Steve Jobs: reinventarsi e reinventare
C’è un solo modo di fare un buon lavoro, farlo con una squadra
Estratto e adattamento dall’intervista di Steve Jobs a Bob Cringely del 1995, conosciuta come “L’intervista perduta”
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In missione
Formai una piccola squadra per fare il Macintosh. La nostra era una missione sacra: salvare la Apple. Non ci credeva nessuno. Ma i fatti dimostrarono che avevamo ragione noi. Insomma, reinventammo tutto. Reinventammo anche il processo di fabbricazione industriale.
Io visitai circa ottanta fabbriche automatizzate in Giappone, e costruimmo la prima fabbrica di computer automatizzata al mondo qui in California. Decidemmo di usare i microprocessori Motorola 68000 del Lisa. Negoziammo un prezzo che era un quinto di quello che avevamo pagato per il Lisa, perché li avremmo usati su scala più grande. E cominciamo davvero a lavorare a un prodotto che potesse essere venduto per 1000 dollari, il Macintosh. E non ci riuscimmo. Avremmo potuto farcela a 2000, ma uscimmo a 2500. E ci vollero cinque anni per farlo.
Realizzammo il prodotto. Realizzammo la fabbrica automatizzata. La macchina per costruire la macchina. Costruimmo un sistema di distribuzione completamente nuovo. Un modello di marketing completamente diverso. Credo che alla fine abbiamo fatto la cosa giusta perché ha funzionato.
La squadra
Per fare questo bisogna essere una squadra, costruire la squadra. Motivarla, guidarla. Avere passione. Avere una visione. Avere delle priorità.
Quando ho lasciato la Apple a John Sculley è venuta una brutta malattia. Ho visto altre persone che ce l’avevano: consiste nel pensare che il 90% del lavoro sia nell’avere un’idea davvero grande, e che basti dire alle persone: ehi guardate che grande idea, perché l’idea si realizzi.
Il problema è che ci vuole una quantità immensa di lavoro artigianale per tirare fuori da una grande idea un grande prodotto. E intanto che sviluppi il prodotto, la tua grande idea cambia e cresce. Il risultato non è mai quello che sembrava all’inizio, perché si impara moltissimo entrando nel merito di una cosa e si capisce che occorre fare dei grandi compromessi.
Alcune cose i chip non possono farle. Ci sono cose che i materiali o le fabbriche o i robot non possono fare. E quando arrivi a questo punto, progettare un prodotto significa avere in mente cinquemila cose diverse e metterle insieme e continuare a combinarle in modi sempre nuovi e diversi, così da ottenere ciò che vuoi.
E ogni giorno scopri qualcosa di nuovo, un nuovo problema oppure una nuova opportunità per combinare queste cose in modo leggermente diverso. E questo processo è magico. Insomma, avevamo molte grandi idee quando abbiamo cominciato, ma io ho sempre creduto che un gruppo di persone che fanno qualcosa in cui credono sia un po’ come quel tale, un signore, che abitava in cima alla strada quand’ero ragazzino.
Levigare le pietre
Questo signore aveva ottant anni e aveva un aspetto spaventoso. Poi lo conobbi un po’ meglio. Mi pagava per tagliargli il prato. Poi un giorno mi disse: “Vieni nel mio garage, voglio mostrarti una cosa”. E tirò fuori un vecchio macinino polveroso. Era fatto di un motore e di una lattina di caffè, con una piccola asta in mezzo.
“Vieni con me”, disse. Andammo fuori a prendere dei sassi. Normalissimi, bozzoluti, vecchi sassi. E li mettemmo nella lattina con un po’ di liquido e con dei granelli. Chiudemmo la lattina, lui accese il motore e mi disse di tornare il giorno dopo. La lattina faceva un gran chiasso coi sassi che si muovevano all’interno battendo tra di loro e sulla superficie della lattina.
Tornai il giorno dopo e aprimmo la lattina. Dentro cerano delle bellissime pietre levigate. I sassi grezzi che avevamo usato, a forza di strofinarsi l’uno contro l’altro, con un po’ di frizione, con un po’ di rumore, si erano trasformati in bellissime pietre levigate.
Mi è sempre rimasto in mente come la metafora di una squadra di persone che lavorano sodo su qualcosa che le appassiona. Tutto sta nella squadra, in questo gruppo di persone di enorme talento che si scontrano tra loro, litigano, qualche volta si azzuffano anche. Fanno un sacco di baccano. E lavorando insieme si perfezionano l’un l’altro e perfezionano le idee. Il risultato sono delle splendide gemme levigate. È difficile da spiegare e non è certo qualcosa che può realizzare qualcosa di molto di più di un singolo individuo.
Il Mac è un lavoro di squadra, una squadra di serie A
Alla gente piacciono i simboli e io simboleggio il Mac. Ma in realtà il Mac è il risultato di un lavoro di squadra. C’è una cosa che ho notato quasi subito alla Apple, che allora non sapevo spiegare, ma su cui ho riflettuto molto nel corso del tempo. Di solito, nella vita, l’intervallo dinamico fra la posizione mediana e il top è di due a uno. Se vai a New York e confronti la prestazione di un tassista medio con quella del più bravo di tutti, vedrai che con il più bravo arriverai a destinazione nel 30% in meno di tempo. Nel campo delle automobili, qual è la differenza fra la media e il top? Forse il 20%. E tra un lettore CD medio e il migliore? Non so, diciamo il 20%. Perciò due a uno è un buon rapporto dinamico nella maggior parte delle cose.
