Steve Wozniak: come ho costruito l’Apple I e II e perché non ero interessato a dirigere la Apple

Mario Mancini
62 min readJan 1, 2020

Intervista dell’altro Steve a Jessica Livingston per il libro “Founders at Work”

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Steve Wozniak ritratto negli uffici della nuova società, Cloud 9, che fondò nel 1985 dopo la sua uscita da Apple. In questa nuova società, rimasta attiva fino al 1989, Woz e il suo team costruirono il CL 9 Core, il primo telecomando universale programmabile.

L’altro Steve

Se si deve cercare una persona che abbia acceso la miccia della rivoluzione del personal computer, questa persona non può essere altri che Steve Wozniak. Wozniak ha progettato un computer, l’Apple II, che ha definito i parametri di quello che sarebbe divenuto il personal computer. Una delle più grandi innovazioni nella storia della tecnologia. Il suo sodalizio con Steve Jobs ha reso questa rivoluzione possibile e ha mostrato come l’innovazione più radicale possa verificarsi non solo fuori dai circuiti tradizionali del business, ma anche fuori dai laboratori delle grandi imprese e dai centri di ricerca sia in ambito privato che pubblico.

I due Steve hanno fondato la Apple Computer nel 1976. Con la perizia tecnica di Wozniak e l’energia ipnotizzante di Jobs, la Apple fu subito una squadra poderosa. Woz mostrò per la prima volta il suo computer, l’Apple I, all’Homebrew Computer Club della Silicon Valley, nel 1976. Fu molto apprezzato, ma ne venne fuori poco. A quel punto fu Jobs a spingere avanti l’impresa. Woz progettò tutto quello che serviva senza risparmiarsi in alcun modo e con risorse quasi nulle. L’unica risorsa era il suo tempo libero e la sua passione per l’elettronica e il software.

Dopo che Woz ebbe costruito l’Apple I, nel suo tempo libero (cioè la notte), Jobs ottenne un contratto con il Byte Shop, un negozio di computer di Mountain View, per fornire 100 schede pre-assemblate dell’Apple I. Per costruirle i due amici fecero dei sacrifici personali. Woz vendette la sua amata calcolatrice HP e Jobs il furgoncino Volkswagen. Fecero qualche centinaio di dollari. Da quel momento, Apple iniziò la sua epica ascesa.

Woz progettò tutto da solo, sia l’hardware che il software. Un’impresa straordinaria anche per l’epoca. E per di più, lo fece mentre lavorava di giorno alla Hewlett-Packard, un posto che adorava e che lasciò con immenso rimpianto.

Dopo l’Apple I, venne l’Apple II. Il nuovo computer, già rivoluzionario nella concezione, fu presentato al pubblico nel 1977, alla West Coast Computer Fair. Stavolta non dovettero vendere niente di personale e Woz si prese i suoi meritati riconoscimenti dai colleghi sviluppatori e ingegneri. Era tutto quello che voleva. Ma Jobs voleva l’impresa e con la Apple fare i soldi e cambiare il mondo. E così fu.

L’Apple Computer andò in borsa nel 1980. Fu la più grande offerta pubblica di azioni dagli anni Cinquanta, creando all’istante più milionari di ogni altra azienda nella storia. L’Apple II fu la macchina che portò il computer nelle case della gente comune. La ragione di questo immenso successo era la superba progettazione da parte di Woz. Poi Markula e Jobs seppero vendere il sogno e l’Apple II divenne il personal computer più venduto nel mondo. Woz sei stato e sei super!

I due Steve, lo yin a lo yan

Il resto della storia è stata scritta e riscritta. L’uscita di scena di Woz, che non ne voleva sapere di dirigere un’azienda come Apple ma voleva continuare a occuparsi di tecnologia come se fosse il suo primo giorno di lavoro, ha messo un po’ in ombra questa personalità rispetto a quella oceanica di Steve Jobs. Ma anche Woz era un oceano. Se uno, era lo yng, l’altro era lo yang. Così totalmente diversi tra loro e così totalmente complementari. La personalità di Woz non era certo da meno di quella Jobs e lo si capisce quando lo si sente parlare di persona.

Si percepisce subito l’altro aspetto della personalità di questo eccezionale tecnologo. Quello profondamente umano che neppure un successo senza pari riuscì a scalfire nella sua essenza. La sua è una personalità tanto straordinaria da apparire unica, al limite dell’eccentricità, certamente “insane”. In effetti l’aspetto che più colpisce del carattere di Woz è il candore, la semplicità e una visione della vita virginale.

Colpisce anche la sua sincerità, l’onestà intellettuale e la sua enorme generosità nutrita da un altruismo difficile da riscontrare in un mondo dominato dal business come l’information technology.

Il suo interesse quasi esclusivo per la tecnologia, la sua caparbietà nello sperimentare oltre il limite delle possibilità e della paranoia (vedi l’episodio del driver per il floppy disk dell’Apple II), il suo disinteresse per il potere e il denaro, lo rendono una figura difficilmente replicabile nel panorama dell’industria del computer, che di tipi fuori dall’ordinario ne annovera parecchi.

Jessica Livingston, co-fondatrice di Y Combinator uno dei più famosi e riusciti acceleratori d’impresa del mondo, lo ha intervistato per il suo libro Founders at Work: Stories of Startups’ Early Days, Apress, 2007. Più che un’intervista è un lungo monologo di Wozniak che racconta con un linguaggio diretto, informale e fresco il suo tragitto umano e di tecnologo co-fondatore dell’impresa oggi più capitalizzata del mondo. La Apple.

Buon viaggio!

Woz in una delle sue attività preferite: saldare cavi sui circuiti.

Electronic kid

Jessica Livingston: Dimmi qualcosa di te prima di Apple.
Wozniak:
Già al liceo volevo progettare computer con la metà dei componenti dei computer del tempo. E in effetti lo feci, tutto da solo, però mi costrinse a mettere in atto ogni sorta di strattagemma. Ero bravo a fare le cose con pochissimi pezzi usando un sacco di accorgimenti. Mi piacevano i prodotti che erano fatti con pochissime parti.
Lo realizzai in due modi. Quando sei una startup o, peggio, un individuo singolo e non ci sono molti soldi a disposizione, meno componenti si devono comprare, meglio è. Inoltre nei progetti con pochissime parti, tutto deve essere pulito e ordinato e questo fa sì che ci siano pochi grilli per la testa. Si deve mettere a punto ogni piccolo dettaglio del prodotto.
Negli anni prima di Apple, lavoravo alla Hewlett-Packard nel comparto che progettava calcolatrici scientifiche. Era il posto giusto per lavorare alla costruzione di un prodotto elettronico. Quando tornavo a casa dal lavoro, continuavo ad aggeggiare con l’elettronica. Non facevo le stesse cose del lavoro, ma armeggiavo con i flipper, i videoregistratori… I primi videoregistratori per il pubblico sono stati realizzati da un’azienda americana — non la Betamax, era prima di Betamax e si chiamava Cartravision. Mi sentii subito attratto da questo mondo. Quando poi vidi i giochi arcade — il primo gioco Arcade, Pong, era davvero una grande cosa — decisi di progettarne uno per conto mio. Poi Atari voleva prendere il mio progetto e farne il primo gioco Pong per il mercato domestico. Mi chiesero amche di progettare un chip apposito. L’idea era di Steve Mayer. Mi trovavo bene con Atari e loro riconobbero il mio talento di progettista tanto da volermi portare dentro.

Come ti hanno conosciuto?
Steve Jobs ci lavorava part-time. Rifiniva i giochi progettati nella Grass Valley. Mi portò in Atari e mi fece fare un giro finché Nolan Bushnell mi offrì subito un lavoro. Risposi: “No, non lascerò mai la Hewlett-Packard. È il lavoro della mia vita. È la migliore azienda del mondo per quelli come me”. La HP si considerava una comunità o una famiglia, e tutti tenevano a tutti gli altri. Gli ingegneri, di fatto, potevano proporre le loro idee, sicuri che sarebbero stati presi in seria considerazione per farne prodotti dell’azienda. Tutto era aperto al pensiero, alla discussione e all’innovazione. Così non avrei mai lasciato la Hewlett-Packard. Sarei stato lì per tutta la vita lì.
Poi progettai un gioco per Atari, chiamato Breakout, che era un prodotto davvero incredibile. Era bello, avere il mio nome associato a un videogioco. Si era all’inizio di un intero nuovo settore e io non ne facevo ancora parte. Mi piaceva diventare un progettista e entrare in questo mondo. Nel realizzare questi progetti, mi trovai coinvolto in un altro. L’ARPANET aveva una dozzina di computer collegati in rete. Si poteva collegarsi a un computer come ospite; oppure, se si disponeva di password, si poteva usarlo più a fondo. Fu allora che vidi qualcuno che scriveva come su una telescrivente. Proponeva di giocare a scacchi a un collega che stava su un computer a Boston, dall’altra parte del paese. Allora pensai: “Devo farlo anch’io. Devo avere questa roba per me “. Molti imprenditori, quando vedono qualcosa che li attrae, pensano: “Devo averlo per me”, e questo li spinger all’azione.
Però, non potevo permettermi di comprare i pezzi di cui avevo bisogno. Non potevo comprare una telescrivente, così decisi di progettare un terminale. L’unica cosa di cui disponevo (senza sborsare dei soldi) era la TV di casa. Ho quindi comprato una tastiera per 60 dollari. È stata spesa maggiore per costruire il mio terminale. Quindi mi misi a progettare la logica per visualizzare dei punti sullo schermo del televisore così da formare le lettere dell’alfabeto da trasmette al computer remoto.
Per ricevere i dati da un computer remoto sul mio terminale, costruii un modem. Così avevo un terminale sulla TV. Accadeva mentre lavoravo alla Hewlett-Packard. Facevo queste cose di straforo, per divertimento, nel mio appartamento a Cupertino.
Al college, avevo progettato un accrocco chiamato blue box, per fare le interurbane gratuite. Steve Jobs lo vide e disse: “Vendiamolo”. Avevo pure il mio terminale video, e lui propose: “C’è un negozio di computer che compra questi terminali. Perché non glielo vendiamo?”. Così vendemmo alcuni dei terminali che avevo costruito. Poi questa roba diventò parte dell’Apple I. Avevo desiderato un computer per tutta la mia vita. Al liceo avevo detto a mio padre: “Un giorno avrò un computer”. Lui rispose che sarebbe costato quanto una casa. “Beh, no avrò una casa — risposi–, ma un giorno avrò il mio computer”. Quindi mi misi al lavoro con grande dedizione. Quando si pensa a una professione, si inizia con un sacco di motivazioni e di valori. E io iniziai molto presto, già alle scuole elementari. In quinta elementare decisi di fare l’insegnante. Alcune cose che vuoi veramente nella vita prima o poi si realizzano.
Allora ero ancora nella mentalità hobbistica. Poi scoprii i microprocessori. Avevo un po’ abbandonato il mondo dell’elettronica, il mondo dei computer, per via del lavoro sulle calcolatrici alla Hewlett-Packard. All’improvviso mi accorsi di questi microprocessori. “Che diavolo sono?”, pensai. Lì per lì non mi raccapezzavo, così mi portai a casa una scheda tecnica per leggerla. C’era anche una sorta di club che stava aprendo. Era un club di gente giovane. Il tipo di persone a cui piaceva assemblare i gadget a casa, farli funzionare e poi condividerli con gli amici. Poi venne fuori che non molti di loro erano dei veri e propri ingegneri. Forse lavoravano come tecnici. Cablavano, analizzavano i circuiti per individuare gli input con la tensione sbagliata. C’erano tanti periti elettronici, ma pochi progettisti.

L’invito spedito a Steve Dompier da Fred Moore il 17 febbraio 1975. Steve viene invitato a partecipare al primo incontro dell‘Homebrew Computer Club tenutosi il 5 marzo 1975 nella abitazione di Gordon French. Dompier scrisse su Altair uno dei primi videogiochi della storia del computer: Target.

L’Homebrew Computer Club e l’arrivo dell’Altair

Erano quelli della Homebrew, vero?
Sì, era l’Homebrew Computer Club. C’era anche un sacco di persone che non aveva alcun background nell’hardware e bisognava conoscere l’hardware per costruire queste prime macchine. Ero un poco in difficoltà perché il mondo era andato più veloce di me: erano usciti questi piccoli microcomputer economici e io non ne avevo sentito parlare e non avevo fatto parte di questa avventura. Mi sentivo molto a disagio — perché era in quella direzione che volevo orientare la mia vita. Beh, non mi persi d’animo. In una notte analizzai un microprocessore e scoprii che era proprio come i minicomputer che progettavo al liceo e che erano molto ben fatti.
Poi mi concentrai sul computer Altair che aveva dato il via a tutto quell’ambaradan. Era il primo microcomputer, ma non era proprio un computer. Per me, mancava una cosa importante. Al liceo, avevo detto a mio padre che avrei avuto un Data General Nova 4K. Perché il 4K? 4K byte era la memoria minima per eseguire un linguaggio di programmazione. Ci voleva il Fortran o il Basic, o qualche altro linguaggio, per realizzare un programma. L’Altair che veniva venduto a un prezzo ridicolmente basso e glorificato da Intel, era solo un microprocessore con alcuni chip per proteggerlo dagli sbalzi di tensione. Tutto quello che fecero fu di dire: “ Dai, ora puoi collegare tutte le cose per le quali un microprocessore è stato progettato “. Si poteva aggiungere RAM, si potevano aggiungere schede per parlare con le telescriventi, si poteva aggiungere un grosso cavo a un telescrivente, … si poteva comprare un telescrivente per migliaia di dollari. Nel momento in cui si doveva aggiungere abbastanza RAM e tutto il resto, per gestire un linguaggio di programmazione, ecco che si tornava a parlare di parecchie migliaia di dollari. A quel punto era fuori dalla fascia di prezzo di chiunque. Si stava parlando di 5.000 dollari, e, mi spiace, ma eravamo tutte persone con poche risorse anche se con un interesse comune per i computer.
Cinque anni prima, nel 1970, avevo costruito un computer progettato da me che era esattamente come un Altair con la differenza che non aveva un microprocessore; l’avevo costruito a forza di chip. In questo modo misi su questo piccolo processore. Era montato su una piccola scheda, 3 per 5, molto piccola. Aveva gli interruttori, aveva le luci, sembrava la cabina di pilotaggio di un aereo, proprio come era l’Altair. Aveva tanta memoria quanta ne aveva l’Altair (256 byte era la quantità di memoria iniziale). Si potevano attivare gli interruttori, premere alcuni pulsanti, inserire uno e zero nella memoria ed eseguire un programma. Potevo caricarlo e farlo funzionare. Così feci questo computer, 5 anni prima dell’Altair. Adesso che avevo visto l’Altair, sapevo che non bastava più roba simile. C’era bisogno di qualcosa in grado di far funzionare un intero linguaggio di programmazione. Ma eravamo vicini.
Così mi guardai in giro. Il mio pensiero è sempre stato quello, nel rendere possibile nel, di farla ad un costo ragionevole. Avevo però bisogno di 4K byte di RAM come minimo. Le prime RAM dinamiche a 4k furono introdotte quell’anno, nel 1975. Fu la prima volta in assoluto che le RAM avevano un prezzo più basso rispetto alle memorie a nucleo magnetico, utilizzate fino a quel giorno da ogni computer. Così il mondo era sul punto si passare alle RAM. Il silicio sarebbe stato solo un ricordo.
Qualsiasi computer nel mondo — Altari, Sphere, Polimorphic, Insight computers, furono progettati da ingegneri fondamentalmente mediocri, non da buoni ingegneri. Furono progettati da tecnici che sapevano come leggere i datasheet delle RAM, guardare i manuali di un microprocessore e vedere se il microprocessore o le RAM aveva alcun linee chiamate “indirizzo” e tiravano un filo da una parte all’altra. Era un lavoro molto semplice dato che le memorie erano RAM statiche.
Poi arrivarono le RAM dinamiche. Le RAM dinamiche avrebbero dovuto costare dalla metà ad un quarto del prezzo di quelle standard. Avere una RAM dinamica significava che, anziché necessitare di 32 chip per far girare un linguaggio, ne bastavano solo 8. Ma la memoria dinamica aveva bisogno di tutta una circuiteria per accedere ad ogni indirizzo nella RAM ogni duemillesimo di secondo, ed effettuare una lettura del dato e riscriverlo, altrimenti veniva perso. La memoria dinamica (oggi utilizziamo questa per i nostri computer) avrebbe perduto la memoria di ogni singolo bit in meno di un millisecondo, a meno che qualcosa non leggesse e riscrivesse il dato in modo da mantenere lo stato. È come se si immagazzinassero pochi elettroni su una piastra e questi fuoriuscissero in 500 microsecondi.

Il metodo di Woz

Beh, questo richiese di implementare circuiteria e progettazione aggiuntivi da parte mia, ma quando misi insieme il mio computer, buon Dio, avevo già questi contatori che utilizzavo per contare sequenze regolari da uno schermo televisivo, per il terminale, e pensai “Userò questi contatori per entrare di tanto in tanto e aggiornare parte della RAM”.
Quindi costantemente il microprocessore effettuava degli accessi alla RAM e gli indirizzi video facevano accessi alla RAM — non erano in realtà per leggere il video (il video nemmeno era nella RAM a quel tempo perché stavo usando lo stesso terminale che avevo costruito in precedenza e questo aveva la sua memoria per lo schermo), ma avrebbe effettuato degli accessi e letto le cose nella giusta sequenza, in modo che la RAM rimanesse attiva correttamente. Richiese un po’ più di progettazione ma alla fine ci fu bisogno di molti meno chip. E non erano solo meno chip, era anche molto più compatto nelle dimensioni. Era ancora più impressionante per chi lo vedeva. Era meno costoso e più veloce. Usai l’approccio giusto ed ebbi tutte queste cose in un colpo solo.
Alla fine degli anni ’60 stavano uscendo una miriade di minicomputer e usavano tutti gli stessi circuiti integrati: i 7400 che avevano 4 porte logiche su un chip — o avevano un sommatore o quattro sommatori o un multiplexer su un chip. Venivano usati gli stessi chip in tutti questi computer, ma il loro approccio era dire “Costruiamo un computer. Come tutti i computer precedenti c’è un’istruzione che può aggiungere 1 ad un accumulatore, c’è un certo numero di registri, si può spostare il contenuto di un registro in memoria, si può fare una somma, si può fare una OR esclusiva di due registri e salvare il risultato in memoria. Se si costruisce un set di istruzioni che renda il computer utilizzabile, se si include abbastanza istruzioni, questa macchina crescerà con un sistema operativo e per supportare i linguaggi di programmazione”.
Poi la Data General uscì con il microcomputer Nova. Anziché avere 50 istruzioni per fare vari tipi di operazioni matematiche, aveva una sola istruzione. Una singola istruzione di 16 bit — 16 uno e zero. Un paio di questi uno e zero specificavano quale dei 4 registri fornire ad un ingresso dell’unità aritmetica. Un’altra coppia di bit specificava quale fornire sull’altro ingresso. Un’altra coppia indicava se effettuare shift o rotazioni sul risultato all’uscita, a destra o a sinistra che è equivalente a moltiplicare o dividere per 2. C’erano bit da utilizzare ogni volta che si voleva impostare un carry (proprio come hai imparato alle scuole elementari, nelle addizioni può esserci un riporto — beh i circuiti logici dei computer funzionano esattamente allo stesso modo). Alla fine tutti e 16 i bit avevano un certo senso.
Lo verificai quando iniziai a progettare un Nova. Feci la scoperta che due dei bit selezionavano uno dei quattro registri, così li passai a un chip multiplexer a quattro vie e andarono. È come se quei due bit corrispondessero a un chip. Non dovetti inventare una serie di logiche che decidessero di “fare questo e quello e quello e questo, e mettere un segnale”. Non dovevo fare tutte quel tipo di operazione. Scorreva logicamente. Tre dei bit andavano a un chip logico per dirgli se aggiungere un OR o un OR-esclusivo. Un altro bit veniva attivato per il trasporto dell’addizionatore. Quando finii, il progetto della Nova aveva la metà dei chip di tutti gli altri minicomputer di Varian, Digital Equipment, Hewlett-Packard. Meno chip di tutti i minicomputer dell’epoca (li stavo verificando tutti). Vidi che Nova aveva la metà dei chip ed era un buon computer. Cosa c’era di diverso? L’architettura era davvero un’architettura che si prefissava proprio di avere un minor numero di chip.
Mi viene da fare questa riflessione in proposito: “In tutta la mia vita ho cercato di ottimizzare le cose. Non c’è solo la diminuzione dei pezzi, ma ogni volta che si eliminano dei pezzi si risparmia sulla complessità e l’affidabilità del sistema, si migliora il tempo necessario per capire che cosa fare. E si può così costruire senza errori, bug e difetti”.

Ti interessavi a tutti questi computer al liceo, a casa, per divertimento?
Sì, perché non avrei mai potuto costruirne uno. Così ri-progettai ogni computer che usciva — perché uscivano sempre di nuovi. Prendevo i nuovi chip e li riprogettavo, perché mi veniva in mente un’idea brillante su come risparmiare altri due chip. “Lo farò con 42 chip invece di 44 chip”, mi prefissavo. Il motivo per cui lo facevo era perché non avevo soldi. Non avrei mai potuto comprarne uno. I chip allora erano inarrivabili. Comprare un computer finito, per esempio, era come tirar fuori l’acconto su una nuova casa. Quindi, non potendo mai comprarne o costruirne uno, tutto quello che potevo fare era progettarli su carta e cercare di migliorarli in teoria. Ero in gara con me stesso. Questo esercizio mi rendeva sempre più bravo. Successe perché non potevo costruire nulla, gareggiavo con me stesso per elaborare delle idee che nessun altro aveva avuto prima.
Sapevo di avere degli approcci ai computer che fondamentalmente non potevano essere messi in pratica. Non potevano nemmeno essere insegnati in un programma scolastico. Li elaboravo nella mia testa. Imparavo tutto da solo. Non avevamo nemmeno un computer alla scuola superiore. Ed io li stavo già progettando. Così, misi le mani su alcune riviste specializzate e poi scoprii un modo per ottenere i manuali dei computer. I manuali del computer ne descrivevano il funzionamento e mio padre me ne dette alcuni. Così mi chiesi: “Come si costruiscono i chip per assemblare un computer”?
Se sapevo che cosa volere come risultato finale, potevo farlo. Potevo farlo per un computer, in seguito avrei potuto farlo per un floppy disk che doveva leggere e scrivere alcuni dati. Se sapevo qual era il mio obiettivo finale, sapevo come combinare i chip insieme in modo molto efficiente per raggiungere tale obiettivo. Anche se non avevo mai progettato nulla prima d’ora. Le mie competenze non erano quelle di saper progettare un floppy disk, sapevo come progettare un’interfaccia stampante, sapevo come progettare un’interfaccia modem. Succedeva che, quando c’era la necessità di fare una cosa nuova, l’avrei progettata da solo senza sapere come avevano fatto gli altri. Un metodo che mi è servito molto. Tutte le cose migliori che realizzai ad Apple sono venute da (a) non avere soldi e (b) non averlo mai fatto prima. Ogni singola cosa importante con cui mi sono cimentato, non l’avevo mai fatta prima nella mia vita.
Sapevo di volere un computer abbastanza buono e questo significava avere un buon microprocessore. La RAM dinamica era la scelta per risparmiare denaro e componenti e avevo già un terminale. Poi ho fiutato il vento e ho detto: “Ho bisogno di un linguaggio. Ho un computer 4K. Ci può funzionare un linguaggio, ma non c’è ancora un linguaggio per questo microprocessore”. Quindi ero (a) un po’ inappagato perché non avevo un linguaggio software, ma (b) ero determinato a scrivere il primo linguaggio per quel processore. Avrei ottenuto un po’ di notorietà per questo sforzo, e siccome ero super timido di natura, l’unico modo per farmi notare era quello di progettato cose buone.

Pensi che questa sia la ricetta giusta per diventare bravo in qualcosa, cioè non averlo mai fatto prima e cercare di farlo con pochi soldi?
Sì. Ma ci devono essere delle capacità. C’era il tizio che ha progettato il Macintosh e lui era come me. Non era mai andato al college, ma, da ragazzo, aveva studiato i circuiti che erano stati costruiti da altri e aveva imparato da solo a rifarli meglio.

Il WOZMOM. Il monitor di un televisor SONY che Wozniak trasformò in un video terminale con 256 Kb di memoria.

Il Basic

Sei andato al college e poi hai lasciato l’università, giusto?
Non esattamente. Ma al college non avevo imparato nulla sulla progettazione di computer. Non avevo mai ricevuto delle lezioni, per esempio, per imparare scrivere un programma software. Quando feci il mio computer, dovetti scrivere un Basic. Aveva bisogno di un Basic, non c’era altra via. Sapevo anche come lavorare a basso livello era tutto. Non sapevo nulla dei linguaggi software, tranne che un mio amico era andato al MIT e, mentre era lì, mi aveva mandato molte fotocopie di libri che sviluppavano dei buoni argomenti e mi aveva spedito, anche, un sacco di pagine sulla progettazione dei compilatori. Così avevo effettivamente letto alcuni libri sui compilatori. Non avevo, però, frequentato un corso, non avevo avuto un insegnante, anche se avevo qualche idea su come lavorare con un linguaggio.
Così, quando costruii il mio computer, l’Apple I, presi il terminale che avevo già. Era una scorciatoia; l’Apple non era progettato per essere un computer completo — quello sarebbe stato l’Apple II. L’Apple I si connetteva al terminale del mio televisore e alla tastiera da 60 dollari E allora pensai: “Tutti i computer che escono hanno interruttori e luci che sembrano la cabina di un aereo, ma sono proprio uguali che io ho costruito 5 anni fa”. Cream Soda Computer l’avevo chiamato. Sapevo che era troppo lento e sciatto. Era bello avere un computer, ma non faceva quello che volevo che facesse. Volevo scrivere un programma in Basic; volevo costruire un gioco e giocarci; volevo scrivere un programma che risolvesse le simulazioni per il mio lavoro alla Hewlett-Packard. Allora usai il loro grande computer, quello di HP, appunto. Aveva un minicomputer in time sharing con 40 colleghi che lo utilizzavano e lì ci lavorai nella mia porzione di tempo.
Quindi mi dedicai a scrivere un linguaggio di programmazione, ma non ne avevo mai scritto uno in vita mia. Non avevo mai fatto un corso. Così, al lavoro, nel manuale di Hewlett-Packard notai il Basic. Iniziai con il leggere tutti i diversi comandi del linguaggio, e a creare una tabella con la sintassi di del Basic: le espressioni, i comandi consentiti e la gerarchia, come si inserivano i nomi delle variabili, come si inserivano i numeri, quali dimensioni potevano avere e quali formati. Poi mi venne in mente un’idea, e non era neanche un’idea, solo una strano, strano pensamento. Questo, pensai: “come un utente scrive un’istruzione, io lo scansiono carattere per carattere, da sinistra a destra e la confronto con la tabella della sintassi”. Così caricai l’intera tabella della sintassi in memoria. Poi pensai: “Mi limiterò a seguire la memoria e, se quello che scrive l’utente ha una corrispondenza nella tabella di sintassi, ogni volta che succede, conosco l’istruzione che ha inserito “. Se avveniva il match, ritornavo una lista di piccoli token che rappresentavano lo stato della digitazione, se questa era nella tabella. Ecco l’idea che avevo avuto, senza sapere come avevano fatto gli altri. Non sapevo come erano scritti i compilatori.
Sapevo anche che c’erano numeri e variabili e che c’erano operazioni aritmetiche. Io Ero una persona che lavorava a basso livello. Avevo poca familiarità con i linguaggi di alto livello. I numeri sono nomi e “+” è un verbo. Anche in un’istruzione come “Print”, Print diventa un verbo. Così mi procurai la lista dei verbi e quella dei nomi e trovai il modo di combinarli e dare loro priorità in modo da trasformarli in notazione polacca inversa. Avevo una certa familiarità con la notazione polacca inversa attraverso i libri che avevo letto al college (e che il mio amico mi aveva mandato in fotocopia). Anche le nostre calcolatrici Hewlett-Packard usavano la notazione polacca inversa. Si prendeva un’equazione come “5 + 4” e la si cambiava in “5 ENTER 4 +”, si faceva questa operazione. Ma era possibile convertire tra l’una nell’altra? Quello non era troppo difficile per me. Avevo una certa conoscenza di questa procedura.
Costruii il Basic da zero e funzionò. Fu il progetto più difficile che avessi intrapreso prima di allora. Normalmente, un programma per computer si digita su un computer; è l’unico modo per farlo. Lo si digita su un computer o lo si memorizza. Quello che io facevo non era questo, scrivevo a mano sul lato sinistro delle pagine del mio programma, messo giù in quello che viene chiamato linguaggio macchina. Era il più vicino agli uno e agli zero. Quindi tradussi il mio programma in uno e zero. Se avessi detto: “Salta avanti di 19 byte”, avrei dovuto scrivere 19 in zero e uno. Dovevo lavorare direttamente in binario, perché non potevo permettermi un programma che facesse questo lavoro per me. Andai giù, fino al livello più basso in assoluto. In altre circostanze, anche l’hardware, non l’avrei progettato solo su carta. Come progettista l’avrei abbozzato sulla mia lavagna, poi avrei collegato tutte le parti, cercato di capire dove connetterle ad alcune schede, e, infine, avrei saldato i cavi tra queste.
Nel mio approccio minimalista, facevo i cavi più corti, diretti e sottili possibile, piuttosto che avere cavi massicci intrecciati tra loro come spaghetti. Potevo farlo perché ero un tecnico. Testavo le cose verificando subito le tensioni, le applicavo con attenzione, cercavo i segnali, analizzavo cosa c’era di sbagliato e correggevo i bug e risaldavo, trovavo nuove idee e aggiungevo dei chip. Sono stato il tecnico di tutto per tutti i progetti Apple che avevamo.

L’Apple I

Il computer di Woz

Dov’eri quando hai capito per la prima volta che potevi costruire la Apple I?
L’idea che avrei avuto il computer dei mei sogni mi venne al primo incontro dell’Homebrew Computer Club. Quella sera, anzi quella notte, me ne resi conto, quando scoprii che cos’era un microprocessore. Tornai a casa, ci feci una riflessione e mi venne da pensare: “Oh, mio Dio, Eccoci. Perché ora posso trovare i soldi per comprarlo”. All’inizio era un bel lavoro trovare i soldi perché il processore Intel costava 400 dollari, e io non li avevo. È come trovare 2.000 dollari al giorno d’oggi. Questo era un grosso problema per me. Poi venni a conoscenza che c’era un microprocessore Motorola che potevo ottenere per 40 dollari dalla Hewlett-Packard. Poi l’azienda introdusse il 6502 a 20 dollari, ed è questo quello che alla fine acquistati. Lo compari perché non era solo super economico ma anche perché era anche il migliore sul mercato.
Ora dovevo costruire l’hardware. Guardai tutti i computer che potevo esaminare e vidi che erano come l’Altair. C’erano gli switch, le lucine, gli slot per collegare le schede e la telescrivente. Pensai: “No, non va, voglio mettere tutto insieme, perché ora si può fare”. Avevo il mio terminale e avevo anche una tastiera su cui poter digitare. Volevo che fosse come le nostre calcolatrici Hewlett-Packard che avevanoo dei pulsanti tali da far capire alle persone che cosa stavano facendo. Niente di tutti quegli “zero e uno”. Poi pensai: “Ma così devi mettere in memoria i programmi”. Stavo iniziando a lavorare con un microprocessore che non aveva nemmeno un linguaggio di programmazione, quindi dovevo inserire le istruzioni nella memoria. Poi mi venne un’idea: “Perché non scrivo un piccolo semplice programma per farlo?”. Allora scrissi un programma da 256 byte che richiedeva due chip per essere memorizzato. Il mio programma lesse quello che digitavo sulla tastiera e fece quello che avrebbe fatto il pannello frontale dei vecchi computer, ma cento volte più velocemente. E poteva anche visualizzare sullo schermo del televisore ciò che era in memoria. Permetteva di mettere le cose in memoria, e poteva eseguire un programma ad un certo indirizzo. Mi permetteva di iniziare a digitare i miei uno e zero. Così ho sviluppato il Basic. Lavorai per 40 minuti per caricare il mio intero programma in memoria. Non digitavo proprio uno e zero in realtà, ma su base 16 al fine di mettere il programma in memoria e testare i bit per vedere quelle che facevano. Questo non lo feci come si fa in condizioni normali, quando si dispone degli strumenti che servono. Non avevo strumenti; il mio approccio nella vita era quello di usare solo le mie conoscenze. Sapevo di andare meglio se non passavo attraverso uno strumento.

Avevi la tua TV e una cassetta per la memorizzazione dei dati, giusto?
Sì. Una volta che gran parte del Basic fu scritto, dovetti ottimizzare e memorizzare il programma per metterlo su una memoria di massa. Avrei usato un registratore a nastro in modo da non doverlo digitare di nuovo. Ma questo arrivò piuttosto tardi nel lavoro. Avevo sviluppato l’intero Basic senza di esso.

E l’hai fatto vedere all’Homebrew Computer Club?
Ogni due settimane ci portavo il mio computer, che poi è diventato l’Apple I. Non avevamo ancora deciso di fondare un’azienda. Le aziende non erano la mia passione, la tecnologia, invece, lo era. Lo portavo al club e lo mostravo alla gente. Facevo le fotocopie del lavoro e di tutti i miei schemi e li distribuivo, assicurandomi che ci fosse il mio nome sopra. Ero timido e pensavo: “Mi farò conoscere facendo cose buone”. Agli altri dicevo: “Puoi costruirtelo da solo. Vedi quanto è facile”. E stavo davvero cercando di dire: “Puoi avere un computer completo ad un prezzo molto basso. E meglio dell’Altair”. Cercavo di far capire che c’era un modo completamente diverso di fare e usare un computer. Alcuni l’hanno capito, ma altri no.

Le persone che hanno capito, hanno cercato di costruirselo da sole?
C’era ancora troppo lavoro. Molti di loro erano sviluppatori di software, non saldatori di fili. Andai a casa di un ragazzino — lui era al liceo — e l’aiutai a fare il circuito. Iniziai con le saldature. Molte persone nel club non sapevano nemmeno saldare. In realtà era più che altro un gruppo di sviluppatori software. Non furono in molti a costruirlo. E fu a questo punto che entrò in scena Steve Jobs. Arrivò e disse: “Apriamo un’azienda. Guarda, ci sono molte persone che vogliono costruirlo e possono anche procurarsi i chip, ma non vogliono mettersi a saldare. Perché non gli diamo una scheda PC e loro ci inseriscono i loro chip. Mettere i chip in una scheda a circuito stampato è facile, non ci sono fili da saldare”. Quindi l’idea era quella di fondare un’azienda per costruire schede per PC con un costo di 20 dollari e rivenderle per 40 dollari. Beh, conoscevo il club come il solo posto dove venderlo e pensai: “Ci sono 50 persone al club” — c’era un gruppo che si riuniva intorno a me — “Compreranno questo computer invece dell’Intel?” Pensavo proprio di no, ma Steve disse: “Anche se non riavremo i nostri soldi, almeno avremo un’azienda”. Quindi era come se due buoni amici iniziassero un’impresa comune.

Steve Jobs e Steve Wozniak nel 1980, con la moto BMW di Jobs e il cagnolino di Woz.

L‘incontro con Steve Jobs

Ti ricordi dov’eri quando avete parlato di costruire un’azienda?

Non lo ricordo. Non ricordo se mi telefonò al lavoro, se ero a casa sua, se eravamo a casa mia, se era venuto a trovarmi — non riesco a ricordare.

Come hai conosciuto Steve?
Parlai del progetto del Cream Soda Computer — che era come l’Altair, ma costruito 5 anni prima — a un amico, Bill Fernandez. Decidemmo di assemblarlo nel suo garage. Abbiamo passato due settimane a lavorare insieme sul il mio progetto. Andavano in bicicletta per comprare la gazzosa per berla durante il lavoro, così abbiamo deciso di chiamare il computer il Cream Soda Computer. Bill venne a scuola da me e mi disse: “C’è un altro ragazzo alla Homestead High School (a Cupertino), più giovane di te, e lui è interessato all’elettronica, agli scherzi e anche ad altre cose. Dovresti davvero incontrarlo”. Così pensai che eravamo simili. Mi ricordo che Steve venne di fronte a casa mia. Andammo in una stradina senza sfondo, sul marciapiede, e iniziammo a parlare. Parlavamo degli scherzi che avevamo fatto, di elettronica e di chip. Avevamo molte esperienze comuni, quindi molto da dirci. Poi diventammo i migliori amici per tanto tempo. Non c’erano molte persone così giovani che conoscevano la tecnologia. Steve ed io non eravamo personalità simili, il che era strano, ma io sono il tipo di persona che va d’accordo con chiunque sia interessato alla tecnologia. E poi avevamo entrambi con gli stessi gusti musicali. La musica era importantissima a quei giorni, c’erano tante canzoni sul senso della vita, su dove stavamo andando, da dove venivamo e roba così. Più di tutto ci interessava Bob Dylan. Andavamo ai concerti. Andavo a Berkeley, stavo fuori i fine-settimana. Ogni volta che succedeva ci mettevamo in contatto, mangiavamo una pizza e facevano qualcosa insieme.

