Stalker di Tarkovsky nella critica del tempo

La zona della speranza

Mario Mancini
8 min readJan 15, 2024

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Film del 1979, tratto dal romanzo Picnic sul ciglio della strada di Arkadij e Boris Strugackij
Regia di Andrej Tarkovskij; Aleksandr Kajdanovskij (Stalker), Anatolij Solonicyn (Scrittore), Mykola Hryn’ko (Professore (accreditato come Nicolaj Grinko), Alisa Frejndlich (moglie dello Stalker
Premio della giuria ecumenica del Festival di Cannes del 1980
Durata: 2h 3m
Streaming: Prime Video

Ambiziosa, raffinata, stimolante allegoria di Tarkovski sulla sete di conoscenza e la paura della stessa. Lo Stalker è una specie di guida che, dietro compenso, porta le persone dentro i confini di una zona proibita, presidiata dai soldati. La ragione ufficiale è che il luogo è stato contaminato dalla caduta di un meteorite. Ma una leggenda popolare vuole che all’interno della zona ci sia una “stanza” dove ogni conoscenza e ogni desiderio vengono soddisfatti. Lo Stalker porta uno scrittore e uno scienziato alle soglie della “stanza”, dove però i due non osano entrare.

Stefano Reggiani

La zona

Stalker unisce la fantascienza morale di Solaris alle suggestioni dirette del linguaggio poetico che già scandivano i ricordi dello Specchio. Il padre di Tarkovskij, Arsenij, era un buon poeta; anche in Stalker si ritrovano suoi versi, come accompagnamento, alibi e incitamento alla sentenza morale.
Si immagina che nelle pianure dell’Urss (in un futuro remoto come un passato) sia caduta una specie di meteorite che emana raggi conturbanti i cui effetti non sono ben chiari. La polizia ha circondato la zona col filo spinato e impedisce a chiunque di avvicinarsi. Ma la Zona è diventata il miraggio di tutti coloro che non si rassegnano all’infelicità, alla bugia e al compromesso, di quelli, così rari, che vogliono ingenuamente la verità. Sembra che al centro della Zona sorga una casa in rovina e dentro la casa ci sia una stanza portentosa; chi vi entra vedrà esauditi i suoi desideri più profondi e sinceri.
Uno stalker, una guida, un cercatore di piste, conduce di tanto in tanto i visitatori coraggiosi oltre il filo spinato fino alla stanza misteriosa. Il film comincia con una spedizione singolare e simbolica: lo stalker accompagna nella zona proibita uno scienziato e uno scrittore, ciascuno spinto da un suo rovello intellettuale e emotivo.
Dentro una tundra acquitrinosa, dove affiorano oggetti e scheletri della civiltà industriale, attraverso un paesaggio che cambia di continuo per ingannare le prospettive e i percorsi, i tre giungono davanti alla porta della stanza dei desideri. È una vecchia stanza scrostata, aperta al respiro della pioggia.

Gli enigmi della zona

Perché non si decidono a entrare? Perché sono intellettuali, il loro compito è chiedersi le ragioni e valutare gli effetti. Lo scienziato ricorda che una guida precedente, chiamata “il maestro”, si uccise dopo una spedizione col fratello. Il fratello era morto lungo il percorso, parve per accidente. (Ma non era forse l’uccisione del fratello il desiderio più profondo del maestro?) Insomma: chi garantisce che i nostri desideri più veri siano anche i più utili, i più giusti?
Lo scienziato propone di far saltare con una bomba la stanza. Lo scrittore capisce che i desideri più elaborati non si possono tradurre in una richiesta semplice, sono il frutto di una ideologia. Quanto a lui, potrebbe chiedere la celebrità e il Nobel; ma ne varrebbe la pena? Sarebbe giusto?
La stanza non viene distrutta, i tre ritornano al loro piccolo villaggio ai confini con la Zona, la guida si mette a letto febbricitante, assistito dalla moglie e dalla figlia invalida, lo stalker è turbato, infuriato: gli intellettuali non hanno capito che la stanza dei desideri rappresenta il bene profondo, insostituibile, della speranza.

