ad accrescere in Francesco la fiducia in se stesso, che non era stata mai molto forte.

Un suo contemporaneo più giovane, lo scrittore Ridolfi, parla della sua «semplicità», e dice che egli aveva ereditato dalla madre «alcune leggerezze di mente, le quali col progresso del tempo si avanzarono in modo, che diede ne’ deliri»

Giovanni Battista Verci, l’altro biografo dell’artista, era anch’egli nativo di Bassano; e pur scrivendo circa un secolo dopo il Ridolfi — da cui anche attinge largamente — si rifarebbe a una genuina tradizione locale. Questi dice che Francesco

ebbe un’indole docilissima e quieta, che accompagnata dal suo naturale solitario, e timido diventò nimico di ogni conversazione ed allergia, e non curante d’altro, che della continua applicazione agli studi dell’arte. Fu una vita pura ed innocente, pietoso mai sempre, caritatevole e cortese verso gli amici, ma di mente cotanto semplice e credula, che qualunque racconto favoloso, che avesse ascoltato o letto, lo poneva in timore, e in agitazione, mentre impressionatosi vivamente nella fantasia la stravaganza di que’ fatti, compassionava con singhiozzi e pianti le disavventure di que’ finti personaggi. Perlocché tormentato l’individuo da questa debolezza, e altresì consumati gli spiriti dall’indefessa attenzione a dipingere, cadde in una fierissima ipocondria, che il faceva sovente uscir di sé. E ultimamente agitato da una furiosa fissazione si credeva di dover esser catturato dalla Corte; laonde senza posa fuggiva da una stanza in l’altra, nascondevasi agli amici, ed anche a’ domestici: e quasi più non fidavasi della moglie per sospetto che non lo consegnasse al bargello.
Essa però che molto lo amava, per riguardarlo, e nello stesso tempo per farlo curare da’ Medici, il facea continuamente custodire da varie persone. Ma fu vana ogni cura, perché un giorno, che per accidente trovavasi solo, sentendo picchiar con fracasso alla porta di sua casa, stimò che gli sgherri venissero per lui; onde ripieno di spavento si mise a fuggire, e salito sopra una finestra si gettò con precipizio a terra, e percotendo d’una tempia sopra un sasso restò mortalmente ferito.

Francesco Borromini

Del tentato suicidio del Bassano si poteva parlare liberamente, poiché egli visse abbastanza a lungo da redimere il proprio peccato. Per la stessa ragione l’atto del Borromini non fu mai tenuto segreto: e anzi il suo suicidio è probabilmente il solo, fra quelli degli artisti, che si presenta ancora oggi spontaneo alla mente, e forse non tanto perché la infermità e la sua morte sono particolarmente ben documentate, ma perché esse appaiono coerenti con la vita tragica e la strana architettura di questo personaggio quanto mai enigmatico fra i grandi maestri del barocco romano.

Nato in una cittadina sul lago di Como, Francesco Borromini (1599- 1667) andò a Roma nel 1620 circa. Per quasi un decennio lavorò come scalpellino e disegnatore d’architettura, acquistando una grande esperienza tecnica sotto la guida dell’anziano Carlo Maderno, che era suo parente.

Fu più questa capacità professionale che non il suo genio a indurre il Bernini ad impiegarlo in alcune delle sue imprese architettoniche. Solo all’età di trentacinque anni egli ottenne la prima commissione in proprio: la chiesetta di San Carlo alle Quattro Fontane, della quale il committente scrisse che era «opera cosi degna, cosi rara, a parer di tutti, che pare non si trova altra simile nello artificioso e capriccioso, raro et estraordinario in tutto il mondo».

Da allora in poi, lui vivente e in seguito, l’opera del Borromini suscitò contrastanti reazioni. C’era chi ammirava le sue nobili e immaginose creazioni, pur sentendo qualche imbarazzo di fronte ai suoi «vaghi, e bizzarri pensieri».

Altri, come il Bellori, che giudicava secondo il pregiudizio classico, espressero il loro disgusto chiamandolo «architetto gotico» — epiteto a quel tempo quanto mai ingiurioso — «ignorantissimo e corruttore dell’architettura, infamia del nostro secolo».