Quali sono state le prime cose che hai fatto dopo che Steve ti ha suggerito di fondare un’azienda? Lavoravate ancora alla HP entrambi, giusto?
La prima cosa che mi venne da dire fu: “Penso di aver firmato un documento che tutto ciò che progetto appartiene a Hewlett-Packard. Anche se fatto nel mio tempo libero”. Pensai che fosse giusto così. Volevo che Hewlett-Packard costruisse le cose che progettavo. Mi trovavo bene nella la mia divisione. Volevo lavorare lì per tutta la vita. Ero nella divisione delle calcolatrici; era anche la divisione adatta per stare nel tipo di computer che progettavo.
Decisi di andare dal management dell’HP. C’erano tre livelli di capi sopra di me e un paio di altri ingegneri. Gli presentai le mie idee e gli spiegai che cosa ne potevamo fare, il prezzo e come avrebbe funzionato. Ne rimasero incuriositi, ma non lo vedevano come prodotto Hewlett-Packard per alcune buone ragioni. La Hewlett-Packard non poteva uscire con un prodotto così basso. Doveva pensare a un tipo di computer finito per gli scienziati che sarebbe stato molto costoso e non avrebbe di certo avviato il movimento di massa che mi aspettavo io. Erano inoltre restii a usare un televisore che non era di Hewlett-Packard. Ma so che ne rimasero incuriositi. Fu allora che io e Steve iniziammo a vendere schede per PC a 40 dollari l’una.
Steve mi chiamò un giorno al lavoro e mi disse di aver ricevuto un ordine del valore di 50.000–100 dollari per schede di computer da vendere a 500 dollari l’una, che erano tanti soldi. Era il doppio del mio stipendio annuale alla Hewlett-Packard. Così mi rivolsi all’ufficio legale di Hewlett-Packard perché contattasse ogni divisione. Scrissi quello che stavamo facendo a ogni divisione, ma il fatto era che la divisione delle calcolatrici era la più bassa di Hewlett-Packard. Le altre divisioni non volevano toccare niente a buon mercato. Era troppo economico anche per la nostra divisione e gli altri, a maggior ragione, non lo avrebbero voluto lavorare. Così ricevetti una risposta scritta da ogni divisione, nessuna di loro era interessata. Ma si andava alla grande lo stesso. Stavamo per vendere i nostri computer. Certo, vendemmo solo 150 (forse meno) pezzi dell’Apple Is, ma era un vero computer e avevamo il nostro nome in tutte le riviste con grafici e benchmark. Un’intera industria stava nascendo e c’erano articoli su di noi. E nessun giornalista poteva ignorare un’azienda di nome Apple.

Come è uscito il nome “Apple”?
Lo pensò Steve. Me lo ricordo bene. Andai a prenderlo all’aeroporto di San Francisco e mentre guidavo sulla 101 e poi sull’85, e fu sull’85 che disse: “Oh, ho un nome per l’azienda. Apple Computer”. Entrambi cercavano di trovare nomi tecnici che fossero intelligenti, ma niente sarebbe stato meglio di Apple. Io però obiettai: “Come facciamo con la Apple Records? (Il che è divertente perché abbiamo ancora dei problemi con loro) E lui rispose: “Sono un’azienda diversa”. Così ci trovammo d’accordo: “OK, faremo la Apple Computer”. A quei tempi non c’erano i capitali per il business dei microcomputer. Le grandi aziende, gli investitori, gli analisti, quei tipi di persone addentro alla finanza, che ne sanno molto più di noi, non pensavano che quello sarebbe diventato un grande business. Pensavano che sarebbe stato un mercato hobbistico, come i robot domestici o le radio amatoriali. Avrebbe interessato dei tecnici, ma non la massa. Nell’Homebrew Computer Club, invece, pensavamo che il computer sarebbe entrato in ogni casa del paese. Ma lo pensavamo per i motivi sbagliati. Pensavamo che ognuno fosse sufficientemente esperto da poterlo davvero costruire da solo, scrivere i propri programmi e risolvere i problemi che c’erano. Anche quando fondammo la Apple, avevamo idee sbagliate su dove si sarebbe sviluppato il mercato più importante. Non avevamo previsto il foglio di calcolo, il VisiCalc.

L’Apple II

L’Apple II

Avevi già lasciato Hewlett-Packard?
Fu una cosa stata molto difficile. Quando iniziammo a vendere l’Apple Is, ero ancora alla Hewlett-Packard. Avevo l’intenzione di rimanere in quell’azienda per sempre. La nostra divisione di calcolatrici fu trasferita a Corvallis, in Oregon, e mia moglie non voleva trasferirsi a Corvallis. Il che fu una fortuna perché altrimenti sarei andato in Oregon e Apple non sarebbe mai nata. Così rimasi qui e mi trasferii in un’altra divisione della Hewlett-Packard, dall’altra parte della strada. La divisione costruiva i minicomputer Hewlett-Packard 3000.
Lavorai lì per un po’, il tempo per prendere familiarità con su HP 3000 … per l’Apple II. Sapevamo che era buono … che l’Apple II avrebbe cambiato tutto. L’Apple I, abbastanza stranamente, fu probabilmente più importante, perché mostrò che il computer del futuro avrebbe avuto una tastiera e un display video e l’aspetto di una macchina da scrivere. Sarebbe stato all’incirca di quelle dimensioni. E fu così. Ogni computer da quando uscì l’Apple I, compreso il Sol Terminal Computer con tecnologia poliformica che è uscito dopo (fuori dal nostro club), aveva una tastiera e un display video. Nessun computer era a quel modo. Non esisteva ancora un piccolo computer con una tastiera. L’Apple I era il primo e l’Apple II sarebbe stato il terzo. Fondamentalmente ogni computer da allora ha avuto una tastiera e un display video. Il mondo non è mai tornato indietro da quel giorno. Ora l’Apple II era il grande progetto. Lo progettai in modo molto efficiente con pochissime parti, con un design stupefacente. C’era il colore. Fu possibile avere il colore tagliando la metà dei chip. Aveva veramente la metà dei chip dell’Apple I. Aveva il colore, è stata un’idea brillanta che mi balzò in testa a notte fonda, all’Atari.
Quando sei molto, molto stanco –ero sveglio da quattro notti e Steve ed io prendemmo la mononucleosi — la tua testa si trova in uno stato di pura creatività ed elabora delle idee che normalmente non emergono. Mi venne l’idea di prendere un componente a buon mercato (meno di 1 dollaro) con 4 bit. Se utilizzato nel modo giusto, quel chip poteva produrre i colori di una TV. Potevo inserire 16 pattern diversi di colore e ognuno di essi era un colore diverso. Mi chiesi “È possibile che un segnale digitale che va su e giù possa funzionare su una TV a colori allo stesso modo in cui onde sinusoidali e calcoli complicati hanno portato il colore nel mondo della TV? Potrà funzionare?” Quando finalmente misi insieme questo piccolo circuito e caricai in memoria i dati che avrebbero dovuto produrre in colore, come successe davvero, fu veramente uno di quei momenti “eureka” e di fremito. Era semplicemente incredibile. Lo facemmo con un paio di chip. C’era il colore, e poi c’era la grafica, e poi c’era l’alta risoluzione, e poi c’era il suono per funzionare con i giochi. C’era la memoria dinamica, c’era un tipo di memoria dinamica che si poteva espandere. C’erano vari i tipi di slot e un sistema mini-operativo che in realtà funzionava incredibilmente bene. L’Apple II era solo la base. Chiunque poteva costruire cose da aggiungere, chiunque poteva scrivere dei programmi, anche sofisticati; potevano scriverli ad lato livello, potevano scriverli nel linguaggio macchina, potevano scriverli nel mio Basic. Non c’era proprio niente che quella macchina non potesse fare.
Sapevamo che ne avremmo venduti 1.000 al mese, ma non potevamo costruirli tutti da soli. Così abbiamo iniziato a cercare qualcuno che de li fornisse. Uno dei primi posti in cui andammo fu la Commodore. All’inizio li volevo chiedere al marketing manager del microprocessore 6502. Poi li vedemmo a una fiera a San Francisco dove lui e la moglie che avevano un tavolo. Li comprammo per 20 dollari l’uno. È così che comprammo i primi microprocessori che sono diventati l’Apple I e l’Apple II, da questo tizio, Chuck Peddle. Al tempo si stava trasferendo alla Commodore per costruire un computer. Gli dicemmo, “Dobbiamo mostrarti l’Apple II.”
Così lo portammo al garage. Lo rispettavo davvero; lui aveva progettato il microprocessore che avevo scelto. Venne al garage e guardò l’Apple II. Gli feci vedere tutte le specifiche per far apparire sullo schermo gli schemi, per far scorrere il testo e per giocare, tutto quello che avevo fatto. Osservò, ma non disse molto. Pensavo che sarebbe rimasto più impressionato. Più tardi venimmo a conoscenza che la Commodore aveva rifiutato.
Un giorno andammo a parlare con il capo degli ingegneri della Commodore, Andre Sousan, e Andre ci disse che il suo capo alla Commodore, Jack Tramiel, aveva preso Chuck Peddle e Chuck lo aveva convinto: “No, Non vogliamo metterci dentro tutte quelle cose esoteriche come i colori”. La verità è che non sapevano come farlo. Nessuno sapeva come fare il colore a buon mercato. C’erano delle schede per piccoli computer. Cromemco aveva un sistema a colori. Si potevano comprare due schede per l’Altair; ognuna di quelle, però, aveva più chip dell’intero Apple II. Solo per aggiungere il colore. Per la maggior parte delle persone era così. E Chuck Peddle aveva detto a quelli della Commodre: “Dobbiamo fare un computer che costi poco. Quindi dobbiamo avere solo il bianco e nero; la tastiera più economica del mondo e uno schermo piccolo. Tutto questo per mantenere i costi molto bassi”. Volevano che fosse estremamente abbordabile. La cosa divertente era che l’Apple II era meglio ingegnerizzato, più economico da costruire e comunque molto più un computer del loro. Non volevano includere nemmeno un monitor, perché pensavamo che tutti usassero il televisore.

Perché Commodore non l’ha voluto?
Bella domanda. Andre Sousan, poco poche settimane dopo il nostro incontro, lasciò la Commodore e venne alla Apple dicendo che avevamo noi il prodotto giusto e che voleva stare con noi. “Hanno appena perso il treno”, disse a proposito di Commodore. Credo che Chuck Peddle ne fosse consapevole, ma sapeva di non poter progettare qualcosa come l’Apple II. Avrebbero dovuto comprarlo. Avrebbero fatto un buon affare e a buon mercato. Dopo Commodore, il problema dei soldi tornava impellente. Non andavo io al caccia di soldi, Steve Jobs lo faceva. Voglio dire, non me ne sarebbe potuto importare di meno. Se avessi potuto esporlo al club e ricevere il riconoscimento di aver costruito un grande computer, questo era quello che volevo dalla mia vita. Allora andammo a trovare degli amici dell’Atari. Ci recammo a casa di Al Alcorn, e lui aveva un data display. Era la prima volta che vedevo un data display in vita mia. Collegammo il computer al display e a lui piacque quello che stavamo facendo. Era molto interessato. L’Atari l’avrebbe anche preso, ma avevano un progetto importante in ballo — il gioco Pong per l’utenza domestica — e ne avrebbero prodotti in così grande quantità che ogni sforzo dell’azienda doveva andare in quella direzione. Non avevano la capacità di fare due cose contemporaneamente. Così rifiutarono, molto amichevolmente, però.
Poi parlammo con alcuni venture capitalist. Don Valentine venne al garage e dette un’occhiata, ma non sembrò troppo impressionato. Fece domande del tipo: “Qual è il mercato?” E io risposi: “Un milione”. E lui diceva: “Com’è che lo sai?” E io dicevo: “Beh, ci sono un milione di radioamatori, e i computer sono più popolari delle radio tra i radioamatori.” Nessuno al mondo poteva negarlo. Ma non era il genere di analisi che volevano sentire.
E non c’erano ancora degli analisti a dire che questo sarebbe diventato comunque un grande mercato.
Quindi Don non fu molto interessato, ma ci dette il nome di Mike Markkula. Mike era una persona interessata alla tecnologia e che cercava cose da fare. Così Steve andò a parlargli e Mike pensò davvero che avevamo una grande cosa per le mani e che ci sarebbe stato un mercato enorme per i personal computer. Cioè i computer domestici. Non c’era ancora la parola “personal computer”; arrivò un po’ più tardi. Il concetto però era quello. La domanda che ci facevamo era “Come possiamo introdurre questo nuovo tipo di computer? Che cosa ha di speciale?” Fino ad allora, il computer era qualcosa che si condivideva. Con l’Apple II che c’era la possibilità di averne uno tutto per sé. Quindi era davvero un personal computer. Per certi versi la parola sembrava assumere quasi un’accezione negativa, ma noi la stavamo rendendo positiva. Quindi Mike ci disse che avrebbe messo i soldi che servivano per produrre 1.000 computer…, cioè 250.000 dollari. Cavolo, era fantastico. 250.000 dollari di allora equivalgono a un paio di milioni oggi [per la precisione 1.350.000 dollari circa].

