Serie: Le interviste “filosofiche” di Steve Jobs
Il computer, la bicicletta della mente
Ecco Hegel fare il suo ingresso a Palo Alto!
Evgeny Morozov
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Presentazione della serie
Un filosofo?
«… il filosofo del XXI secolo». Con queste parole si chiude il brillante, intelligente e stimolante saggio (2012) di Evgenij Morozov su Steve Jobs. Propriamente, Steve Jobs non era un filosofo. Almeno non lo era nel senso occidentale del termine. Non ha mai scritto qualcosa di simile alla Critica della Ragion Pura o a Essere e tempo. Se proprio si deve buttare sulla filosofia, Jobs era più un filosofo nell’accezione orientale; la filosofia era il suo stile di vita.
Che però Jobs abbia qualcosa a che fare con la filosofia non è un’idea così peregrina. Nel 2015 Shaw Kelin ha curato un corposo volume dal titolo Steve Jobs and Philosophy (Popular Culture and Philosophy), Chicago, Open Court, 2015. Il volume ospita 17 contributi di studiosi e accademici che approcciano il “pensiero” di Steve Jobs da svariati punti di vista.
Indubbiamente Jobs era un uomo con una visione del mondo. Cercava di svilupparla, invero con molte contraddizioni e alle volte in modo disturbante, nelle sue azioni quotidiane, fossero questa la progettazione di un “prodotto rivoluzionario” o la scelta di una lavatrice o di un’auto.
Era cresciuto nell’autunno della controcultura di San Francisco e alla fine era approdato alla conclusione che il computer fosse il più formidabile vettore di cambiamento del suo tempo. La bicicletta della mente. Difficilmente manca nelle sue interviste e nei suoi interventi pubblici la parola “rivoluzionario”.
Jobs non era un nerd, come non lo erano i fondatori della Silicon Valley o il suo socio Woz, era un hippie. La tecnica o l’informatica lo interessavano poco. Lo interessava la tecnologia e quello che si poteva realizzare, nel corpo sociale, con la tecnologia. Cioè cambiare il mondo. Poi questa cosa è diventata un ritornello stucchevole di tutti gli startuppari che riescono ad arrivare a una briciola di notorietà.
Un missionario?
Nella famosa intervista a “Esquire” del 1984, Jobs spiegò il significato del computer per la sua generazione: “Abbiamo perduto l’appuntamento con il movimento dei diritti civili e la guerra del Vietnam, ma abbiamo avuto il Macintosh”. La dichiarazione è così paradossale che veramente può far pensare a un arrière-pensée. E può essere davvero una mistificazione come i molti detrattori di Jobs dicono.
In una delle lunghe chiacchierate con il biografo Isaacson, Jobs ha confessato che era convinto, come poi è davvero successo, che gli anni del suo rientro in Apple e dell’avvio di Pixar, lo avrebbero ucciso. Scrive Isaacson che, nel 1997–1998, Jobs tornava a casa così esausto che non riusciva quasi a parlare. «Fu probabilmente allora che cominciò a crescermi dentro il cancro, perché il mio sistema immunitario all’epoca era un colabrodo» ha confessato Jobs al suo biografo. Forse in questa totale abnegazione, che pretendeva anche dai suoi “uomini”, c’era davvero lo spirito di martirio di un missionario.
Morozov scrive correttamente che Jobs era convinto che la tecnologia (cioè il computer) portasse in sé “il seme di un comportamento morale”. E c’era veramente qualcosa di filosofico in questa convinzione. Il più profondo filosofo del Novecento, Martin Heidegger, lo ha postulato decisamente quando Jobs aveva appena 5 anni: “le conseguenze della tecnologia sono tutt’altro che tecnologiche”. Sono infatti, di pertinenza della metafisica.
Sull’improbabile confronto tra il grande pensatore tedesco e Steve Jobs, Christopher Ketcham ha imbastito un tête-à-tête immaginario, moderato da un ugualmente immaginario Walter Cronkite, sulla questione della tecnologia. Questo frivolo esercizio di stile è ospitato nel già citato libro curato da Klein Shawn.
Un prestigiatore?
Dispiace che Evgney Morozov, una delle menti più brillanti in giro, abbia intitolato il suo saggio Contro Steve Jobs. Perché non è contro Steve Jobs. Forse la sua scelta o, più probabilmente quella dell’editore — come del resto lo erano quelle di Steve in altri campi — è stata dettata da un intento di marketing editoriale.
Scrive Morozov:
«Il marketing — con la sua superficialità e la sua tendenza fraudolenta a manipolare il consumatore — di norma dovrebbe essere relegato allo stadio inferiore dell’apparenza, ma nella metafisica degli affari di Jobs ha sempre rivestito una funzione diversa: ha giocato il ruolo per così dire evangelico di mostrarci la via verso prodotti veri, naturali e puri, non ancora guastati dall’ethos soffocante e privo di gusto di aziende anonime come Ibm o Microsoft.
Che Jobs abbia potuto lanciare campagne contro il capitalismo utilizzando le armi preferite del capitalismo — e farla franca, per giunta! — è davvero degno di un mago, non c’è che dire…»
Il fatto che Steve Jobs si sia avvalso del marketing e del design per portare il suo credo al popolo non ha niente di repellente, come pensa invece Morozov. E neppure il fatto che, grazie ai suoi prodotti e alle sue narrazioni, si sia arricchito ha qualcosa riprovevole. A meno che non si considerino il marketing e la ricerca del successo economico di per sé un male.
Il marketing è qualcosa di indispensabile nella dinamica delle società moderne. Si insegna persino nelle università cattoliche. I consumatori non sono dei buoi pronti ad abbeverarsi alla sorgente aromatizzata del marketing. Tutt’altro. Se cerchi di imbecherarli è quando il messaggio torna sulla groppa.
Quanto all’arricchirsi, lo stesso Stalin incitava i contadini kulaki a farlo, in modo non molto dissimile da Deng Xiaoping o Gordon Gekko. L’arricchirsi può essere anche un atto etico quanto il cedere la ricchezza.
Non c’è nessuna malvagità nel fatto che una “filosofia applicata” veicolata dal marketing possa incontrare lo Zeitgeist (un concetto che piace molto a Morozov) e bucare il proprio tempo. E Jobs ha davvero bucato lo spirito del proprio tempo.