Il suo biografo Passeri avvertiva che «nel gusto dell’architettura, non si può negare, ch’ei non fusse strano, e da non essere imitato in tutte le cose»; e due anni prima della morte del Borromini, in una conversazione di salotto a Parigi, il Bernini ed altri convenivano sul carattere «chimerico» della sua architettura. Anche il suo stile di vita ne faceva una persona a parte:

si rese sempre una figura da essere particolarmente osservata, perché volle del continuo comparire nel medesimo portamento d’abito, senza voler seguire le usanze come si pratica giornalmente nel costume.
Nelle facultà il Boromino non fu molto copioso, perché non volle mai farsi tiranneggiare dall’interesse, e come quegli, che non haveva peso di famiglia, non essendosi mai voluto obligare al legame del matrimonio, non hebbe amore ad accumular denari per gli eredi.

Non era facile che un uomo simile vivesse in buona armonia con clienti e colleghi, e difatti egli venne a trovarsi in una quantità di situazioni difficili, specie negli ultimi anni.

Dopo la morte di Innocenzo X ebbe l’umiliazione d’essere congedato dal principe Camillo Pamphili come architetto della chiesa di Sant’Agnese a piazza Navona, e di vedersi sostituito da quello stesso Rainaldi che era stato estromesso da lui quattro anni prima.

Sembra che fosse irascibile, e spietato nella sua collera. Una volta, durante i lavori per San Giovanni in Laterano, un uomo fu sorpreso colà nell’atto di danneggiare certi blocchi di marmo. Borromini lo fece arrestare e battere cosi duramente che quello ne morì.

I contemporanei parlano della sua invidia. A dargli un senso di frustrazione era soprattutto il Bernini, che lo superava per successo e per fama, ma della cui inferiorità come architetto il Borromini era convinto.

Tanto se ne accorò, e se ne afflisse, che per divertire la fiera malinconia, che l’opprimeva, risolvè di fare un viaggio; e se ne andò in Lombardia. Tornato poi in Roma gli tornò anche la malinconia, per cui cagione stava le settimane intere serrato in casa senza mai uscire

Nel suo sessantottesimo anno il Borromini cadde gravemente malato, per una «febre, che diede segni di qualche violenza, e malignità», e

fu nuovamente assalito con maggior forza dall’ipocondria, che a tal lo ridusse in pochi giorni, che niuno lo riconosceva più pel Borromini, tanto era disfatto di corpo, e spaventoso di volto. Torceva in mille orride guise la bocca, stralunava di quando in quando spaventevolmente gli occhi, e tratto tratto qual indragato lione fremeva, e ruggiva. Chiamò il nipote [Bernardo] a consulta i medici, senti il parere degli amici, lo fece più volte visitare da’ religiosi; e tutti unitamente conchiusero, che non si lasciasse mai solo, che gli si togliesse ogni occasion d’applicare, e che in ogni modo si procurasse di farlo dormire, acciò rimettesse lo spirito in calma. Questo fu l’ordine preciso, che ebbero dal nipote i servidori, e questo essi eseguirono. Ma questo che sgravar gli dovea il male glielo accresceva; imperocché, vedendosi egli non ubbidito, perché tutto ciò che chiedeva gli si negava, e credendo che anzi che per suo bene fosse per istrapazzo, dava spesso spesso in ismanie maggiori, e l’ipocondria si cangiò in progresso di tempo in oppressione di petto, in effetti asmatici, ed in una specie interrotta di frenesia. Erasi finalmente gettato una sera nel cuore del soffione sul letto, e dormito non aveva ancor un’ora, che destatosi chiamò il servidore assistente, e gli chiese il lume, e da scrivere. Dicendogli il servidore, che ciò gli era stato proibito da’ medici, e dal nipote, si rimise a letto, e proccurò di ridormire; ma non potendo, cominciò a ravvolgersi in quell’ore calde, ed infocate colle solite smanie, finché fu sentito sciamare, e dire: «E quando mai finirete d’affliggermi o miei funesti pensieri? Quando l’animo mio cesserà d’agitarsi? Quando partiran da me tante pene?… che fo io più in questa cruda, ed esecrabil vita?» E furibondo alzatosi corse a prender una spada, che per sua sventura, con poca avvertenza di chi lo serviva, stava ivi sovra d’un desco, e rivolto al pavimento il pomo senz’altro dire, o riflettere, si lasciò barbaramente cader sopra la punta, e miseramente si trapassò da banda a banda affonsu verso la schiena. Corse il servente al rumore, e vedendo il crudo spettacolo, chiamò gli altri in aiuto, e cosi mezzo morto, e svenato tutto coperto di sangue lo rimisero a letto. Conoscendo egli allora d’esser veramente giunto al fine di sua vita… ordinò che gli si chiamasse il confessore, e quindi fece testamento.