Steve Jobs e Mike Markkula nel 1977. Entrambi mostrano l’assegno del finanziamento di Mike alla Apple.

Arriva Mike Markkula

Eravate ancora nel garage del padre di Jobs?
Beh, in realtà non facemmo molto in quel garage. La gente pensa che lavoravamo in un garage dove ci sedevamo con i saldatori e costruivamo le cose. No. I progetti dell’Apple I e II, sia per hardware che per il software, furono portati avanti nel mio appartamento a Cupertino e nel mio cubicolo alla Hewlett-Packard. Spesso di notte.
I computer furono fabbricati in un posto a Santa Clara. Facevano le schede dei PC, ci inserivano le parti e le saldarvano a mano. Steve scendeva in macchina a prenderli e poi li portava nel suo garage. Usavamo il garage di casa sua, c’era un banco da laboratorio, per collegare le schede dei PC della Apple Is e le provavamo su una tastiera. Se funzionavano, le mettevamo in una scatola. Se non funzionavano, le aggiustavamo e poi le inscatolavamo. Alla fine, Steve portava le scatole al Byte Shop di Mountain View dove pagavano in contanti. Avevamo avuto i pezzi a credito e venivamo pagati in contanti. Questo era l’unico modo in cui potevamo finanziare l’Apple Is.

Allora vi siete di fatto autofinanziati?
Sì, continuavamo ad autofinanziarci e aprimmo un conto in banca di… 10.000 dollari, forse. Non una somma enorme, ma fu sufficiente per trasferirsi in un ufficio. Steve voleva davvero creare un’azienda.

Dov’era il primo ufficio?
Il primo ufficio esisteva ancor prima dell’ accordo con Mike Markkula. Avevamo un posto in un complesso di uffici a Cupertino che io potevo raggiungere in macchina. Non è troppo lontano da dove si trova ora la Apple. Non troppo lontano neppure dal nostro primo edificio a Bradley Avenue. Avevamo un ufficio e Steve aveva fatto in modo di pagare solo la metà fino in quando avremmo usato solo una parte dello spazio. Era freddo e vuoto. Poi Mike ci finanziò. E un giorno mi disse: “Devi lasciare la Hewlett-Packard”. Io risposi: “E perché? Ho progettato due computer, le interfacce per le cassette, le stampanti, le porte seriali e ho scritto un Basic e tutto questo software applicativo, ho scritto una demo, e ho fatto tutto questo ben di Dio in un anno”.
Aggiunse: “Beh, devi lasciare comunque la Hewlett-Packard”. Non era facile. Mi guardai dentro e pensai: “Chi sono? Che cosa voglio dalla vita?”. Volevo davvero lavorare come ingegnere in una grande azienda (che era la Hewlett-Packard) e volevo progettare computer e scrivere software. E potevo farlo nel mio tempo libero. Non avevo bisogno di un’azienda mia per farlo. Quindi arrivò il giorno dell’ultimatum: dovevo decidere entro un certo giorno se ero disposto a lasciare l’HP. Incontrai Mike e Steve alla baita di Mike a Cupertino. Alla fine li informai: “Ho deciso di non farlo, ecco le mie ragioni”. Mike ha detto solo: “Ok”. Steve era un po’ più arrabbiato.
Il giorno dopo che avevo detto di no alla Apple, i miei genitori mi chiamarono, dicendomi: “Dovresti proprio farlo”. 250.000 dollari erano una bella somma nella vita di chiunque. E poi gli amici iniziarono a telefonarmi. Quel giorno il mio amico Allen Baum mi chiamò nel pomeriggio, e mi disse: “Senti, puoi far partire la Apple, entrare nel management e diventare ricco, oppure puoi far partire la Apple e rimanere un ingegnere e diventare ricco lo stesso”. Appena accennò alla possibilità di mantenere un profilo tecnico, mi sono sentito davvero sollevato. Il mio blocco psicologico era davvero che non volevo dirigere un’azienda. Perché avevo solo paura. Negli affari e in politica, non sarei stato un buon giocatore. Non volevo comandare. Non avrei mai potuto gestire in questo modo cose nella mia vita. Ero una persona non politica e non avevo un carattere molto forte. Questo si doveva a quello che era successo al tempo della guerra del Vietnam. Ma non volevo proprio dirigere un’azienda. Ma poi qualcuno mi disse che potevo continuare a fare l’ingegnere. Era tutto quello che mi serviva di sapere, “OK, — mi sono detto — metterò in piedi questa azienda e sarò solo un ingegnere”. A tutt’oggi, sono ancora nell’organigramma, ma in fondo all’organigramma, non sono mai stato niente di differente da un ingegnere.

Così hai chiamato Steve?
Decisi quella sera stessa, chiamai Steve e gli dissi che ci stavo. Poi il giorno dopo andai alla Hewlett-Packard e informai un paio di amici della divisione calcolatrici. Gli dissi che avrei lasciato la Hewlett-Packard. Poi mi recai dal mio capo, ma lui non c’era. Era in riunione o qualcosa del genere. Per tutto il giorno la gente veniva a dirmi: “Ho sentito che te ne vai”. E il mio capo non lo sapeva. Alla fine lo trovai alla sua scrivania, e quando lo raggiunsi gli dissi che me ne sarei andato per avviare la Apple. Lui domandò: “Quando vuoi partire?”. E io: “Subito”. Così me ne andai quel giorno stesso. Mike Markkula mi aveva offerto lo stesso stipendio alla Apple.

Da sinistra verso destra: Mike Scott, Steve Jobs, Jef Raskin, Chris Espinosa e Woz. Siamo nel 1977.

Arriva Mike Scott

Sei andato subito alla Apple?
Quando me ne andai dalla HP, non avevamo ancora un ufficio, lavoravo ancora a casa, ma stavo lavorando per la Apple. Stavo finendo alcune cose in Basic, altre per l’hardware e scrivevo codice per qualche grafica speciale, questo genere di lavori. Poi con Steve ed incontrammo un amico di Mike Markkula, Mike Scott, e ci piacque molto. Era un ragazzo forte e robusto (era direttore alla National Semiconductor) che faceva quello che diceva. Abbiamo deciso che fosse il nostro Presidente. È lo fu dal giorno della fondazione della Apple come una vera e propria azienda fino al giorno in cui andammo in Borsa. Quindi ebbe un ruolo piuttosto importante nella storia della Apple, anche se oggi è stato dimenticato. Penso che Mike fu la cosa migliore che ci capitò.

Come lo avete trovato?
Era amico di Mike Markkula. La loro amicizia arrivò a un punto di rottura quando Mike lo spodestò da Presidente per aver preso delle decisioni avventate. Ci fu un giorno in cui Mike Scott licenziò un sacco di persone. Apple era cresciuta molto e c’erano un sacco di ingegneri assegnati a diversi progetti, e non si riusciva a gestire bene le cose. Mike Scott un giorno arrivò e disse al nostro responsabile tecnico, Tom Whitney (un ragazzo con cui avevo già lavorato alla Hewlett-Packard e poi alla Apple), di prendersi una settimana di vacanza. Scott andò a parlare con tutti gli ingegneri per capire che cosa non andava. Alla fine decise di licenziare quelli giusti, quelli, cioè, che non funzionavano. Ma avrebbe dovuto dare loro un’altra possibilità. Mike Markkula era vicino a Ann Bowers, che all’epoca (era la moglie di Robert Noyce, credo) stava assumendo la responsabilità delle nostre risorse umane. Quindi avere questo caso di cattivo uso delle risorse umane era quasi una macchia sulla reputazione dell’azienda. Mike Scott cominciò a prendere decisioni davvero avventate e affrettate e a non essere più così attento come lo era stato in passato. Il consiglio di amministrazione gli dette un altro incarico e lui scrisse una lettera di dimissioni molto scioccante. Sostanzialmente diceva che la vita era troppo importante per queste cose di tipo politico. Fu triste vederlo andare via perché sosteneva le persone più brave in azienda.

La meteora di Ron Wayne

L’emendamento all’atto costitutivo della Apple Computer Company che registra l’uscita di Ron Wayne dalla compagine sociale con la cessione delle sue quote a Lobs e WOz per 800 dollari.

E Ron Wayne? Non era uno dei fondatori?
Sì, ma solo quando ci costituimmo come una vera e propria società. Ci furono due fasi. Una fu una sorta di partnership con Steve Jobs per l’Apple I, e poi per l’Apple II. La seconda fu quando diventammo una società, Apple Computer, Inc.

Steve aveva conosciuto Ron alla Atari e gli piaceva. Ron era un super-conservatore. Non mi occupavo di politica, la evitavo. Ron aveva letto un sacco di libri di destra come None Dare Call it Treason [di John A. Stormer, un pastore di forti tendenze anticomuniste e complottiste). Riusciva a far innervosire lo staff con le sue teorie conservatrici. Me ne resi conto solo più tardi.
Aveva risposte istantanee per tutto. Aveva esperienza imprenditoriale e, alle volte, era stato messo in mezzo come azionista. Aveva sempre una risposta pronta e, wow, sembrava che fosse l’esperto di turno nella stanza.
Una volta si mise seduto alla macchina da scrivere e scrisse il mio contratto di collaborazione usando un gergo legale. Pensai: “Come fa a sapere che cosa scrivere, i diritti e i doveri e tutte le clausole che sono necessarie” — io non ne conoscevo neppure una. Ron fece anche l’’incisione di Newton sotto l’albero di mele per la copertina del manuale dell’Apple I. Scrisse poi il manuale. Quindi ci aiutò in diversi modi. Steve aveva il 45 per cento di Apple, io il 45, e Ron il 10 per cento. Gli avevamo dato il 10% perché sia io che Steve eravamo d’accordo su fatto di poterci fidare di lui per risolvere qualsiasi controversia, e che ci saremmo avvalsi del suo giudizio.

La copertina del manuale dell’Apple I redatto da Ron Wyne.

Poi venne la decisione di commercializzare le schede dell’Apple I per PC a 20 dollari a pezzo e che l’avremmo finanziate di tasca nostra. Io vendetti la mia calcolatrice HP, Steve il suo furgoncino e ne ricavammo qualche centinaio di dollari ciascuno. Poi Steve ebbe un ordine da 50.000 dollari. Avevamo 30 giorni per ripagare i fornitori. Le schede furono montate nei computer, le facemmo funzionare, le consegnammo al negozio e fummo pagati in contanti. I fornitori di ricambi — i distributori di Mountain View — avevano controllato con il proprietario del negozio e sapevano che ci avrebbero pagato in tempo. Quindi, in pratica, eravamo coperti, la faccenda era a posto. Ma, ecco che Ron solleva un vespaio: e se non ci avessero pagati che sarebbe successo? Avremmo dovuto sborsare personalmente un sacco di soldi ai fornitori.
Io e Steve non avevamo niente. Non avevamo automobili, non avevamo conti in banca, non avevamo case. Così Ron Wayne si convinse che avrebbero dato la caccia alle pepite d’oro che teneva sotto il materasso. In realtà diceva che erano in una cassaforte, ma aveva comunque paura che venissero a prendere il suo tesoretto. Così decise di vendere la sua quota. Era diventato troppo rischioso per lui. Ci cedette il suo 10 per cento per qualche centinaio di dollari, 500, 800 o forse 300 [in realtà furono 800]. Non ricordo bene, ma pochi soldi.
Questo accadde quando stavamo progettando l’Apple II e ci stavamo lanciando verso il futuro. Aveva solo una dannata paura che qualcosa andasse storto.

Steve Jobs e Steve Wozniak alla Casa Bianca dopo avere ricevuto il National Medal of Technology dal Presidente Ronald Reagan il 19 febbraio 1985.

Woz e Jobs

Torniamo a voi. Come vi siete divisi il lavoro?
In realtà non ne parlammo mai, nemmeno una volta. Se c’era qualcosa di ingegneristico da fare, hardware o software, lo facevo io, perché Steve sapeva fare qualcosa, ma non bene quanto me. Quindi lasciò perdere questo aspetto del lavoro. Non guardò un circuito e non suggerì nulla. Io non volevo perdere tempo a dirigere un’azienda, così era lui a parlare con i giornalisti, a parlare con i negozi: “Vuole che le spediamo dei computer?”, “Vuole iniziare a comprarli?” Parlava con i rivenditori dei ricambi, li ordinava, negoziava le condizioni, faceva le brochure o gli annunci sulle riviste.

Quindi voi due vi trovavate bene insieme? Come capacità eravate complementari?
Beh, abbiamo messo insieme tutto quello che serviva. Se ci fosse stato qualcosa che nessuno di noi due sapeva fare, l’avrebbe fatta Steve. Avrebbe trovato il modo di farlo. Era entusiasta e lottava per il successo dell’azienda. Io nella mia testa avevo solo i circuiti.