Nell’ambito del software, ma anche dell’hardware, la differenza fra la media e il top è 50, forse 100 a uno. Poche cose nella vita sono così e io ho avuto la fortuna di lavorare in uno di questi casi. E ho costruito gran parte del mio successo trovando le persone più dotate e non accontentandomi mai di giocatori di serie B o di serie C, ma solo di giocatori di serie A.
E ho scoperto una cosa. Che quando metti insieme un numero sufficiente di giocatori di serie A, quando riesci a portare a termine una incredibile missione, questi giocatori adorano lavorare insieme, perché non avevano mai avuto la possibilità di farlo prima. E non desiderano lavorare con giocatori di serie B o di serie C. E poi continuano a migliorare ancora. E vogliono avere altri giocatori di serie A con cui lavorare. Si creano, così, gruppi d’eccellenza e il fenomeno si propaga.
La squadra che ha realizzato il Mac era così. Tutti giocatori di serie A. Tutte persone di straordinario talento.
C’è un solo modo di fare un lavoro, farlo bene
Se si parla con i membri del Mac team, molti di loro diranno che è stato il lavoro più duro della loro vita. Altri diranno che è stato il più divertente. Ma tutti, credo, diranno che è stata una delle esperienze più intense e preziose della loro vita.
Ci sono cose che non sono sostenibili per tutti.
Se qualcuno ha fatto un lavoro di merda, non è che faccio dire a qualcuno. Io la vedo così, ma mi posso sbagliare. Quando lo faccio vuol dire che quel lavoro non è abbastanza buono.
Se assumi persone davvero valide, loro sanno di esserlo e non hai bisogno di coccolare il loro ego. Quello che conta è il lavoro, su questo sono tutti d’accordo. Che quello che conta è il lavoro. Le persone sanno che è stato affidato loro uno specifico pezzo di un puzzle, e la cosa migliore che puoi fare per uno, che è davvero bravo e che ci tiene al risultato, è dirgli quando il suo lavoro non è all’altezza.
Essere sinceri aiuta il lavoro
Biosgna dirgli con molta chiarezza che non ci siamo, spiegando il perché e rimettendolo in carreggiata. E si deve farlo in un modo che non metta in discussione la fiducia nelle sue capacità, ma che non lasci spazio a interpretazioni sul fatto che quel particolare lavoro non è in grado di giovare agli obiettivi della squadra. Non è facile. Ma io ho sempre usato un approccio molto diretto.
E se lo chiedi a quelli che hanno lavorato per me, a quelli davvero bravi, io credo che ti diranno che ne hanno tratto beneficio. Alcuni mi hanno odiato. Io sono una di quelle persone a cui non importa molto di aver ragione. M’importa di riuscire nell’obiettivo.
Molti racconteranno quante volte ho avuto un’opinione netta su qualcosa e poi, quando mi hanno presentato le prove del contrario, in cinque minuti ho cambiato completamente idea. Perché sono fatto così. Non mi dispiace essere in torto. Mi capita spesso di ammetterlo. La cosa non mi sconvolge molto. M’importa che le cose siano fatte bene.
Il desktop publishing quasi per caso
La Apple ha sbaragliato tutti i concorrenti nel campo del desktop publishing. La prima stampante laser Canon spedita negli Stati Uniti e stata inviata alla Apple. La collegammo a un Lisa e realizzammo, prima di chiunque altro, una pagina digitale. Prima di HP. Molto prima di HP. Prima di Adobe.
Poi sentii parlare di questi tizi che avevano lasciato lo Xerox PARC e che lavoravano in un garage. Erano i ragazzi di Adobe. Tutti mi dicevano di andare a dare un’occhiata. Alla fine ci andai e vidi che ciò che stavano realizzando era meglio di quello che stavamo facendo noi. Volevano fondare un’azienda di hardware. Stampanti eccetera. Li convinsi a diventare una software company.
In capo a due o tre settimane cancellammo il nostro progetto interno. C’era gente pronta a uccidermi per questo. Ma lo facemmo. Avevo fatto un accordo con Adobe per poter usare il loro software e la Apple comprò Il 19,9% di Adobe. Loro avevano bisogno di soldi. Noi volevamo avere il controllo della tecnologia.
Eravamo in ballo e comprammo i motori dalla Canon. Alla Apple progettammo il primo controller per stampante laser. Prendemmo il software da Adobe e lanciammo la stampante laser; nessuno nell’azienda voleva farlo a parte noi del team Mac. Tutti pensavano che una stampante da 7000 dollari fosse una follia. Non capivano che potevamo collegarla in rete con Apple Talk. Cioè, lo capivano astrattamente, ma non in modo viscerale. Erano perplessi perché l’ultima cosa molto costosa che avevamo cercato di vendere era stato il Lisa. E avevamo fatto un buco nell’acqua. Così andammo avanti. In pratica mi portavo dietro dei pesi morti, ma ce la facemmo ugualmente.
La nostra fu la prima stampante laser sul mercato, come si sa. Il resto è storia. Quando ho lasciato l’azienda, Apple era il più grande produttore di stampanti laser al mondo, per profitti. Purtroppo ha ceduto il primato a Hewlett-Packard tre o quattro anni dopo la mia uscita. Ma allora era la più grande azienda di stampanti al mondo.
Non avevamo in mente il desktop publishing. In realtà pensavamo di costruire in ufficio una rete di computer per stampare. Così nel gennaio del 1985, al meeting annuale in cui presentavamo i nuovi prodotti, presi probabilmente il peggior abbaglio di marketing della mia carriera. Annunciai il Macintosh Office invece di un semplice software di desktop publishing. In realtà non avevamo molto a parte questo, eppure annunciammo un sacco di altre cose. Credo che allora avremmo fatto meglio a concentrarci su quelli che avevamo davvero, cioè il desktop publishing, che fu una rivoluzione.