Benché pubblicato soltanto nel 1730 questo racconto risponde inconfutabilmente a verità, e coincide in tutti i punti essenziali con le dichiarazioni dello stesso Borromini. Il fatto accadde il 2 agosto 1667, alla mattina presto. Il Borromini visse per tutta la giornata. Mortalmente ferito, era tuttavia perfettamente cosciente, e lucidissimo; fece un resoconto esatto degli avvenimenti, firmò il verbale di propria mano e ricevette l’estrema unzione. Secondo il suo desiderio, fu sepolto accanto al suo parente Carlo Maderno, suo amato maestro e massimo amico.

Pietro Testa

A sollevare l’animo dei biografi di Pietro Testa non vi furono circostanze attenuanti. Il pittore mori solo. Gli amici si sforzarono di spiegare la sua fine improvvisa con qualche sciagurato incidente, ma oggi si ritiene, e probabilmente a ragione, che egli se la inflisse di propria volontà.

Il Testa (1607[11?]-1650) era nato a Lucca. Venne a Roma prima del 1630 e fu allievo prima del Domenichino e più tardi di Pietro da Cortona. Lavoratore prolifico, specie come incisore, s’interessò anche con passione di studi storici e teorici, ma ebbe poco successo. Il Passeri deplorava che egli non «seppe mai acquistarsi un’appoggio, dal quale potessi essere sollevato».

Si è avanzata di recente l’ipotesi che il fallimento del Testa fosse dovuto agli strani soggetti da lui preferiti, e al fatto che trascurasse la pittura a vantaggio d’un’arte minore come l’acquafòrte; e che il mancato favore del pubblico aggravasse la scissione profonda del suo spirito, lacerato fra le innate disposizioni romantiche e le teorie classiche ch’egli professava.

I biografi sono concordi nel descrivere le difficoltà che lo travagliavano. Il Passeri dice che

egli non seppe essere di quegli aveduti, che sanno portare nelle labbia il riso, tenendo sotto il mantello il rasoio… Fu di nobile, et elevatissimo ingegno, et inclinato grandemente alla Filosofia, il qual genio gli faceva amare la ritiratezza, e la solitudine, e questo fu il suo maggior male, perché non mai volle accomodarsi al corteggio delle Anticamere.

Lo scrittore prosegue raccontando che il Testa «dato in una estrema malinconia», «se ne andava solitario in luoghi li più ritirati», e crede, o finge di credere, che il pittore s’annegasse accidentalmente durante uno dei suoi solitari vagabondaggi.

Subito circolarono voci di suicidio. Il Passeri le chiama «tutte calunnie, et invenzioni de’ maligni»; il Bal- dinucci cercò di soffocarle spiegando che per il «mollore e lubricità del terreno, o per altra qual si fosse cagione, egli cadde nel fiume» mentre osservava i riflessi dell’arcobaleno nelle acque del Tevere.

Il Sandrart, per cui Testa aveva lavorato a Roma negli anni ’30, dà un’altra spiegazione ancora: «Un giorno, sulle sponde del Tevere, un improvviso colpo di vento gli fece volare il cappello nel fiume, e quando egli cercò di recuperarlo la malasorte volle che cadesse in acqua, e non essendo prossimo alcun soccorso, miseramente annegò».

Sandrart conosceva bene Testa, e gli voleva bene; ci ha lasciato un bel ritratto del «timido stoico» che egli trovò in condizioni di estrema povertà, provvedendolo spesso di «cibo, vesti e denaro». Ammettere il gesto colpevole dell’amico avrebbe offeso il suo senso della decenza e del decoro.

Marco Ricci

Mentre i biografi del Testa si diedero molta pena per spiegare, in modo alquanto inconsistente, la sua morte probabilmente volontaria, un contemporaneo di Marco Ricci (1676–1730) mutò la scomparsa del pittore, che è possibilissimo fosse del tutto naturale, in un suicidio molto discutibile.