L’indispensabilità della zona

Chissà se qualcuno è mai uscito felice da quelle mura faticosamente raggiunte. L’importante è che ci sia la Zona, che essa esista come minaccia benefica sul mondo. Se distruggiamo la Zona, si chiede lo stalker, che accadrà degli altri, dei figli, dei popoli? Mentre egli geme nella febbre, la figlia invalida gioca pensierosa coi bicchieri sulla tavola, spostandoli con la forza del desiderio, piccolo mostro indecifrabile al confine del mondo.
Tarkovskij ha immerso la sua morale fantascientifica in una desolazione lunare e silenziosa, passando dal bianco e nero ai pallidi colori di una natura estranea perché non capita. Talvolta la vocazione narrativa del cinema soffre sotto le lunghe frasi di poesia, il film dura quasi tre ore, le parole e gli oggetti si rincorrono con allarme e insieme con lentezza, per non disperdere l’amaro intorno a una speranza che anche gli intellettuali rifiutano e che i politici circondano di filo spinato.

Da La Stampa, 14 maggio 1980

Tullio Kezich

Tratto da Picnic al ciglio della strada, un racconto di fantascienza dei fratelli Boris e Sera Arkadi Strugatski, questo film già mitico racconta il viaggio immaginario di tre personaggi nel cuore di una zona proibita, dove esiste una camera nella quale si possono esaudire tutti i desideri. Il gruppetto, guidato da uno “stalker”(letteralmente: colui che si avvicina di soppiatto), comprende uno scrittore ereditato dal versante nero di Cechov e uno scienziato disposto a diventare terrorista pur di negare l’esistenza dell’immaginario.
La metafora, chiaramente allusiva di una situazione storico-politica, è orlata di due figure più gentili: la moglie terragna e la figlia ritardata del protagonista. Quest’ultima si radica nella tradizione dei grandi idioti dostoevskiani, quindi è capace di smuovere le cose con la sola forza del pensiero.
Scandito sui tempi lenti del cinema di poesia, solo a tratti vagamente logorroico, Stalker riesce ad alonare di mistero le immagini più consuete: una linea ferroviaria che si perde nella campagna, una landa disabitata dov’è passata la guerra, i capannoni vuoti e i cunicoli di una fabbrica non più in funzione. Si pensa alla lezione di Godard in Alphaviile, solo che qui c’è un’estrema cura della perfezione stilistica: quasi a sublimare nella forma un groppo doloroso di passioni individuali e civili.
La scontentezza di Tarkovskij per il presente della società in cui vive si allarga in una visione insieme angosciata e pietosa dell’esistenza umana, facendo del film un tipico prodotto dell’anima russa.

Da Tullio Kezich, Il nuovissimo Mille film. Cinque anni al cinema 1977–1982, Oscar Mondadori

Giovanni Grazzini

Nel solco della tradizione spiritualistica russa

L’Infanzia di Ivan, Andrei Rublëv, Solaris, Lo specchio e ora Stalker: cinque film, cinque lodi al cinema di poesia. Nessun altro regista ha come Tarkovskij centrato il bersaglio ogni volta che si sia messo dietro la macchina da presa per esprimere i propri assilli di artista.
Sebbene Stalker non ci convinca appieno, il primato di Tarkovskij non sarà facilmente superabile. Venuta da tolstojane lontananze, la sua voce riecheggia la tradizione spiritualista russa, filtrata dal decadentismo e dalla polemica contro il materialismo storico, con un timbro di sempre altissima qualità lirica.
Non soltanto riscatta l’umanesimo banale di cui si riempie così spesso la bocca la cultura sovietica: segna un punto d’arrivo nel cammino dell’espressione contemporanea, ovunque sia intesa a dare forma, coll’immagine e il suono, ai grumi dell’inconscio.
Ma allora perché Stalker, per tanti versi mirabile, non ha compiutezza felice, e sembra azzardato seguire chi già lo paragona alla Divina commedia? Per qualche contorsione nel discorso, per qualche pesantezza e lungaggine, per l’ombra d’intellettualismo che sembra aduggiare la grandezza d’animo di Tarkovskij.

La metafora del viaggio

Il suo messaggio è antico, anzi perenne: la vera realtà è quella interiore, se nella vita non ci fosse il dolore non ci sarebbero nemmeno la felicità e la speranza, la forza del pensiero può muovere le montagne, chi ha paura di desiderare ha l’anima vuota. Ma è un messaggio praticabile con tormento: anche chi lo ha raccolto vive nella paura e nella contraddizione.
Mentre si offre come guida dentro il mistero, teme di penetrarlo. Vuole la felicità, e la sa irraggiungibile. Di più, s’inventa trappole per allontanarla. E tuttavia questa è la vita: un viaggio nel sogno della fede, compiuto da un eroe che la fragilità santifica, chiamato a trasmettere la potenza dello spirito.
Il senso dell’apologo, quanti altri mai autobiografico, è affidato a un racconto fantastico, al quale ha dato spunto la novella Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugatskij, venuti a sceneggiarla.
Vi si suppone che un puro di cuore, dunque un emarginato, lasci all’alba la sua stamberga dove vive con la moglie e la figlia paralizzata alle gambe (ma alla fine vedremo che tutta una parete del tugurio è vestita di libri) e guidi uno Scrittore e uno Scienziato in una terra di nessuno, la Zona, protetta da filo spinato e sorvegliata da guardie.
Lo chiamano Stalker da to stalk, andare di soppiatto sulle piste della selvaggina perché fa di mestiere il battitore clandestino nella Zona, né vuole desistere benché ne sia già stato punito con la galera.

