Silicon Valley: la religione del tecno-ottimismo

Ne progressisti né conservatori, ma militanti nel potere sociale della tecnologia

Mario Mancini
8 min readOct 25, 2019

di Margaret O’Mara

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Ci siamo già occupati di Margaret O’Mara, docente di storia all’Università di Washington a Seattle, e autrice del libro, The Code. Silicon Valley and the Remaking of America.

Adesso vi proponiamo la traduzione di un contributo sulla ideologia politica degli imprenditori e dei tecnologi della Silicon Valley, adepti del tecno-ottimismo in missione per conto di Dio. Sentono poca empatia, anzi alcuni sono propri agnostici, per le conseguenze delle loro azioni il cui fine è percepito come teso al bene comune.

Nella loro etica totalitaria c’è un macchiavellismo sottotraccia sulla positività del loro fine che obnubila ogni altro aspetto sul mezzo per raggiungerlo. Una condizione distopica che si è vista altre volte in azione nella storia, e le cose non sono andate bene. Lasciamo però spazio alle tesi della signora O’Mara.

Il suo intervento è stato pubblicato sul “New York Times” con il quale la O’Mara collabora come contributing writer. Qui il lettore italiano potrà trovare i passi salienti del suo articolo. Buona lettura!

Il tecno-ottimismo della Valle

Elon Musk durante un call con gli analisti. Lo spumeggiante capo della Tesla è uno dei più convinti tecno-ottimisti della Valle.

La Silicon Valley ha una sua ideologia politica. Non è né liberale, né conservatrice. Neppure libertaria, nonostante le abbondanti copie dei romanzi di Ayn Rand sparse nei cubicoli delle start-up di Palo Alto.

L’ideologia è il tecno-ottimismo. Cioè la convinzione che la tecnologia e i tecnologi stiano costruendo il mondo nuovo e che il resto del pianeta, compresi i governi, debba stargli dietro. E questo credo arde intensamente nelle menti dei siliconari, per niente intaccato dai sempre più agguerriti avversari della tecnologia nella vulgata sviluppatasi tra San Francisco e San José.

“Tocca a noi tutti, insieme, sfruttare l’enorme energia della tecnologia a beneficio di tutta l’umanità”, ha detto il capitalista di ventura Frank Chen in un discorso del novembre 2018 sull’intelligenza artificiale.

“Stiamo costruendo un progetto per la conquista dello spazio”, ha dichiarato, la scorsa primavera, Jeff Bezos nel presentare il progetto per un lander lunare.

Elon Musk, che alcuni considerano alla stegua di uno piscopatico, ha recentemente dichiarato ai sempre più inquieti azionisti di Tesla, “Farei tutto questo se non fossi ottimista?”. Ottimismo, appunto, a tutto spiano.

… e fu amore tra politici e tecnologi

Il futurologo e scienziato Vannevar Bush ha scritto il manifesto del tecno-ottimismo con il suo “Science, the Endless Frontier”.

Ma questo fenomeno non riguarda solo la Silicon Valley. Il tecno-ottimismo ha radici profonde nella cultura politica degli Stati Uniti, segnata dalla fiducia nell’ingegno americano e nel progresso tecnologico. Ricordare queste radici storiche è cruciale per la discussione sul modo di contenere il potere apparentemente illimitato dei Big Tech.

Il linguaggio tipico del tecno-ottimismo fece la sua apparizione, per la prima volta, nella retorica politica americana dopo la seconda guerra mondiale. “Science, the Endless Frontier” era il titolo del rapporto vertiginosamente tecno-ottimista scritto nel 1945 da Vannevar Bush, il principale consigliere scientifico dei presidenti Franklin Roosevelt e Harry Truman. Un documento che dette il là a investimenti pubblici e spese senza precedenti in ricerca e sviluppo da parte dello Stato, particolarmente da parte dei militari.

Dalle prugne ai chip

Il Presidente John Kennedy continuò la politica dei predecessori di sostegno pubblico all’industria tecnologica con finanziamenti e commesse. Questa tradizione fu interrotta negli anni ’70 da Richard NIxon.