Uno zibaldone del 1738 reca le note seguenti sul famoso paesaggista veneto:

Morì in casa di suo zio Sebastiano di febbre e catarro ed abitò con esso suo zio anni 13.

Marco in sul bollor dei suoi anni era un uomo vizioso e dato alla cattiva vita né si vergognava di frammischiarsi nella taverna con la vile plebaglia. Si chiamò offeso una notte stando nella taverna di certe parole dettele da un gondoliere onde preso un boccale lo spezzò sul capo a quell’infelice e lo uccise. Perloché suo zio lo mandò a Spalato in Dalmazia e lo raccomandò a un valente pittore paesista sotto il quale apprese molto. Stette colà circa quattro anni e poi ritornò in Venezia avendo già suo zio acquetata la giustizia. Si racconta di Marco Ricci che fosse molto fantastico. Dopo il ritorno d’Inghilterra mentre abitava in Venezia nella casa di suo zio Sebastiano gli saltò nel capo di volere morire, ma volea morire da cavaliere. Pertanto una mattina si vesti bizzarramente e si mise la spada al fianco e si coricò nel letto.

Si chiuse a chiave in camera e benché fosse molto travagliato dalla fame rimase a letto per due giorni e due notti. I familiari si allarmarono; non sapendo se egli era uscito o si trovava ancora nella stanza, sfondarono finalmente la porta e trovarono Marco «quasi morto d’inedia», che aspettava la morte nel suo curioso abbigliamento.

Fu subito rifocillato, e non ripete più l’esperimento in questa forma; ma sarebbe ricorso all’espediente non meno singolare di mutare la ricetta d’un medico da innocuo rimedio in medicina fatale.

Se tutta la storia sia un’invenzione, se il medico stesso la mettesse in giro per coprire un suo sproposito, o se Marco, privato del privilegio di una morte da cavaliere, effettivamente si avvelenasse, non si saprà probabilmente mai con certezza. Solo una cosa si può dire in vista di ciò che esporremo in altri capitoli: né la sua vita dissipata né la sua mancanza d’autocontrollo sono necessariamente indizi di squilibrio mentale.

Cinque suicidi, di cui due soltanto sicuri, sembrano straordinariamente pochi per le molte migliaia di artisti italiani morti fra il 1450 e il 1800. Che questa cifra possa essere non troppo lontana dal vero è forse confermato indirettamente dal diario fiorentino cominciato nel 1450 da Luca Landucci e proseguito da un anonimo fino al 1542: in quei novantadue anni troviamo menzionati in tutto otto suicidi, di cui nessuno compiuto da un artista.

Suicidi di artisti dell’Europa Settentrionale

Olanda e Inghilterra

Nei paesi settentrionali la situazione non è molto diversa. Houbraken sembra avesse notizia di tre soli suicidi, quello del poco noto Jacob de Wolf (morto nel 1685), che «fissò il pugnale in un angolo della stanza lasciandovisi cadere sopra, e terminando così la sua vita»; quello di Pieter van Laer, che è un caso dubbio; e quello di Emanuel de Witte, di cui si sospettò che si fosse annegato.

La vita del de Witte (1617–92) è ben documentata. Le sue opere migliori, specie le nitide composizioni degli interni di chiese, hanno un posto di primo piano nell’arte del Seicento. Ma nonostante le molte commissioni il pittore fu costantemente assillato da difficoltà finanziarie.

Beveva molto, ed era dedito al gioco: dovette impegnare le masserizie, i mobili, i suoi quadri; era debitore di anni d’arretrati al padrone di casa, e si faceva pagare gli anticipi di quadri che consegnava soltanto quando i clienti esasperati si erano rivolti al tribunale. All’età di settant’anni il de Witte, insieme ad altre tre persone, fu accusato di condotta sconveniente e multato per «grave insolenza» e «rumori molesti». Allora,

vedendosi abbandonato dalla Fortuna, e che tutti lo sfuggivano e lo consideravano straniero nella sua patria, egli cadde in miseria e gli venne mancando la fiducia in sé stesso.
Come s’era distinto dagli altri per il modo di vivere, cosi fu diversa la sua morte, poiché sembra ch’egli si togliesse la vita di sua propria mano.

In Inghilterra nessuno degli artisti più noti si tolse la vita. Abbiamo notizia di Henry Tilson (1659–95), uno dei tanti ritrattisti minori che sfornavano con più o meno successo le immagini dell’aristocrazia e della piccola nobiltà inglese.

George Vertue, ancora sotto l’influsso delle idee del Burton sul genio melanconico che mena vita «esente da ogni esercizio corporale», dice che egli era assai più gradito ai curiosi dell’arte che non a un’Amante da lui per lungo tempo corteggiata, finché da ultimo, per un Vizio Melanconico contratto a causa della crudeltà di costei e della sua vita sedentaria, si sparò con una pistola un colpo nel Cuore.

La morte di Edward Dayes (1763–1804), che s’era acquistato una certa fama come autore di ritratti a miniatura, di mezzetinte e d’acquarelli, non fece a quanto sembra molto scalpore:

Aveva un carattere poco accostante e non lieto: e fu probabilmente a causa di ciò che affrettò il suo trapasso di propria mano. Questo evento melanconico cadde nell’ultima settimana di maggio del 1804, nella casa di Francis Street, presso Bedford Square, dove egli risiedeva da parecchi anni.

Francia

Le tensioni e gli acri rancori che agitavano gli artisti dell’Accademia Reale francese appaiono in forte rilievo nella vita e nella morte di Francois Le Moyne (1688–1737).

Nato a Parigi, questi entrò all’Accademia a tredici anni. Dopo cinque anni di studio ottenne il primo premio, la medaglia accademica di terza classe; l’anno seguente riuscì ad avere la medaglia di prima classe e nel 1711 vinse il «Prix de Rome», ma le guerre gl’impedirono di recarsi in Italia prima del 1724, e ancora il suo soggiorno quivi si ridusse a sette mesi.

Così il Le Moyne passò tutta la vita nell’atmosfera di acerbe gelosie, di continui intrighi e di mortali inimicizie che avvelenavano il mondo artistico ufficiale parigino del tempo. Roso dall’ambizione, si lamentava con un amico, lo scrittore Dezallier d’Argenville, che ai suoi quadri fossero assegnati «dei vicini terribili al Salon».

Temendo che altri lo eclissasse lavorava senza posa e molto al di là delle sue forze; era noto per la sua

irritabilità causata dalla smania di riconoscimento e di onori, di cui egli era senza dubbio degnissimo, ma che a suo vedere non erano quasi mai pari al suo merito.
Non trovando alcuno che non gli fosse a suo giudizio inferiore, tutto ciò che riceveva gli sembrava insufficiente, e per la stessa ragione stimava qualsiasi cosa gli venisse promessa come molto al disotto di ciò che gli spettava.

Né il suo fisico né il suo spirito poterono reggere a questa tensione, e la sua salute subì un tracollo:

Le Moyne soffriva di gravi emicranie che a volte gli impedivano di lavorare. La morte della moglie lo colse mentre era immerso nei preparativi per il Salon, e questa perdita lo afflisse talmente che per qualche tempo lasciò lo studio.
Negli ultimi sei mesi della sua vita fu assalito da una febbre acuta che quasi non gli dava tregua. Sospettava di tutti, e si credeva continuamente seguito da qualche sbirro. Gli amici cercavano di distrarlo; gli leggevano la storia romana, e quando s’imbattevano in qualche romano che nobilmente s’era tolta la vita, egli si faceva rileggere il passo, esclamando: Ecco una bella morte.

È questa la sola volta che abbiamo trovato un’allusione allo stoico diritto d’autodistruzione; ma la morte del Le Moyne non ebbe traccia di grandezza classica. Gli amici s’erano resi conto che occorrevano rimedi drastici per salvare l’artista, la cui ragione appariva sempre più conti promessa; cosi

la mattina del 4 giugno 1737, dieci mesi dopo che Le Moyne era stato nominato premier peintre, monsieur Berger, l’amico con cui egli aveva fatto il viaggio in Italia venne da lui come aveva disposto la sera prima. Col pretesto di portarlo a riposare qualche giorno in campagna, egli intendeva in realtà farlo rinchiudere, per tentare i rimedi che s’usano in simili casi. Ma sia che Le Moyne sospettasse qualcosa, o immaginasse d’essere portato in prigione — idea che lo ossessionava da lungo tempo –, egli si rinserrò in camera appena udì l’amico avvicinarsi, e silenziosamente si trafìsse nove volte con la spada. Ignaro della tragedia l’amico lo pregava con insistenza perché aprisse, minacciando infine di sfondare la porta. Allora Le Moyne radunò forze sufficienti per obbedire, e comparve in quello stato a cui la sua frenesia l’aveva ridotto; ma nel medesimo istante cadde morto.