… e la meta

La mèta qual è? Una Stanza che ha il magico potere, a quanto si dice, di realizzare i desideri. Il viaggio è molto rischioso, in un terreno seminato di residui bellici che si teme possano esplodere, fra piante che potrebbero essere velenose e putridi acquitrini.
I tre avanzano con prudenza e paura fra gli avanzi di una civiltà di turpi carcasse e fiori senza profumo. E durante il cammino svelano i propri caratteri: l’uno mondanamente incuriosito della novità che può rinverdire la sua ispirazione di scettico letterato, l’altro ambiziosamente rivolto a una conquista scientifica che gli dia fama, lo Stalker diviso fra il timore e la speranza che i suoi due clienti abbiano il coraggio di varcare la soglia prodigiosa.
Invece accade che, raggiunta una casa fatiscente dopo un lungo aggirarsi nei paraggi, nessuno si azzardi a entrare nella Stanza. Forse perché, se accadesse, l’umanità potrebbe realizzare le sue aspirazioni più segrete, in primo luogo la funesta volontà di dominio. O forse perché lo Scrittore e lo Scienziato (che ha rinunziato a farla saltare con una bomba) non credono più in nulla, nemmeno nella possibilità di avere degli ideali.
Per cui accade che, ritiratisi i tre dalla Zona, lo Stalker accusi e disprezzi i clienti, e rientri nella sua casa. Dove la moglie cerca di confortarlo e la bimbetta sposta gli oggetti col pensiero. Come dire che l’ignoto è accanto a noi, e la gioia (espressa dall’Inno di Beethoven) può essere colta nella coscienza del soprannaturale.

Lo spettatore a dura prova

Stalker è un film che mette lo spettatore alla prova. Perché è lungo oltre due ore e mezzo, ha sequenze lentissime, dialoghi enigmatici e molti simboli arcani. Ma anche perché ne saggia la sensibilità alle messinscene da fiato in gola e alla recitazione magnifica di Anatolij Solonitsin (che fu Rublev e qui è lo Scrittore), di Nikolaj Grinko (lo Scienziato), di Aleksandr Kaidanovskij (lo Stalker). Come già per Solaris, al quale in parte s’apparenta mentre formalmente riecheggia piuttosto Lo specchio, dobbiamo parlare di accorata magia, della suggestione raggiunta con uno stile che fa combaciare i reperti onirici ai trasalimenti della coscienza. Tarkovskij lo definisce «un western nel cervello», il che giustificherebbe l’ipotesi che tutto è frutto d’un sogno dello Stalker, ma come s’è detto l’elaborazione intellettuale del film non ne è il pregio maggiore. C’è da perdersi nel labirinto delle interpretazioni che si possono dare delle sue metafore, soprattutto sul versante psicanalitico per il tema dominante dell’acqua e per certi cunicoli uterini in cui i tre s’avventurano.

Abbandonarsi alla visione

Per godere appieno il film conviene perciò romanticamente abbandonarsi alla strumentazione scenografica dello stesso Tarkovskij, al paesaggio marcio della prima parte (in bianco e nero con riflessi glauchi), non priva di echi bergmaniani, ai colori sinistri della natura deturpata dai ruderi metallici, all’evidenza materica delle figure tanto spesso riassunta nel periplo del cranio, a una colonna sonora che è da sola un capolavoro per i suoi segnali allarmanti e la musica efficacissima di Eduard Artem’ev.
Benché la parabola manchi della divina semplicità, il racconto — tessuto anche con brani di monologo interiore e poesie di Tjutčev e di Arsenij Tarkovskij — è d’una coerenza figurativa senza eguali, fornito di valori pittorici e plastici che la creatività dell’autore esalta in ogni scena, ora memore dell’espressionismo ora incline all’iperrealismo angoscioso della fantascienza.
Più che una «summa» filosofica, Stalker è un album di emozioni estetiche, legato col filo nero del dolore. Un regalo di lusso per lo spettatore cogitabondo.

Da Il Corriere della Sera, 31 gennaio 1981

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.