Solaris di Tarkovsky nella critica del tempo

Follia e visioni nello spazio

Mario Mancini
10 min readDec 29, 2023

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Solaris

Film del 1972 tratto dall’omonimo romanzo del 1961 dell’autore polacco Stanisław Lem.
Regia di Andrei Tarkovsky; con Donatas Banionis (Kris Kelvin), Natal’ja Bondarčuk (Hari), Jüri Järvet (dottor Sgnaus), Anatolij Solonicyn (dottor Sartorius).
Premi: Grand Prix Speciale della Giuria al 25º Festival di Cannes.
Durata: 166 minuti.
Streaming:
Prime Video.

Qualcosa da tempo non va alla stazione scientifica orbitante attorno al pianeta Solaris: dei tre scienziati che vi lavorano, uno si è suicidato e gli altri due danno segni di squilibrio mentale. A indagare su quanto sta accadendo, viene inviato il dottor Kris Kalvin, uno psicologo di noto valore. Lo studioso scopre che Solaris è un pianeta magmatico e vivente che è in grado di materializzare i sogni e i ricordi degli uomini. Questa proiezione delle coscienze è all’origine del dramma degli astronauti ed anche lo psicologo cade vittima del meccanismo che comprometterà la sua missione.

Georges Sadoul

Solaris è un pianeta circondato da un oceano che materializza i pensieri, i ricordi, le ossessioni degli uomini. La fantascienza e il romanzo di Stanislav Lem diventano, dunque, in mano a Tarkovskyj, l’occasione per raccontare ciò che più gli preme: la materializzazione dei pensieri, la raffigurazione di ciò che abita la nostra mente in forma tangibile. Ed il ritorno alle radici, alla terra, alla casa, il finale che ci porta fuori dall’universo di Solaris, è molto meno rassicurante di quanto si potrebbe credere. Anche la casa, forse, fa parte dell’oceano di Solaris, e l’ultima sequenza ce ne dà quasi la certezza
Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

Walter Veltroni

Solaris è un film emozionante, strano, straordinario. Il suo tempo narrativo, la forza delle sue immagini, la complessità dei riferimenti di contenuto ne fanno uno dei capolavori della moderna cinematografia russa.
Lo scenario è inusuale per il cinema sovietico degli anni Settanta, il cosmo. C’è una piattaforma orbitante, teatro di strani fenomeni. C’è la perdita di sé degli astronauti, c’è la morte e la follia. E c’è la fantascienza usata come occasione per riflettere sul mistero della conoscenza, dell’inconscio, della ricerca delle ragioni dell’esistenza.
Solaris può apparire la risposta russa a quell’autentico capolavoro che fu, qualche anno prima, 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. I due film hanno in comune la stessa ambizione: fare di un racconto di fantascienza, qui di Stanislav Lem, lì di Arthur Clarke, una grande metafora filosofica, ambiziosa e profonda. Il film in Italia giunse colpito da vigorosi tagli, che ne ridussero il fascino. Il doppiaggio, però, conosce la presenza di Pier Paolo Pasolini nella parte del padre del protagonista. Giusto onore a un capolavoro non adeguatamente celebrato
Da Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1994

Giovanni Grazzini

La pietà

Prima di tutto, finché è viva, amare la moglie, o almeno non indurla al suicidio, per evitare che resuscitando dopo morte violenta crei gravi imbarazzi. Poi levarsi dalla testa che, prendendo l’abitudine ai viaggi nel cosmo, l’uomo possa fare a meno della madre terra. Infine un monito agli scienziati, perché la sete di conoscenza non soffochi in loro la pietà.
Questa, in parole poverissime, la morale della favola fantascientifica Solaris di Andrei Tarkovsky con cui l’URSS è scesa oggi in lizza a Cannes. Il film era atteso con grande curiosità, anche perché il «Leone d’oro» conferito nel ’62 a L’infanzia di Ivan, i molti bastoni messi dai burocrati moscoviti tra le ruote di Andrei Roblëv e il fatto che in dieci anni il regista abbia girato soltanto tre film, sono bastati a dare a Tarkovsky una sorta d’aureola. Più semplicemente noi diciamo che senza farne un martire egli merita grande stima e simpatia, e non soltanto per le difficoltà d’ordine politico attraversate in patria: proprio per la qualità della sua messinscena e il rigore delle sue strutture narrative, quali che siano l’epoca e il soggetto dei film da lui firmati
Tratta da un racconto del polacco Stanislaw Lem, quest’ultima opera è all’inizio ambientata, in un’imprecisata epoca futura, su due minuscoli punti dell’universo: l’uno chiamato Terra, l’altro Solaris dal nome del pianeta, tutto coperto di un oceano di plasma gorgogliante, che i terrestri stanno studiando per mezzo d’un satellite artificiale messogli in orbita già da molti anni.

Fantasmi reali

Poiché i tre scienziati che abitano il satellite mandano notizie confuse, come se fossero impazziti, da terra si spedisce sul luogo uno psicologo, il dottor Kelvin. All’arrivo lo attendono molte sorprese, fra cui la scoperta che i due scienziati superstiti (uno si è suicidato, lasciando un messaggio televisivo) vivono nel terrore per l’apparizione di esseri d’aspetto umano venuti dal nulla.
Sembrano di carne ed ossa, e invece sono soltanto i ricordi e i sentimenti dei cosmonauti, proiettati dal loro cervello sull’oceano di Solaris e da qui rimbalzati, materializzati sotto forma preferibilmente femminile, all’interno del satellite
Situazione, se la capite, avventurosa, tanto più quando lo stesso Kelvin si vede accanto la moglie, morta suicida dieci anni prima, e della cui fine egli si sente colpevole. Invano l’uomo, stupito e angosciato, tenta di sbarazzarsene chiudendola in un razzo e mandandola a perdersi nello spazio; essa gli si ripresenta, e lo scongiura, protestando il proprio amore e infilandoglisi nel letto, di non lasciarla più sola
Sino a questo punto il film di Tarkovsky è di altissima tenuta spettacolare, estremamente suggestivo per il senso di mistero che vi circola, per la limpidità delle sue soluzioni scenografiche, per l’ansia che trasmette.

L’unita di Terra e Solaris

D’ora in poi convince meno. Quando Kelvin, commosso dall’amore della donna, cerca di liberarsi del rimorso rivivendo in maniera diversa il passato, in modo da evitare che essa ripeta il suicidio, la nostra attenzione si sposta dall’avventura fantastica vissuta dai viaggiatori nel tempo al singolare rapporto sentimentale venuto a crearsi fra l’uomo giunto dalla Terra e il simulacro di sua moglie.
È una relazione che ha molti aspetti drammatici, perché la donna, pur avendo poteri miracolosi (abbatte porte d’acciaio e, nuovamente suicida, risorge), soffre con struggente sensibilità d’innamorata l’assurda situazione in cui si trova.
L’attrice Natalia Bondarciuk, figlia del regista, dà un bellissimo rilievo al personaggio. Ma qui il film, smarrito il timbro arcano venutogli dal clima di minaccia della prima metà, ripiega un po’ sul confronto psicologico, e ne deriva toni predicatori e moralistici tipici della fantascienza dell’Est. Riprende quota invece sul finale, quando definitivamente scomparsa la donna in seguito ad un esperimento basato su un elettroencefalogramma, sembra che Kelvin decida di tornare sulla Terra, e invece si scopre che la Terra stessa fa già parte dell’Oceano di Solaris, ossia esiste perché è pensata da qualcuno

Conclusione

Si direbbe, poco marxista; in ogni caso difficilmente decifrabile sui due piedi, com’era quella di Odissea nello spazio di Kubrick, film cui questo deve molto, e tale comunque da conferire al lungo spettacolo (circa tre ore) un sigillo di accorata magia.
Giacché il problema del rapporto fra morale e conoscenza qui è posto in termini un po’ ovvi, il maggior fascino di Solaris non deriva infatti dal suo contenuto filosofico, bensì dall’inquietudine che serpeggia in tutte le scene, siano ambientate sulla terra, ai bordi d’uno stagno marcito, o nel lucido satellite visitato dagli ospiti misteriosi.
Concedendo poco o nulla a chi cerca nel cinema di fantascienza macchine volanti e mostri di cartapesta, Tarkovsky ha l’intelligenza di collocare l’incubo e la speranza in un universo dove anche l’impossibile, l’impensabile e l’allucinante riconducono alla sofferenza dell’uomo. Preso nella morsa della fantasia, il suo spettatore esce col cuore che duole, dunque più ricco
Da: Il Corriere della Sera, 14 maggio 1972

Tullio Kezich

Film di fantacoscienza (secondo un azzeccato neologismo di Callisto Cosulich), tratto da uno dei più interessanti romanzi di fantascienza (pubblicato in Italia dalla Editrice Nord). L’autore, il polacco Stanislaw Lem, ha passato ha cinquantina, è un ex medico studioso di biologia e cibernetica: la sua recente fortuna nel mondo occidentale si deve proprio a Solaris.
In un certo senso si può dire che il film di Andrej Tarkovsky parte dal finale di 2001: Odissea nello spazio, cioè dalla constatazione che perfino nei pianeti più lontani l’uomo andrà soltanto alla ricerca di se stesso: cosmo uguale subconscio.
Quando il pubblico italiano vedrà Andrej Rublëv (1966), molti si accorgeranno che Tarkovsky è uno dei grandi cineasti della nostra epoca. Trattato dal regime sovietico con il sistema delle docce scozzesi, esaltato e sospettato secondo il variare della temperatura politica, il regista in Solaris dà vita a uno stupendo Kammerspiel spaziale, dove tre astronauti sono alle prese con gli ospiti angosciosi del loro passato che affiorano dall’oceano dell’Es (è un’idea non lontana da quella del romanzo L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy-Casares).
Con sapientissima semplicità, nel disordine e nella degradazione della stazione spaziale, il regista ci dà un quadro tormentato e scettico delle meraviglie del possibile, senza mai scostarsi dall’umanesimo della tradizione letteraria russa. Peccato che la versione italiana di Dacia Maraini, accanto a qualche stranezza come quella di prestare la voce di Pasolini al padre del protagonista, abbia mutilato il film di circa mezz’ora e nella parte più cara a Tarkovsky: il lungo prologo in terra, che nel romanzo di Lem non c’è.
Da: Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967–1977, Edizioni Il Formichiere

Adelio Ferriero

Cinque anni dopo Rublëv

Dopo (Rublëv, 1966) questa parziale dialettica si restringe ulteriormente in Solaris (l’edizione italiana, orrendamente ridotta e stravolta, consente solo qualche notazione incerta e approssimativa).
Come tutti i personaggi di Tarkovskyj, Chris ama la terra: i boschi fermi nella luce diffusa del giorno, le piante che scivolano e affondano lentamente sulle sponde di uno stagno, la pioggia improvvisa che flagella uomini e cose, le alghe sottili contese dallo scorrere del fiume.
È questo il preludio, non elegiaco, di Solaris: l’approccio è lento, contemplativo, ma lo sguardo fermo, appena incrinato dalla malinconia di chi si appresta a separarsi da un paesaggio noto, ma ritrovato, nell’atto di lasciarlo, nella sua corporea e pur sfuggente evidenza.

L’ansia di sapere

Se questa è una componente del personaggio, l’altra è la tensione della ricerca, l’ansia di sapere e di capire: «si tratta di stabilire i limiti della conoscenza», dice Chris al padre che avanza dubbi sul senso dell’impresa.
Ma nell’atto di svelarsi, il mistero terribile e pur semplicissimo di Solaris riporta Chris alla dimensione esistenziale e terrestre da cui egli presumeva lo separassero, ormai, milioni di anni luce: dall’”oceano” cosmico tornano, in forma di ambigue materializzazioni, ricordi, incubi, memorie, passioni non consumate che la coscienza respinge e censura.
Chris è ancora fortunato: la sua ospite è Chari, i visitatori dell’orgoglioso e razionale Sartorius sono mostri dimidiati e repellenti. Chari è la dimensione del passato, della memoria, dell’amore rifiutato per viltà e frustrazione (l’infinita stanchezza dell’uomo-bambino consolato dalla madre, con la sua bellezza misteriosa e ferma nel tempo: il bianco e nero dell’immagine, la soffusa oscurità degli ambienti rimandano a un grembo materno che accoglie ma “esclude”).
Nello spazio cosmico, nel confronto estremo con se stesso, senza “mediazioni” di sorta, Chris vive nel presente, ma enormemente astratto e dilatato, una passione retrospettiva e senza futuro.

La potenza annichilatrice di Solaris

L’“annichilatore” di Sartorius è già in grado di respingere gli “ospiti” nel silenzio da cui sono venuti e di imporre alla recalcitrante materia un ordine “umano”, anche se la circostanza che venga trasmesso l’encefalogramma di Chris, l’unico che abbia saputo stabilire un rapporto, sembra lasciare aperta la possibilità di un’intesa.
Anche Solaris è dunque una severa, fluente reincarnazione metaforica dell’“umanesimo” dolente e polemico di Rublëv: il conflitto tra esistenza e cultura, inconscio e razionalità tecnologica, “mistero” e “scienza”, si snoda con ritmo pacato e lentissimo, apparentemente uniforme e monotono, in realtà ricchissimo di tensioni interne (si vedano le sequenze rapide e frammentarie dei sogni-ricordi) e di “impudenti” aperture liriche (il leggero movimento dei corpi di Chris e di Chari sospesi nel vuoto, un momento di serenità perfetta e struggente).

Il passato nel futuro

Che questo lungo poema lirico-figurativo e la sua dolente conclusione (con il ritorno del protagonista alla casa del padre, lo stringersi muto alle ginocchia del vecchio e la camera che si allontana isolando, in quell’infima lacuna del mondo, le due figure) abbiano poi il fiato corto, potrà anche essere vero.
Così come potrà sconcertare l’assenza totale (che non è certo “omissione” di poco conto) della mediazione storica. E invece, sappiamo, i nodi vengono sempre al pettine.

Nella metafora di Tarkovsky, l’“annichilatore” di Sartorius evoca atroci mutilazioni del passato (e del presente), più che non ipotesi avveniristiche. E Chari, che vuole vivere la propria possibilità strozzata ieri dagli uomini oggi dalle macchine, suggerisce riferimenti inquietanti, drammi non scontati.
La “storia”, respinta dalla struttura e dalle modalità apparenti del racconto, ne rioccupa le cavità profonde, ne modella le pieghe e orienta i procedimenti.

L’immortalità dell’energia

Anche se Tarkovsky sembra tentato, mentre disegna la sua vasta e immobile metafora, da un’altra, e più arrischiata, lusinga, da una sorta di misticismo animistico della materia, la misteriosa immortalità dell’energia sprigionata da uomini e cose, e dal loro declinare e morire: l’immagine, ricorrente come un segnale indicatore, del fuoco di sterpi bruciati dal bambino, al quale si accompagna la visione del misterioso, lavico, oceano di Solaris, un mare di righe concentriche che si allargano e restringono.
Ma il volto di Chris, dolorosamente intento a scrutare quei remoti segnali, è uno specchio che riflette soltanto dubbi e interrogativi. È una grande stanchezza interna che si comunica a tutte le cose e figure che attraversano o sfiorano la sua esistenza.

Conclusione

Come dare torto all’accademico Smelkov (cfr. “tavola rotonda” di “Voprosy literatury” sul film, tradotta in «Rassegna sovietica», n. 3, 1973) quando lamenta che «la fermezza degli eroi di S. Lem, il loro sofferto ottimismo, la loro volontà, nonostante tutto, di conoscere l’Universo, tutto questo è sfuggito al film»?
Ma la spiegazione di questo, e di altro, non andrà cercata nelle stelle. Solaris parla della terra, della storia, e magari del socialismo, anche quando non ne parla, o fa mostra di non parlarne. Il modo potrà piacere o no, ma le deplorazioni moralistiche non servono, rientrano nell’“orrore” che il film, a suo modo, respinge.
Da: Cinema Novo, 1972

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.