La breve esistenza di un giovane e oscuro pittore francese ci porta in un mondo diverso. Per quanto le notizie rimaste siano aridamente informative, esse evocano l’atmosfera degli esordi dell’età romantica, l’ambiente della Bohème.

Jean-Louis Sauce, figlio d’un calzolaio, nacque a Parigi nel 1760 e ivi mori nel 1788. A ventitré anni sostenne gli esami d’ammissione all’Accademia, e fu accettato come studente. Già l’anno seguente ottenne l’ardentemente contesa «prima medaglia»; e in quello stesso anno s’innamorò, vivendo successivamente

per tre anni con una piccola merlettaia chiamata Geneviève-Rosalie Poirier, che egli! promise di sposare. Essendosi incontrato con lei alla vigilia delle nozze, la condusse nella propria stanza al quinto piano d’una casa di rue de Vaugirard. Dopo una cena sontuosa, cui prese parte lo scultore Spercius di rue du Pot-de-fer, Sauce, eccitato I senza dubbio dall’alcol, si gettò sulla sventurata ragazza, sparandole due colpi di pistola e trafiggendola con la spada nonostante le grida e le suppliche di lei. Quindi si lanciò dalla finestra, sfracellandosi il capo sul marciapiede. Il dottore contò non meno di sei ferite sul corpo della vittima; ma non sono molto profonde, e si spera di poterle salvare la vita.
Il padrone di casa rifiuta di occuparsi del corpo del suicida.

Dell’opera del Sauce non si sa nulla, tranne che cinque suoi disegni a penna e bistro furono venduti a un’asta del 1814 per otto franchi; almeno due di essi si conservano ancora.

Danimarca

Termineremo questo capitolo ricordando il suicidio di due artisti danesi, il pittore Eric Pauelson o Poulsen (1749–90) e lo scultore Johannes Wiedewelt (1731–1802). Il modesto talento del Pauelson e la sua vita apparentemente priva di avvenimenti non hanno indotto i suoi biografi a illustrare i motivi del suo gesto.

Sappiamo che quando era oltre la trentina viaggiò per tre anni in Germania, in Francia, in Svizzera e in Italia; che la sua domanda d’ammissione all’Accademia di San Luca fu respinta, ma che egli divenne membro delle Accademie di Dusseldorf, Bologna e Firenze dopo il suo ritorno in patria nel 1784.

Quattro anni più tardi fu inviato in Norvegia dal principe ereditario di Danimarca, e gli acquarelli dei paesaggi norvegesi da lui riportati gli procurarono non pochi elogi. Non abbiamo potuto scoprire come e perché egli mise fine ai suoi giorni, all’età di quarantun anni.

Il Wiedewelt invece suscitò maggiore attenzione. «Orgoglio un tempo dei suoi compatrioti», egli è ricordato oggi più per la sua amicizia col Winckelmann che per le sue qualità artistiche. Giovane promettente, andò diciannovenne a Parigi, e dopo aver studiato tre anni col Costou, proseguì per Roma, dove incontrò il Winckelmann.

Fra i due si stabilirono stretti rapporti, e sotto l’influenza del più anziano studioso il giovane scultore divenne uno dei primi e più fervidi fautori delle dottrine neoclassiche.

Quando tornò a Copenaghen dopo un’assenza di sette anni, il Wiedewelt destò l’ammirazione dei connazionali tanto per la sua cultura e conoscenza delle lingue antiche e moderne quanto per la sua arte. La modernità dello stile faceva velo alla debolezza del talento. Il successo fu immediato, rapida la sua ascesa nelle cariche e negli onori.

Un anno dopo il suo ritorno fu nominato scultore di corte e membro dell’Accademia. All’età di trent’anni divenne professore di scultura, e a quarantuno direttore dell’Accademia, ufficio che egli tenne per quasi un ventennio.

Ma con l’avanzare dell’età il Wiedewelt non poté mantenere la sua supremazia di fronte all’incalzare della nuova generazione, e specialmente di fronte alla fama crescente del suo scolaro Thorvaldsen.

Nel 1788 la sua domanda per la carica di scultore di corte presso il re di Prussia fu respinta a favore del giovane Schadow (1764–1850), minore di lui d’oltre trent’anni. Finalmente, gravato dal peso di due sorelle anziane e di un amico invalido, oppresso dall’aggravarsi del disagio economico e dalla salute malferma, egli mise fine alle sue miserie annegandosi.

Conclusione

Ai cinque suicidi italiani, abbiamo potuto aggiungerne nove dell’Europa settentrionale. Questi quattordici casi (quattro dei quali incerti) si verificarono nel corso di circa quattro secoli e mezzo, ossia, grosso modo fra il 1350 e il 1800, il solo periodo per cui le notizie a nostra disposizione siano passabilmente attendibili.

Analizzando questa cifra si ottiene il risultato seguente: nessun suicidio prima del 1300, due nel XVI secolo, sei nel XVII, e sei nei centoquattro anni successivi. Sembra significativo che quattro dei quattordici (o dieci) suicidi avessero luogo nel breve spazio di sedici anni, tra lo scorcio del Settecento e l’inizio dell’Ottocento — in un’epoca in cui il suicidio aveva perduto alquanto della sua infamia, e dopo che esso era divenuto, in parte per influsso del Werther, goethiano, molto più frequente di prima fra i professionisti e gli intellettuali.

Pure ammettendo che le nostre statistiche sono tutt’altro che sicure, pensiamo che esse riflettano fedelmente l’andamento generale, e che dimostrino, se di dimostrazione c’è bisogno, che gli artisti si comportano più normalmente della gente «normale» per quel che riguarda il suicidio.

Dove le fonti sono abbastanza circostanziate, esse forniscono spiegazioni ragionevoli di queste morti volontarie.

Cosi si suppone che il Rosso agisse per un sentimento di onore offeso, e il concetto rinascimentale dell’onore rendeva plausibile questa interpretazione. Francesco Bassano e Le Moyne caddero palesemente in preda alla pazzia; entrambi soffrivano di mania di persecuzione.

Tre artisti — Borromini, Testa e Tilson — vennero definiti col termine ormai familiare di melanconici; Ricci e de Witte rispondevano all’immagine dell’artista eccentrico e dissoluto; Wiedewelt fu spinto dalla disperazione. Quanto al Sauce, leggiamo che probabilmente era ubriaco.

Tutte queste notizie sono né più né meno dello stesso genere di quelle che troviamo oggi nei giornali.

Nessuno dei biografi del tempo cercò di vedere riflessi delle tendenze suicide d’un artista nei caratteri specifici della sua opera. Non che si pretenda, naturalmente, di trovare disamine psicopatologiche prima degli inizi dell’Ottocento; ma non ci sono tracce neppure della teoria neoplatonica, secondo la quale l’animo si rifletterebbe nell’opera come un’immagine nello specchio.

È quasi inutile rilevare che questa teoria aveva scarsa capacità d’applicazione pratica; buona per fare sfoggio di cultura, non serviva a nulla nell’umile pratica quotidiana dello scriver biografie. Ma neanche le moderne ricerche storico-artistiche hanno approfondito questo problema: nessuno storico (con una sola eccezione notevole) s’è servito dei nuovi metodi scientifici.

L’eccezione degna di nota è l’opera sul Borromini di Hans Sedl- mayr, che servendosi della terminologia psicofisica del Kretschmer ha cercato di individuare nell’architettura borrominiana elementi corrispondenti allo squilibrio mentale dell’autore.

Egli sostiene che il Borroinini era uno «schizotimico», ossia un tipo la cui condizione schizoide non esorbita dai confini della normalità. Ma secondo il Sedlmayr il suicidio del Borromini rientra nel quadro della schizofrenia progressiva, e di conseguenza lo studioso trova nell’opera tarda dell’architetto i segni tipici di questo processo patologico.

Lo stesso Sedlmayr non ignorava le insidie di questa tesi. A filo di logica, i molti artisti costituzionalmente affini al Borromini dovrebbero manifestare nella loro arte caratteristiche analoghe: il che è impossibile dimostrare.

Per cui anche in questo caso classico l’enigma del rapporto fra l’opera e la personalità del suicida rimane insoluto.

Fonte: Rudolf e Margot Wittkover, Nati sotto Saturno. La figura dell’artista dall’antichità alla Rivoluzione francese, Einaudi, 1963, pp. 148–165

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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