Stati Uniti, presidente nera?
La lunga strada delle donne afroamericane verso la Casa Bianca
di Stefano Luconi, docente Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova
Tocca a Kamala Harris
Con il conferimento formale della nomination per la Casa Bianca da parte della convenzione nazionale democratica conclusasi giovedì scorso a Chicago, Kamala Harris è diventata ufficialmente la prima donna afro-discendente candidata alla presidenza per uno dei due maggiori partiti.
In base agli ultimi sondaggi, che la vedono sopravanzare Donald Trump nelle intenzioni di voto, Harris ha anche buone possibilità di essere la prima donna a conquistare la Casa Bianca, un traguardo finora mai raggiunto dalle cittadine americane sebbene sia trascorso oltre un secolo dal varo del XIX emendamento della Costituzione che nel 1920 introdusse il suffragio femminile a livello federale.
Abbiamo chiesto al professor Stefano Luconi, docente di storia americana all’Università di Padova e attento osservatore delle vicende di quel Paese, di commentare il significato della nomination di Kamala Harris, anche alla luce dei precedenti tentativi di donne di colore e non di candidarsi a guidare gli Stati Uniti dalla Casa Bianca.
Le pioniere dell’Ottocento
La corsa delle donne alla presidenza parte da molto lontano. La prima a candidarsi alla guida del Paese fu Victoria Woodhull nel 1872 per una formazione minore, lo Equal Rights Party. In un periodo in cui non esisteva ancora il suffragio femminile, quella di Woodhull fu soprattutto una provocazione per rivendicare la parità dei diritti politici dopo che, due anni prima, il XV emendamento aveva concesso il voto ai maschi afroamericani liberati con l’abolizione della schiavitù, ma non alle donne che pure si erano battute con determinazione e coraggio per decenni proprio per l’affrancamento degli schiavi.
Woodhull avrebbe compiuto 35 anni solo il 23 settembre 1872 e non aveva quindi il requisito d’età per essere presidente. Poiché era ineleggibile, fu considerata incandidabile e, quindi, non venne registrato il modestissimo numero di voti che raccolse.
Fu seguita da un’altra fiera e determinata sostenitrice del suffragio femminile Belva (nomen omen) Lockwood, schierata per la presidenza dallo stesso partito di Woodhull nel 1884 e nel 1888. A Lockwood non andò meglio. Raccolse poche migliaia di voti popolari a livello nazionale, ma riuscì comunque a richiamare l’attenzione sull’esclusione delle donne dalla politica attiva.
Le boutade di Gracie Allen
La terza donna ad aspirare alla presidenza in teoria fu Gracie Allen nel 1940, quando il suffragio femminile era un diritto ormai ben consolidato. Comica di professione, Allen si presentò alla testa di un Surprise Party che aveva creato per l’occasione.
L’iniziativa fu, in realtà, una trovata pubblicitaria per rilanciare il programma radiofonico che conduceva con il marito. Una delle sue proposte prevedeva di “dichiarare incostituzionale” l’esistenza degli uomini, pur senza farli scomparire dalla società perché qualche volta ce ne sarebbe stato bisogno.
Inoltre, Allen proclamava apertamente di essere un’incompetente, aggiungendo però che lo erano anche i politici al potere e all’opposizione nonché gli stessi elettori.
Minoranze e candidature femminili
Alcune delle successive candidature di donne andarono ad affrontare problematiche legate alla questione razziale. Nel 1948 e nel 1952 Agnes Waters, per il National Woman’s Party, condusse una strenue campagna dai tratti apertamente antisemiti e razzisti.
Denunciò, per esempio, una presunta “invasione” cinese, dopo che nel 1943 gli Stati Uniti avevano riaperto le porte agli immigrati dalla Cina in forma estremamente contenuta con la concessione di appena 105 visti l’anno; accusò gli afroamericani di essere agenti dell’Unione Sovietica e minacciò addirittura di volerli sterminare tutti.
Di contro, nel 1968 il partito comunista candidò una contabile afroamericana, Charlene Mitchell, per sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che la comunità nera, soprattutto la sua componente femminile, continuava a subire discriminazioni nella vita quotidiana, malgrado la promulgazione delle leggi volute dal presidente democratico Lyndon B. Johnson nel 1964 e nel 1965 per assicurare la pienezza dei diritti civili e politici delle minoranze.