Quell’ondata di denaro trasformò la Santa Clara Valley, la valle delle prugne, nella valle delle macchine da calcolo. Trasformò anche la modesta realtà della Università di Stanford in un campus di aziende tecnologiche, popolate di ingegneri, di tecnologi e laboratori. Dwight Eisenhower riempì la Casa Bianca di consiglieri che chiamò “i miei scienziati”. John Kennedy, annunciando l’America’s moon shot, nel 1962, dichiarò che “l’uomo, nella sua sete di conoscenza e progresso, è determinato e non può essere scoraggiato”.

In un discorso del 1963, uno dei fondatori di Hewlett-Packard, David Packard, ripensando alla sua vita durante la depressione e a quella in cui viveva, attribuì gran parte del merito dell’immenso avanzamento all’innovazione tecnologica non ostacolata da interferenze burocratiche. Spiegò meglio:

Radio, televisione, telescrivente, editoria scientifica offrono alla maggior parte delle persone in tutto il mondo informazioni dettagliate su ciò che sta accadendo ovunque in campo scientifico e tecnologico. Gli orizzonti si aprono, nascono nuove aspirazioni.

… e poi divorzio tra politici e tecnologi

La generazione successiva a quella dei pionieri della Silicon Valley, pensava che il contributo maggiore del governo allo sviluppo della tecnologia fosse quello di starne fuori.

L’umore, però, cambiò negli anni ’70. Le spese militari diminuirono e l’intervento del governo cadde in disgrazia. Richard Nixon sciolse il consiglio consultivo scientifico insediato alla Casa bianca. Quindi incoraggiò l’imprenditoria del settore privato a prendere la guida dello sviluppo tecnologico e colmare il vuoto lasciato dal pubblico.

È quello che accadde negli anni ’80. Una nuova generazione di tecnologi prese, in effetti, il posto di guida. Gli uomini e le donne che hanno costruito aziende come Apple e Atari credevano esclusivamente nel potere della tecnologia e nella loro capacità di promuoverla.

Mettendo un computer su ogni scrivania e attivando la comunicazione in rete, giovani come Steve Jobs pensavano di potere rimediare ai fallimenti e alle ingiustizie della società.

In una intervista del 1984 disse “la mia generazione ha perduto il Vietnam, la lotta per i diritti civili, ma ha il Macintosh per cambiare il mondo”.

Questi imprenditori avevano un’idea radicalmente diversa dai repubblicani che erano stati stai i protagonisti della prima ondata high-tech della Valle. Il Vietnam e il Watergate avevano infranto la fiducia nelle istituzioni governative. Il governo non era più il mecenate e il cliente più importante della tecnologia. Invece, era diventato un simbolo delle cose che erano andate male, di stagflazione, burocrazia e corruzione.

I bastardi del governo

Il disprezzo era palese. “Non ho mai votato per un candidato alla presidenza”, dichiarò Steve Jobs nel 1984. “Non ho mai votato in tutta la mia vita” disse in modo schietto Charlie Sporck, capo del National Semiconductor. Aggiungendo: “Ero antigovernativo e vedevo tutti i politici come un gruppo di bastardi.”

Quando persone influenti come Jobs e Sporck andavano a Washington, peroravano la causa dei tagli fiscali e della deregolamentazione. Non chiedevano più investimenti in scienza e tecnologia, come succedeva con la generazione precedente.

I loro atteggiamenti palesavano una sempre più decisa ed estesa insofferenza nei confronti del governo. Questo stato d’animo è molto più importante della diffusione dell’etica libertaria per comprendere la cultura della Silicon Valley.

Reagan: lasciamoli lavorare

Ronald Reagan condivise l’istanza del “governo minimo” con la generazione di Steve Jobs e di quella successiva.

I leader politici del tempo amplificarono e rafforzarono questo tipo di messaggio. “Questi imprenditori e le loro piccole imprese sono responsabili di quasi tutta la crescita economica negli Stati Uniti”, dichiarò Ronald Reagan nel 1988. “Sono i primi motori della rivoluzione tecnologica”.

Il tecno-ottimismo si è evoluto insieme alle due ideologie principali del Paese. I tech-conservatori, fautori del governo minimo, a cui Reagan aveva dato la sua benedizione, si sentorono traditi dal Partito repubblicano di George W. Bush che stava promuovendo nelle politiche pubbliche il conservatorismo sociale. E allora passarono in massa ai democratici.

Verso i democratici

Sotto la presidenza Clinton la Valle inizia a spostarsi verso i democratici che si impegnarono a fondo nella promozione di Internet.

Una nuova generazione di legislatori democratici decise di dare priorità all’alta tecnologia. Bill Clinton lavorò con la Silicon Valley per dare forma alla politica di Internet e si mise alla testa di iniziative per chiudere il “digital divide”.

Quasi che fosse la soluzione principale alla questione della disuguaglianza economica. Al Gore entrò nel CdA di Apple, anche se Jobs non aveva votato per lui.

Barack Obama si mosse nella stessa direzione. “Che magnifica cattedrale! Tutti voi ci avete aiutato a costruirla”, dichiarò, alludendo alla gente della Valle, in un discorso del 2015 sulla cybersecurity tenutosi Stanford.

Il ritorno del dinosauro geneticamente modificato

Quindi, quando Mark Zuckerberg di Facebook parla di “avvicinare il mondo”, non dice qualcosa di nuovo che strappa un “vow”. Sta semplicemente costruendo una narrazione sopra un sistema di convinzioni e di tradizioni che è vecchio di decenni. Un archetipo che è istrada la mente dei legislatori di entrambe le parti.

L’idea è ancora quella di mezzo secolo prima: i computer in rete sono strumenti di liberazione (anche se non è del tutto chiaro chi venga liberato da cosa). Più connessioni, maggiore trasparenza e tecnologia più potente “renderanno il mondo un posto migliore” (anche se non è del tutto chiaro cosa sia meglio o per chi).

Quando le più potenti società tecnologiche della Valle fanno orecchie da mercanti alle richieste di riforma dei politici, snobbando la minaccia di sanzioni e iniziative antitrust, seguono le orme dei loro eroi. Questi credevano che la cosa migliore che il governo potesse fare per la tecnologia era quella di togliersi dalle p…..

Ancora più tecnologia, non meno

E nonostante la reazione bipartisan al Congresso contro i Big Tech, i politici non si sono allontanati molto dalla loro fede nel tecno-ottimismo. Politici e legislatori guardano all’industria tecnologica come volano dell’economia.

Fors’anche per “salvare” alcune città manifatturiere e industriali dal declino grazie a centri di formazione e ricerca e ad hub logistici sul tipo di quelli di Amazon.

Quando il Congresso richiede ai social media di trovare soluzioni tecniche all’incitamento all’odio, o alle ingerenze elettorali, c’è sempre un sottotesto. Questo: non meno tecnologia, bensì una tecnologia diversa e migliore.

… ma i tecnologi sono naif in politica

Una certa ingenuità politica della Silicon Valley impedisce di affrontare nel giusto modo il rapporto con le istituzioni che diviene centrale quando son in ballo questione come la guida automatica o l’intelligenza artificiale.

C’è ancora molto orgoglioso tecno-ottimismo in America, ma le falle della Silicon Valley sono evidenti. L’avversione alla politica ha lasciato i leader della tecnologia impreparati ad affrontare gli ostacoli istituzionali che disturbano l’adempimento dei loro sogni tecno-ottimisti. Per esempio come persuadere le città a finanziare l’infrastruttura per le auto senza conducente o come costruire il consenso sui cambiamenti climatici, senza i quali la tecnologia dell’energia pulita potrebbe non avere senso?

L’America non ha bisogno di un’altra “Science, the Endless Frontier”. Ha bisogno, invece, di una ferma determinazione per affrontare alcune delle maggiori sfide del mondo e per riconoscere che il governo, come pure l’industria, dovranno adeguare le proprie priorità per affrontare queste sfide.

C’è molto lavoro da fare.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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