Ricordi qualche disaccordo dei primi giorni?
Minimi. Ce ne furono su un paio di questioni, forse. Una era che ci stavamo avvicinando ad entrare nel mercato e volevamo che il prodotto fosse a basso costo. Steve disse: “Possiamo risparmiare ancora dei chip?”. Mi pressava a non finire. Mi piaceva e mi piace fare delle cose fantastiche. Le persone che capivano di circuiti mi dicevano che il mio progetto era stata la cosa più bella che avessero mai visto. A Steve dissi: “Potrei tagliare un paio di chip se elimino le alte risoluzioni. Non so chi le potrà usare “. In realtà era diventata una caratteristica molto importante del prodotto. E Steve mi disse: “Oh no, se sono solo due chip, lasciali dentro”. Ma non era come se stessimo davvero discutendo. Gli stavo solo dicendo che quello era l’unico modo per posso risparmiare qualcosa.
Avemmo una vera discussione solo sugli slot. Stavamo lavorando all’Apple II, e io avevo progettato un sistema intelligente, su suggerimento di un amico (Allen Baum), che gestiva otto slot a cui si potevano collegare delle schede. Ogni scheda poteva far eseguire i propri programmi nei propri indirizzi, e non aveva bisogno di occupare la memoria del computer. Pensai: “Beh, se gli indirizzi sono precisi, risponderò solo a quelli”. Questo avveniva sulla scheda madre. Nel mondo di Altair, per ogni scheda si doveva comporre l’indirizzo a cui doveva riferirsi e ci volevano un paio di manopole per selezionare l’indirizzo (e costavano soldi), e un mucchio di chip che confrontavano l’indirizzo proveniente dal microprocessore con quello corretto, per vedere se erano uguali. Questo proesso richiedeva cinque chip a scheda. Quindi se c’erano 8 schede, ci sarebbero voluti 40 chip. Nel mio caso, ho usato due chip, e ho impostato un doppio set di indirizzi per tutte e 8 le schede in 2 chip invece che in 40. Quindi ne andavo molto orgoglioso.
A questo punto Steve disse: “Tutto ciò che la gente vuole è una stampante e un modem”. Non era così perché lui veniva da un mondo diverso dal mio. Non aveva mai scritto software e non era mai stato veramente nel giro degli utilizzatori di computer. Era stato alla Hewlett-Packard, ma mai stato in mezzo agli utenti di computer che agganciavano schede di oscilloscopio con una scheda di computer, o una scheda che controllava dispositivi che facevano funzionare, per esempio, un motore. Tutto questo aveva una grande parte nella mia vita. Alcune delle cose più grandi sono arrivate grazie alle schede collegate a un computer. Steve voleva solo uno slot per una stampante e uno per un modem. Oggi siamo in un mondo molto diverso e più libero.
Avevamo messo abbastanza a punto il computer. Non avevamo bisogno di una stampante e di un modem. Steve insisteva sui due slot. Il problema era che due slot non mi avrebbero fatto risparmiare neanche un chip. Da parte mia volevo dimostrare che avevo otto slot e così pochi chip. Se avessi messo solo due slot, ci sarebbero stati dei chip inutilizzati. Ero davvero stanco di tenere la contabilità dei chip, così gli dissi: “Steve, se vuoi due slot, fatti un tuo computer”. Quella fu l’unica volta in cui avemmo una vera discussione.

Lui continuò a farti pressione?
No, non aveva scelta. Scelsi io per lui. Dovevamo avere otto slot, punto. E venne fuori che era molto importante averli e, infatti, furono molto utili. Perché uscimmo con un floppy disk. Non solo, terze parti uscirono con schede che, per esempio, impostavano 80 colonne di testo sullo schermo in modo da poterne vedere di più. La gente usciva con schede di memoria aggiuntiva, la gente usciva con altre lingue nelle schede, la gente usciva con schede che avevano il CPM. La gente usciva con schede per collegare tutti i tipi di dispositivi del mondo, per far gestire la corrente elettrica. C’era un mondo di schede. Molte persone riempirono i loro Apple II con nuove schede. Riempirono ogni singolo slot.

Quando facevi l’Apple II, come reagiva la gente?
Ogni volta che mostravo l’Apple II, prima di avviare l’azienda e anche dopo averla avviata, prima ancora che si spargesse la voce, ogni singola persona che lo vedeva… Beh, gli ingegneri della Hewlett-Packard vennero da me e mi dissero: “È il miglior prodotto che abbia mai visto”. E lavoravano a uno dei più grandi prodotti di tutti i tempi, la calcolatrice Hewlett-Packard in una delle più grandi aziende del mondo. Persone di questo livello dicevano cose del genere. L’Apple II li aveva incuriositi molto, ma sapevo che incuriosiva tutti colori che capivano di tecnologia. In realtà avevo fatto un ottimo lavoro alla Hewlett-Packard, usando l’Apple I come computer.

Woz con l’Apple II che mostra di suonare come una chitarra. Uno strumento, quest’ultimo, che amava e suonava. La musica era l’altra faccia degli interessi di Woz.

L’affermazione dell’Apple II

Quale è la chiave dell’eccellenza nell’ingegneria elettronica?
Bisogna essere molto diligenti. Si deve controllare ogni piccolo dettaglio. Occorre essere attenti a non tralasciare nulla. Si deve pensare e agire più intensamente e più profondamente di quanto si farebbe normalmente. È difficile con i grandi, enormi programmi di oggi. Io ero in parte hardware e in parte software, ma, vi dirò, ho scritto un sacco di software a mano (ho ancora le copie manoscritte), e tutto questo finì nell’Apple II. Ogni byte che andò nell’Apple II, aveva così tante diverse routine matematiche, routine grafiche, linguaggi, emulatori di altre macchine, modi per far entrare e uscire il codice dalla modalità di emulazione. Aveva tutto questo genere di cose e non si trovò mai un solo bug. Non un bug nell’hardware, non un bug nel software. Al giorno d’oggi non è possibile trovare un prodotto del genere. Ma, vedete, ce l’avevo così chiaro nella mia testa. La ragione di ciò era in gran parte perché l’avevo dentro di me. Tutto lì dentro, perché era importante per me. Quel computer ero io. E tutto doveva essere il più perfetto possibile. E c’erano molti ostacoli perché non avevo neanche un computer per compilare il mio codice, il mio software.

Avete avuto difficoltà a far dire alla gente comune: “Sì, voglio quel computer nel mio ufficio, ma lo voglio anche a casa mia”?
Quasi tutti quelli che lo videro ne volevano uno, ma di solito l’idea era: “Quanto costa? Un paio di migliaia di dollari? Beh, ne voglio uno.” Ma non lo acquistavano subito perché erano abbastanza soldi — bisognava pianificare l’acquisto qualche mese prima e allora si poteva comprarne uno. Ma non ci fu una sola persona a dire: “Non ne ho affatto bisogno”. (Non parlammo, ovviamente, con le persone anziane). Ma la gente non solo negli uffici, ma anche a casa, ci giocava. Un sacco di persone — adulti e bambini — volevano quella macchina per giocare. L’Apple II dette veramente il via a tutta l’industria dei giochi, perché era la prima volta che un computer era stato costruito con suoni, palette, colori, grafica e tutto ciò che serviva per i videogiochi. Fu proprio per questa ragioni che decisi di implementare Breakout [un videogioco arcade sviluppato da Atari].
Un anno prima, quando collaboravo con la Atari, si cominciava a parlare di giochi come software. Fino ad allora era tutto hardware. In altre parole, si saldava un cavetto al giusto tipo di chip e lo si faceva passare attraverso altri chip e altri ancora per determinare, per esempio, il punteggio e visualizzarlo in un certo punto dello schermo. È diverso dal farlo con il software. No, tutto era stato fatto con cavi, porte, chip e registri, e, a quei tempi, era molto difficile da costruire. Così con l’Apple II c’era una macchina in cui si poteva programmare un gioco (o qualcuno poteva), e così mi venne questa idea folle di provare a sviluppare Breakout in Basic. Il Basic è da cento a mille volte più lento del linguaggio macchina, quindi non sapevo neppure se fosse fattibile. Una sera mi sedetti al tavolo di lavoro e inserii tutti i comandi del Basic per avere i colori e via dicendo. Nel giro di mezz’ora, non solo avevo il mio gioco funzionante, ma avevo implementato una cinquantina di variazioni di colore, di velocità, di dimensione e roba di questo genere. Avevo cambiato così tante cose e messo dentro tante micro funzionalità che ci sarebbe voluta un’eternità per farle nell’hardware. Chiamai Steve e stavo tremando, tremavo dall’emozione. Gli feci vedere il gioco in esecuzione e gli dissi: “Questo gioco era così facile da scrivere! Guarda questo, va’ avanti e cambia il colore dei mattoni. Mi ci sarebbe voluta una vita per farlo in hardware e l’ho fatto in mezz’ora con il Basic”.
Ed era vero. Ci sarebbe voluta una vita intera perché qualsiasi ingegnere potesse implementare tutte quelle varianti. Così feci questa riflessione a Steve: “Ora che i giochi sono software, sarà un mondo diverso per i videogiochi”. Grazie all’Apple II, da allora, un sacco di gente iniziò a studiare come poter lanciare dei razzi, come poter ottenere un suono che fosse un suono vero. Iniziarono a usare l’Apple II. Era aperto a tutte queste cose. Rendemmo facile qualsiasi cosa. E credo che questa sia stata una delle chiavi del suo successo. Non la facemmo diventare una macchina da laboratorio — la mettemmo in commercio, “fa questo e quello, prendetela! Come avete fatto con Commodore e RadioShack”.
Pubblicammo manuali con centinaia di pagine di codice, descrizioni di circuiti, esempi di schede da collegare, in modo che chiunque potesse aprirli e dire: “Ora so come farlo da solo”. Potevano scrivere i programmi sul proprio Apple II e poi vedere all’istante come funzionavano. Montare le schede era la cosa più importante. C’erano tante aziende che iniziarono a creare schede da collegare all’Apple II e scrivere un piccolo software (per lo più giochi, all’inizio) e memorizzarlo su una cassetta. Si poteva andare al negozio e lì c’era tutto quello che serviva per espandere l’Apple II. Quindi, una delle chiavi del successo fu che eravamo molto aperti. C’era un mondo enorme là fuori, dove altre persone potevano venire e unirsi a noi.
Dall’80 all’83, quando l’Apple II era il computer più venduto al mondo, non lo pubblicizzammo nemmeno una volta. Tutti quelli che facevano prodotti per esso, lo pubblicizzavano. Tutta la nostra promozione era per l’Apple III, che non ha venduto niente. Cercavamo di fare dell’Apple III la macchina del grande business per prendere il posto dell’IBM.

E non accadde, vero?
Certo che non successe. Penso che fu un errore madornale. Penso che avremmo dovuto pubblicizzare l’Apple II. Si aveva il computer più venduto al mondo, bisognava sostenerlo. Ma l’azienda voleva che l’Apple III vincesse e l’Apple II perdesse. Era davvero strano perché si entrava in azienda e tutti avevano un Apple III sulla scrivania — nessuno aveva un Apple II. L’Apple II era il computer più venduto al mondo e l’unico che ci lavorava in azienda era colui che stampava il listino prezzi. Poi, nell’83, il PC IBM prese il sopravvento. Vendeva più computer dell’Apple II.

Lei se n’era già andato, quindi non faceva parte del team dell’Apple III, giusto?
Non me ne ero proprio andato. Non lasciai nemmeno il college, non mi ritirai. Tra il secondo e il terzo anno di università lavorai per un anno come programmatore per guadagnare soldi per pagarmi il terzo anno. Dopo il terzo anno di università, mi schiantai con la macchina e la distrussi. Fu una notte molto famosa. Fu la notte in cui conobbi Captain Crunch della Blue Box. Più tardi quella stessa notte, tornai a casa, presi la mia auto per tornare a Berkeley alle 3 del mattino, ma mi addormentai in autostrada e distrussi la mia auto. Andai al mio dormitorio a piedi e dissi ai miei compagni di stanza: “Meno male che non ho pagato la retta trimestrale”.
Così, dopo il terzo anno di college, mi presi un anno di pausa per lavorare, per guadagnare i soldi per il quarto anno. Poi ottenni quel lavoro alla Hewlett-Packard. Che lavoro incredibile. E poi la mia carriera iniziò a decollare e avevo tanti progetti collaterali a cui stavo lavorando quando arrivò Apple. Quindi non ebbi mai la possibilità di tornare indietro. Ma ci andai vicino. Nel 1981 feci un incidente aereo. Non appena uscii dall’amnesia provocata dallo schianto, in 5 minuti, capii che era giunto il momento di tornare al college. Non ci sarebbe stata un’altra possibilità. Così tornai a studiare e mi laureai. Mi è sempre piaciuta la scuola ed ero un bravo studente, un ottimo studente. E i miei genitori avevano una laurea e pensavo di volere qualcosa del genere. I miei figli avrebbero dovuto vedere il loro padre con una laurea.

Ci sono stati altri momenti di eureka nei primi tempi?
Ti ho già raccontato due momenti importanti di eureka. Uno fu quello di far funzionare il colore, con quello strano schema che non avevo idea se funzionasse o no. L’altro fu quando programmai un gioco arcade in Basic e funzionò. In entrambi i casi, non sapevo nemmeno se fosse stato possibile fare quello che avevo in mente, ma fui fortunato. Il floppy disk fu probabilmente la terza vero grande momento di eureka.

Ce lo racconti?
Avevamo il computer fuori uso, e mi misi al lavoro per progettare delle schede per supportare porte parallele così da potersi interfacciare con le prime stampanti a basso costo. Poi schede seriali per parlare con stampanti di qualità migliore, che erano adatte al lavoro di qualità di cui un’azienda aveva bisogno. Poi schede che parlavano con modem e altre schede seriali. Feci anche una scheda telefonica che poteva controllare la linea telefonica e i registratori a cassetta della segreteria telefonica. La Apple non la spinse, perché non gli piaceva il tipo che avevo portato per farla, che era Captain Crunch. La progettò lui. Era una grande scheda.
Una volta c’erano solo cassette per memorizzare i programmi. Per leggere un programma, si metteva una cassetta in un registratore a nastro e si digitava qualcosa sulla tastiera e poi si premeva un pulsante sul registratore a nastro. Credo che sulla tastiera si digitava qualcosa come “100R”. Il programma andava all’indirizzo 100. Si premeva il pulsante del registratore a nastro si aspettava un po’ (usciva un rumore meccanico), e poi faceva “beep”. A quel punto il programma era in memoria. Funzionava sorprendentemente bene, ma richiedeva un sacco di tempo.
Mike Markkula voleva iniziare subito con il marketing. Gestiva lui il marketing della Apple. Marketing significava in gran parte, presentare bene il computer all’utenza domestica. Era l’arte di rendere il termine “computer”, una parola che faceva schifo e richiamava la cabina di pilotaggio di un aereo, accettabile alla gente comune. Si poteva fare con diversi mezzi: le fotografie, la grafica, le ambientazioni, le parole, la stampa. Voleva anche che iniziassimo a lavorare su un software che rendesse possibile queste presentazioni.
Voleva un programma per una flashcard. Così Randy Wigginton ed io sviluppammo un programma per flashcard, chiamato Color Math. Fu messo in ogni Apple. Ne facemmo anche uno chiamato Checkbook, che permetteva di reimpostare i controlli sul computer. Ma ecco il problema: bisognava prima caricare il programma Checkbook su una cassetta, poi girarsi i pollici per un minuto finché non arrivava il “beep”; poi si doveva mettere un’altra cassetta, leggere le impostazioni e attendere nuovi “beep”; poi si dovevano effettuare delle operazioni sullo schermo, inserire altre istruzioni e rimettere la cassetta dei dati per registrarli… e “beep”. C’erano tutti questi tempi morti, e il processo era troppo estenuante e troppo lento. Così Mike ci chiese due cose: un Basic a virgola mobile (che è un Basic con valori decimali, che non avevo) e un floppy disk.
Poco prima di lasciare Hewlett-Packard, era uscito un nuovo chip. I chip a quei tempi erano in package da 14 pin e da 16 pin. Il nuovo aveva un pacchetto da 18 o 20 pin, un po’ più lungo del normale, ma aveva questo bellissimo piccolo registro a 8 bit, e 8 bit è un numero magico, è un byte. E io allora pensai: “Quel chip sarebbe fantastico per avere 8 bit di dati da un computer e trasferirli su un registratore a cassetta, o quello che è, o su un floppy disk”. Avevo pensato di usare quel chip per un dischetto, perché Steve Jobs mi aveva parlato dei dischetti prima che lasciassi la Hewlett-Packard.
Così pensai: “Darò un’occhiata a questo dischetto”. E così tirai fuori il datasheet di quel chip, e iniziai a buttare giù le mie prime idee. Mi chiesi: “Come faccio a gestire quel chip per portare i dati su un dischetto? E poi mi venne in mente qualcosa di intelligente. Mettendo dentro della logica, ogni chip avrebbe fornito solo 4 porte logiche. E qui servono quattro porte e poi altre quattro porte e altre quattro ancora — ci volevano un sacco di porte per fare tutto questo, ed erano molti chip. Così pensai “Perché non metto in atto un piccolo strattagemma? Quando i dati sarebbero tornati indietro dal floppy disk, mi mette in attese e con differenze di microsecondi posso discriminare quando il segnale ha transitato dal basso in alto o viceversa. Così vedrei quali sono i dati”.
Avevo bisogno di qualcosa di intelligente che funzionasse ad altissima velocità, e mi venne in mente un dispositivo chiamato macchina a stati. Avevo frequentato un corso sulle macchine a stati a Berkeley. Ho costruito una macchina a stati molto semplice, che in pratica era un registro che conteneva un indirizzo che diceva quale punto era il programma. Conteneva un indirizzo e immetteva i suoi dati in una ROM che prendeva la posizione in cui ci si trovava nel programma, più un paio di input provenienti dal dischetto e dal computer, e decideva cosa avrebbe fatto dopo. Inviava segnali per far sì che la procedura si svolgesse in modo corretto nei vari stati. Quindi si era in uno stato e diceva: “Non è successo niente”, si rimaneva in questo stato: “Bene non è successo niente, rimango in questo stato. Ahah, i dati sul dischetto sono cambiati in 1. Scendo nello stato numero 5 e ora sono nello stato numero 5 e non succede niente, e poi i dati del dischetto cambiano a 0, e mi muovo qui e dico anche a un registro di spedire un po’ di dati”. in realtà funzionava come un piccolo microprocessore, anche se erano formato da due soli chip. Fu un successo, un po’ di ROM e un piccolo registro a 6 bit.
Quindi erano tre chip, e poi servivano un altro paio di chip di interfaccia. Presi il floppy disk della Shugart. C’era un nuovo dischetto da 5 pollici e Steve me ne prese uno. Più piccolo di quelli precedenti che erano da 8 pollici. Non avevo mai visto un dischetto in vita mia. Non ne avevo mai usato o visto uno. Quindi non sapevo nulla di dischetti. Non avevo mai frequentato un corso sui controller dei floppy, non avevo mai visto un controller, non sapevo nemmeno che cosa facessero. Sapevo, però, che su un nastro a cassetta si generavano i segnali di certi schemi di temporizzazione e, quando tornavano dal nastro a cassetta, potevo analizzarli per capire quali erano gli uno e quali gli zero. Il microprocessore effettuava la sincronizzazione che non era in frazioni di microsecondo, ma un protocollo asincrono. Decisi di scrivere dei programmi che recepivano quando il segnale passava dall’alto verso il basso o viceversa. Lo gestivo sul microprocessore del nostro Apple II. Ma non potevo farlo sul floppy disk. Così ho studiato il progetto di Shugart per capire come funzionava.
E pensai “Ok, metto alcuni dati qui e alcuni segnali qui e imposto un bit sul clock ad una certa velocità, ogni 4 microsecondi, e poi spedisco i nuovi dati”. Attraversai chip dopo chip dopo chip sul loro dispositivo, e pensai: “Se li elimino tutti, è facile per me saldare i cavi direttamente sulla testina di scrittura del disco. Per il segnale che ritorna da lì, faccio passare un cavo sul mio controller e faccio la sincronizzazione ed elimino tutta la loro complicata interfaccia per far funzionare il processo”. Così tolsi 20 chip dalla loro scheda; avevo bypassato ben 20 dei loro chip.
A Steve Jobs piacque molto perché, quando venne il momento di trattare, poteva dire: “È un buon motivo per acquistarlo a un prezzo più basso. Non abbiamo bisogno della vostra scheda di controllo. Ci serve solo una piccola parte di essa. Così potete vendercela a un prezzo più basso di quanto la vendiate agli altri”. Fu un buon affare per Shugart e un buon affare per Apple.
Pensai di poter scrivere alcuni dati su un dischetto e interpretare ciò che tornava come uno e zero. Ecco però il problema: c’è l’intera traccia dei dati e c’erano migliaia e migliaia di uno e zero e poi la traccia si ripeteva. La testa cominciava girare come un frullatore. Si doveva sapere dove i dati iniziano e terminano in memoria. E questo era un problema che non avevo mai affrontato in vita mia. Pensai di usare l’approccio di scrivere un certo tipo di dati, secondo una certa sequenza — AA D5 AA 55 — uno schema, appunto, come quello. Lo scrivevo solo per una sequenza abbastanza lunga all’inizio di ogni sezione di dati, ed era qualcosa che in qualche modo sincronizzava i circuiti in modo che sapessero quando un uno e uno zero iniziavano un byte, invece di trovarsi nel mezzo a un byte. Lo faceva scivolare automaticamente al suo posto. Tutto qui. Quando arrivavano ai dati, li leggeva correttamente. Fu una scoperta fortunata. Avevo paura che non sarei mai stato in grado di risolvere il problema del floppy. Ma ci riuscii. Fui fortunato.

Il lettore di floppy disk progettato rocambolescamente da Woz.

La motivazione di Woz

E come lo hai realizzato alla fine?
All’inizio del progetto, stavamo per andare al CES (Consumer Electronics Show) di Las Vegas che avrebbe mostrato anche i personal computer, il che significava RadioShack, Commodore e Apple. Non ero mai stato a Las Vegas e volevo vedere questa bella città. Ma solo il marketing ci andava. Non c’era bisogno che ci andassi anch’io, dicevano. Così pensai: “Se riesco a fare il dischetto, potrei andare a farlo vedere”. Mancavano due settimane. Normalmente la progettazione di un floppy disk richiedeva sei mesi di tempo. C’erano tutta la documentazione tecnica da preparare si doveva farla approvare dai manager. Era un ciclo terribilmente lungo. Mancavano due settimane, ma Mike Markkula disse di sì: “Se fai il floppy puoi venire a Las Vegas”. Questa possibilità costituì la più importante motivazione per lavorare al progetto. Ci sono sempre state delle piccole motivazioni, magari fittizie, che mi hanno spronato a fare un grande lavoro. Questa era una di quelle, andare a Las Vegas. Così decisi che avrei progettato in tempo il dischetto. Con Randy Wigginton (un ragazzo appena uscito dal liceo) venni ogni singolo giorno in ufficio, compresi Natale e Capodanno, per due settimane. Ogni singolo giorno fino al 3 o al 5 gennaio, quando iniziava Las Vegas. Avevo quasi finito quel maledetto dischetto.
Volevamo anche un programma semplice per gestirlo. Come dire: “Run Checkbook” o “Run Color Math” per eseguire i programmi che erano memorizzati sul floppy disk. Andammo a Las Vegas, e Randy e io lavorammo tutta la notte perché farlo funzionare bene. Erano le sei del mattino e pensai: “Dobbiamo fare il backup di questo dischetto”. Scrissi un piccolo programma che diceva “leggi la traccia 0;” infilai l’altro dischetto e dissi “scrivi la traccia 0, leggi la traccia 1, scrivi la traccia 1”. C’erano 36 tracce — dovetti cambiare floppy per 36 volte. Appena finito, guardai questi due floppy che sembravano proprio identici. Allora pensai che avrei potuto scrivere su quello originale dalla copia, e lo feci. Un disastro, perdetti tutto. Tornai nella mia stanza d’albergo, disperato. Dormii per un po’. Mi alzai verso le dieci di mattina. Mi misi seduto e, fuori di testa, rifeci tutto daccapo, ricreai tutto e lo feci funzionare di nuovo. Lo mostrammo alla fiera. Fu un grande successo. Tutti dicevano: “Oh mio Dio, Apple ha un floppy! Sembrava proprio bello, collegato com’era a uno slot del nostro computer. Potevi dire “Run Color Math” e funzionava all’istante. Fu un cambiamento epocale. Ma il vero momento di eureka per me fu la prima volta che lessi i dati. Copiare da floppy originale a floppy copia fu facile, ma poi volli fare il contrario e persi tutto. Feci bene a farlo, ma ci morii letteralmente.

Dov’eri quando sviluppasti il floppy?
In ufficio di Apple per tutto il tempo. Eravamo in quel complesso di uffici di cui ho già parlato. Eravamo in cinque, poi in otto o dieci. Mi trasferii in un’altra stanzetta che prendemmo in più, una stanza più piccola nello stesso blocco, ma in un altro edificio. C’eravano Randy Wigginton, io e Capitan Crunch, che sviluppò la scheda telefonica.

Wozniak con la moglie Suzanne Mulkern, mentre suona la chitarra. La passione per la musica, e per Bob Dylan in particolare, contribuì moltissimo a cementare l’amicizia tra i due Steve. Il rock ebbe un ruolo di primissimo piano nel forgiare la visione e la cultura dei pionieri del personal computer.

Consigli agli hacker

Che consiglio daresti agli hacker che stanno pensando di fondare una società o di creare qualcosa da soli?
Prima di tutto, avere il massimo dell’etica ed essere aperti e sinceri sulle cose, non nasconderle. Se si deve nascondere qualcosa per motivi aziendali, almeno spiegare perché si sta facendo. Non bisogna fuorviare le persone. Dobbiamo, in cuor vostro, sapere di essere delle brave persone con buoni obiettivi, perché questo darà fiducia in se stessi e fiducia nelle proprie capacità ingegneristiche. Si deve sempre cercare l’eccellenza: bisogna sempre rendere il prodotto migliore della media. Se si riesce a tirar fuori velocemente qualcosa e si pensa “È fatto!”, allora è il momento di pensare, pensare e pensare ancora: “Posso renderlo ancora migliore? Farlo solo un po’ migliore?” Ciò non significa necessariamente fare il prodotto ideale, ma avvicinarcisi a quello. È allora che la testa lo capisce meglio. I neuroni devono passare attraverso il codice o i circuiti che si sono progettati. Questo processo imprime più solidità al processo creativo e un giorno si scopre “Oh mio Dio, c’è un bug, qualcosa di cui non mi ero accorto!”.
Oppure, se c’è modificare qualcosa, o aggiungere qualcosa di nuovo, si può farlo molto rapidamente quando è chiaro nella testa. Non si deve guardare un foglio e scoprire: “Mio Dio che c’è un errore”. Si deve credere che quello che si è fatto è migliore di qualsiasi cosa sia mai fatta prima. Nella tecnologia si deve solo andare avanti e non indietro.
Se mancano gli strumenti, bisogna trovare un modo per farlo lo stesso. Se si pensa: “Devo avere lo strumento se no non posso lavorare” e se ci si sente la primadonna e si pensa: “Devo avere un certo sistema di sviluppo” — se non si riesce, cioè, a trovare un modo per testare qualcosa e farlo funzionare, non credo che si sia il tipo di persona giusta per fare l’imprenditore. Gli imprenditori devono sapere adattarsi in continuazione … tutto cambia, tutto è dinamico. Se si si ha un’idea e poi de ne ha un’altra, e anche questa non funziona, bisogna sostituirla con una terza. E così via finché non viene quella giusta.
Il tempo è sempre un fattore critico perché qualcuno potrebbe batterci sul tempo. È meglio se si è giovani perché si possono passare molte più notti a lavorare, si può fare molto, molto tardi. Perché le cose devono essere fatte, e non c’è nessun altro modo per aggirarle. I tempi, sono il fattore critico.

La sede della Apple a Cupertino nel 1977.

La bastardata di Steve Jobs

Ti sei beccato anche la mononucleosi per il lavoro?
Fu quando sviluppai Breakout per l’Atari, perché non dormii per 4 giorni e 4 notti. Come potevo sviluppare in appena quattro giorni un gioco che avrebbe richiesto mesi di sviluppo per costruirlo, svilupparlo, farlo funzionare, fare il debug? Come era possibile? Steve aveva bisogno di soldi e ne aveva bisogno in fretta. Però non me l’aveva detto. Non mi aveva nemmeno detto alcun particolare. Fu pagato molto di più di quanto mi riferì e mi dette solo la metà di una somma più piccola di quanto avesse ricevuto. Non aveva bisogno di fare questa cosa. Io l’avrei fatto per 25 centesimi. Quindi non erano i soldi il punto. Ero contento di poterlo fare, di farlo anche per lui. Punto e basta. Per arrivare a progettare un gioco per Atari, che stava portando nel mondo i videogiochi arcade, avrei lavorato per 25 centesimi. Ma entrambi prendemmo la mononucleosi. La beccammo da una lattina di Coca Cola che avevamo condiviso.

Lui prese più soldi di te, ma avete lavorato entrambi al progetto?
Sì, lo scoprii 12 anni dopo.

È terribile.
Lo so, ma non era necessario che lo facesse. Probabilmente aveva bisogno di soldi. E io non ne avevo bisogno; avevo un lavoro da ingegnerie alla Hewlett-Packard. Per me era abbastanza. Sarebbe stato meglio per lui essere aperto e onesto. Può essere anche che ricordi male? È passato così tanto tempo.

Hai mai ricevuto qualche fondo da Mike Markkula?
250.000 dollari. Quello che in realtà Mike fece, fu un investimento di 80.000 dollari per avere una quota uguale a me e Steve. Il resto fu un prestito che gli restituimmo.

E questo è tutto quello sui cui Apple poteva contare?
Sì. Ma incontrammo alcune persone che Mike aveva conosciuto alla Intel e che erano investitori. Hank Smith di … non ricordo il nome dell’azienda della East Cost per cui lavorava Hank, ma era un gruppo di capital venture. Volarono in California per incontrarci… Mike era convinto che avremmo avuto bisogno di soldi, perché saremmo cresciuti molto velocemente. E quando si è in rapida crescita, si ha subito bisogno di tanta liquidità. Pertanto c’erano dei contatti in corso ancor prima di commercializzare l’Apple II. Poco dopo aver iniziato a distribuire l’Apple IIs, ottenemmo, credo, 800 mila dollari o, forse, 300 mila dollari — insomma un importo considerevole — da un’azienda di capitale di rischio.

Sulla costa orientale?
Credo che fosse della costa orientale. Mike Markkula aveva lavorato con questo tizio, Hank Smith della Intel, quindi è così che si erano conosciuti. Credo che Don Valentine ci mettesse dei soldi, ma poi arrivò il punto in cui voleva realizzare comprando delle azioni da Steve Jobs per 5,50 dollari prima che ci quotassimo. 5,50 dollari per azione: Steve pensava che fosse troppo poco. Oh, quei due. A Don Valentine non piaceva la gente che non era d’accordo con lui.

Il distacco di Woz e la quotazione in borsa di Apple

“The New York Times”, 12 dicembre 1980 — La Apple Computer si quota in borsa a 22 dollari ad azione. Un debutto “ordinato”, scrisse Rober Cole sul quotidiano di New York. Jobs e Markula avevano la fetta maggiore delle azioni. Woz aveva venduto in precedenza la quasì metà della sua quota a 40 dipendenti della Apple.

C’è qualcosa che avete sbagliato nei primi tempi della Apple?
Io e Steve, come ti dicevo, non avemmo una vera discussione. Nessuno ci vide mai litigare. Le liti erano molto rare e insignificanti, di solito erano solo incomprensioni. Una volta lesse sulla stampa qualcosa che mi veniva attribuito. Molte volte i giornali la buttano di fuori. Dala stampa sembrava che fossi sul punto di lasciare la Apple perché mi ero arrabbiato per come andavano le cose all’interno della società. Il “Wall Street Journal” lo riprese. Dissi al giornalista del “Journal: “La ragione per cui me ne vado è per avviare una nuova start-up per costruire un telecomando. È questo quello che adesso voglio fare”. A quel punto affrontai il discorso in Apple. Su una lavagna mostrai a tutti i dirigenti della Apple cosa avevo in mente, così nessuno mi avrebbe accusato di cercare di uscire per avviare un’azienda che fosse in concorrenza. In effetti, mi tennero lo stesso a libro paga. Rimasi un dipendente della Apple. Mi fecero gli auguri e mi dettero da firmare un patto di non concorrenza. Ma il “Wall Street Journal” aveva messo giù la storia che stavo lasciando la Apple perché non mi piaceva come andavano le cose. Mi ero solo lamentato del modo in cui il team Apple II veniva trattato, come se non esistesse a confronto di quello del Macintosh.
Voglio dire, non ci fu nemmeno permesso di acquistare il dischetto della Sony che volevamo nella divisione Apple II, perché sarebbe stato meglio di quello che avrebbe utilizzato il Macintosh. Ma era quello giusto per l’Apple II. Si trattava di questo genere di dissensi. Stipendi, bonus, ecc. Così in quell’articolo parlai a nome del team Apple II, ma loro scrissero che me ne stavo andando. Ma io non lo stavo facendo, non certo per il motivo che dicevano loro. Concetti sbagliati… ce ne sono così tanti in giro. È come se leggendo un libro mi venisse da pensare: “Dio, non è affatto così”. Quindi non mi interessa, non cerco di correggere nulla. Ma alla fine il mondo non ha poi così tante cose sbagliate. Sono sorpreso quando vado sul Web e leggo ogni sorta di storie sull’Apple II e sul mio ruolo. In genere sono cose molto lusinghiere e accurate.
La cosa più difficile fu il successo, aver avuto un grande successo… vedi, non cercai quel successo, non ero come un imprenditore che lo cercava a ogni costo. I soldi per me non significavano molto. Li detti quasi tutti in beneficenza, a musei, a gruppi di bambini, a quello che mi sembrava giusto aiutare. Avere avuto successo era quasi un male per me. Questo perché non era il successo che cercavo, e volevo rimanere la persona che sarei stata senza la Apple. Per questo tornai indietro e iniziai ad insegnare. Avrei fatto l’insegnante se non ci fosse stata la Apple.

Non hai dato le tue azioni Apple ad altri dipendenti?
In effetti, quando andammo in Borsa, ero un po’ turbato dal fatto che cinque persone che erano state con noi nel nostro piccolo ufficio fin dall’inizio e che erano state così importanti — Randy Wigginton, Chris Espinosa, e un altro paio — non avevano ricevuto alcuna azione. Sapevo che erano stati parte di tutta l’energia, l’entusiasmo e la passione del nostro lvoro Era giusto compensarli. Si trattenevano a lavorare fino alle due del mattino insieme a me, aiutandomi a scrivere il codice, ed esclamavano: “Wow, che figata”. Queste parole avevano significato molto per me e meritavano una ricompensa. Così trasferii a ciascuno di queste cinque persone una quota delle mie azioni. Milioni di dollari al momento della quotazione.
Feci anche un programma per vendere azioni a una quarantina di dipendenti Apple … Ebbi così le risorse per comprarmi una casa. C’era anche un investitore esterno, un vip, disposto a comprare tutto ad un certo prezzo. Ma io pensai “Piuttosto che venderle a qualcuno che ha già un sacco di soldi, perché non le do ai dipendenti Apple? Presto ci quoteremo e la società varrà molto di più (e alla fine lo è stato)”. Così vendetti parte delle mie azioni a 40 dipendenti Apple. Il nostro ufficio legale era molto preoccupato perché pensava che potessero diventare investitori esigenti. Ma, alla fine mi dettero l’ok. E così le vendetti a loro. Ognuno ricavò dalla quotazione una somma sufficiente per comprare una casa.

È stato molto generoso da parte tua.
Ma è proprio questo il punto. La Hewlett-Packard era una comunità. Ci fu una recessione nel 1973 e la Hewlett-Packard dovette tagliare il 10 per cento del personale. Invece di licenziare il 10 per cento della gente, decise di tagliare lo stipendio di tutti del 10 per cento e di darci un giorno di ferie ogni due settimane. Co dissero: “Nessuno deve rimanere senza lavoro”. A me piace questo genere di cose. Così un gruppo di ingegneri Apple e di persone del marketing trovarono un vantaggio nella quotazione della Apple. Altrimenti non avrebbero avuto alcun beneficio. Mike Markkula pensava che alcune di queste persone non lo meritassero; secondo lui alcune persone non avrebbero dovuto avere le azioni. Ma io non ero d’accordo con lui su questo punto. Nessuno mi stoppò e così lo feci.

Hai tenuto comunque abbastanza azioni per te stesso, giusto?
Con i soldi ricevuti dai dipendenti della Apple, comprai una casa. Fu un po’ prematuro vendere il 15 per cento delle azioni, ma, ehi, fu una grande opportunità per me. Quando progettai la roba di Apple, non avrei mai pensato in vita mia di fare abbastanza soldi per andare in vacanza alle Hawaii e comprarmi una casa. Così fu un grande affare per me.

Traduzione di Mario Mancini. Le parti tecniche sono state revisionate da Jacopo Belli, Dottore Magistrale in Ingegneria Elettronica, che ringrazio per il tempo che ha dedicato a rendere intellegibili le descrizioni di Woz.

Fonte: Jessica Livingston, Founders at Work: Stories of Startups’ Early Days, Apress, 2007.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.