Shirley Chisholm
Nel clima della guerra fredda, Mitchell ottenne poco più di un migliaio di voti. Quattro anni dopo, Shirley Chisholm, che nel 1968 era stata la prima donna afroamericana eletta al Congresso, cercò di conquistare la nomination del partito democratico per la presidenza.
Si piazzò solo al settimo posto nelle primarie, a causa del boicottaggio attuato contro di lei dagli esponenti democratici afroamericani, tutti uomini che in teoria avrebbero dovuto essere i suoi maggiori sostenitori.
I leader neri si risentirono perché Chisholm non li aveva consultati prima di scendere in lizza e la accusarono di non essere una portavoce adeguata degli afroamericani, in quanto aveva messo al centro del suo programma l’approvazione dello Equal Rights Amendment, una modifica alla Costituzione che intendeva vietare ogni forma di discriminazione basata sul sesso.
Cynthia McKinney
Il problema di rappresentare gli afroamericani tornò con la candidatura di Cynthia McKinney, un’ex deputata nera democratica della Georgia. Insignita della nomination del Green Party nel 2008, in un ticket tutto al femminile che schierava per la vicepresidenza la giornalista di origini portoricane Rosa Clemente, McKinney si atteggiò a vera voce degli afroamericani, in alternativa a Barack Obama, a cui rinfacciò di aver sacrificato le tradizionali richiesta della propria minoranza (come la denuncia della brutalità della polizia) per corteggiare il voto dei bianchi al fine di soddisfare le proprie ambizioni politiche.
McKinney stentò a convincere perfino gli elettori del suo partito. Al tempo il Green Party contava poco più di 300.000 membri. Ma, nell’anno del trionfo di Obama, come sua potenziale nemesi McKinney ricevette appena 160.000 voti circa, pari a meno dell’0,1% delle schede valide scrutinate.
Sul versante opposto di quella che l’intellettuale nero William E.B. Du Bois chiamava la linea del colore, non incontrò miglior fortuna la “bianchissima” Diane Beall Templin, dell’American Party, erede della formazione segregazionista creata nel 1968 dal governatore razzista dell’Alabama George Wallace. Templin raccolse la miseria di meno di 2.000 voti nel 1996.
Da comprimarie a protagoniste
Dal 1972 si è verificata una moltiplicazione di donne in lotta per la Casa Bianca, sia pure per conto di forze politiche secondarie.
Quell’anno il Socialist Worker Party ne candidò ben due, Linda Jenness ed Evelyn Reed, ovviamente in Stati diversi perché non si facessero concorrenza reciproca.
Da allora, fino al 2020 compreso, le candidature femminili nelle elezioni presidenziali di novembre sono state 43, incluse quelle di Templin e McKinney. Alcune di queste comprimarie hanno corso più volte, anche per partiti differenti, come è accaduto per Gloria La Riva, schierata da diverse formazioni della Sinistra nel 1992, 2008, 2016 e 2020.
Quella che ha ottenuto maggior successo è stata Jo Jorgensen, del partito libertario, che nel 2016 conseguì quasi due milioni di voti. La sua prestazione, però, passò in secondo piano rispetto agli oltre 65 milioni di voti che nella stessa tornata elettorale andarono alla democratica Hillary Clinton, la prima donna schierata per la presidenza da uno dei due partiti principali.
Il caso di Hillary Clinton
È stato quello di Hillary Clinton il vero precedente con cui confrontare la candidatura di Harris: medesimo il partito di appartenenza, quello democratico, medesimo l’avversario, Trump.
Clinton ottenne la nomination nel 2016 grazie alle pressioni del presidente uscente, Barack Obama, che indusse il proprio vice, Joe Biden, a non candidarsi, e alle manovre della leadership democratica, che mise fuori gioco il senatore del Vermont Bernie Sanders, popolarissimo presso la base del partito.
Per Obama si trattò probabilmente di saldare un debito di riconoscenza verso l’ex first lady, che nel 2008 lo aveva appoggiato dopo aver perso le primarie senza trascinare la sfida fino alla convenzione nazionale.
I dirigenti democratici, invece, si fecero condizionare dall’ex presidente Bill Clinton e dal timore che Sanders, eletto al Senato come indipendente, non fosse controllabile dal partito e avesse posizioni troppo progressiste, addirittura socialdemocratiche, per ottenere i consensi di un elettorato moderato il cui voto era ritenuto imprescindibile per conquistare la Casa Bianca.
Ma Clinton fallì miseramente. Dotata di scarsissima comunicativa e incapace di delineare in maniera compiuta quale fosse il suo progetto per il futuro dell’America, pensò che per sconfiggere un neofita della politica come The Donald fosse sufficiente una campagna negativa che si limitasse a stigmatizzarne populismo, sovranismo, razzismo, xenofobia e misoginia, senza articolare una visione alternativa per gli Stati Uniti.
Sappiamo tutti come andò. A privare Hillary del loro sostegno furono soprattutto i giovani, che la reputavano troppo legata ai poteri forti del mondo economico-finanziario, gli afroamericani, che le rimproveravano di dare per scontato il loro voto, e paradossalmente le femministe, per le quali era solo un’arrivista e un’opportunista perché, nonostante fosse stata tradita e umiliata pubblicamente da Bill ai tempi dell’affaire con Monica Lewinsky, avrebbe scelto di rimanere accanto al marito fedifrago per alimentare le proprie ambizioni presidenziali.
Somiglianze e differenze tra la candidatura di Hillary e Kamala
Come Hillary Clinton pure Harris è arrivata alla nomination in virtù di manovre interne al partito democratico che hanno visto protagonista ancora una volta Obama, postosi insieme a Nancy Pelosi a capo della cordata che ha indotto Biden a rinunciare alla candidatura sebbene avesse vinto le primarie.
Neppure Harris spicca per la capacità di condurre una campagna elettorale in ambito nazionale: aveva tentato di ottenere la nomination democratica per la Casa Bianca nel 2020 ma, con i consensi in caduta libera già alla fine del 2019, si era ritirata prima ancora che si aprisse la stagione delle primarie.
Anche Harris ha problemi con l’elettorato afroamericano, non con la componente femminile, che da tempo l’ha assunta a modello, ma con quella maschile: gli uomini non amano le donne in una posizione di potere e l’accusano per le condanne esemplari fatte infliggere a imputati neri nella veste di procuratrice generale della California tra il 2011 e il 2017, oltre che per l’opposizione alla scarcerazione di condannati per reati minori incruenti, in primis possesso di crack, al fine di ridurre il sovraffollamento delle carceri dello Stato.
Tuttavia, a differenza della candidatura di Hillary Clinton, l’annuncio di quella di Harris ha suscitato un entusiasmo incontenibile tra i democratici. Perfino la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, che aveva aspramente criticato l’incapacità di Harris nella gestione del dossier immigrazione, si è trasformata in una delle sue più accese sostenitrici.
Gli asset di Kamala
La popolarità di Harris deriva soprattutto dal semplice confronto con Biden. Lo dimostrano gli 81 milioni di dollari raccolti nelle prime 24 ore dal ritiro del presidente, frutto dell’immediato scongelamento dei contributi dei grandi finanziatori democratici che avversavano la ricandidatura di Biden.
Rispetto al grigiore e ai segnali di senescenza del precedente candidato in pectore del partito, qualunque alternativa si sarebbe stagliata come quella di un gigante della politica, in grado di restituire una speranza di successo agli occhi di un partito che sembrava ormai rassegnato alla sconfitta contro Trump.
Allo stesso modo, per gli elettori non convertiti al trumpismo, qualsiasi candidato con un minimo di buon senso, che nel caso di Harris include la formulazione di programmi chiari come quello per affrontare il carovita, sarebbe parso uno statista al confronto delle farneticazioni offerte quotidianamente dal tycoon.
Quest’ultimo risulta inviso a buona parte dell’elettorato femminile, memore del contributo dei tre giudici da lui nominati alla Corte Suprema al rovesciamento della sentenza Roe v. Wade che dal 1973 al 2022 aveva garantito il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza in ambito federale.
Non a caso, la convention di Chicago e il discorso di accettazione di Harris sono stati fortemente declinati al femminile, con particolare attenzione per la difesa dei diritti riproduttivi delle donne.
Nel 2016 le donne bianche dettero a Clinton appena il 45% dei loro voti. Ma, secondo un sondaggio dell’Associated Press dello scorso 19 agosto, il 49% di loro esprime oggi un giudizio favorevole su Harris.
In un’elezione che si profila con un margine di vittoria molto contenuto potrebbe essere proprio questa coorte a segnare la differenza e a fare di Harris la prima donna presidente, infrangendo — come ha affermato Hillary Clinton lunedì scorso a Chicago — “il più alto e resistente dei soffitti di vetro”.
Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).
Libri:
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle