Scritto e parlato

Franco Fortini

Mario Mancini
6 min readApr 5, 2022

Vai alla serie “Il secolo di Pier Paolo Pasolini. La questione della lingua e altre questioni”

1. Scrittura e intonazione

Si sa che la parola scritta non sta a significare quella parlata ma è un linguaggio grafico che a proposito di un linguaggio fonico ci dichiara qualcosa. In questo e in quello si riproduce il rapporto fra i due: c’è un grado «scritto» del parlato e uno «parlato» dello scritto. Ma i sussidi grafici capaci di significare le intonazioni sono scarsi: ai qui la supplenza offerta dalla sintassi scritta e da particolari figure del discorso.

Dov’è più forte l’intento espressivo più si fa impiego di segni ortografici e tipografici e più frequenti si fanno le figure. Dove più forti sono invece gli intenti comunicativi decresce la importanza delle intonazioni. [Le opere di poesia sono anche tentativi di estendere ad un intero organismo complesso l’imitazione metaforica di una complessa intonazione affettiva quale nei suoi particolari si compie quotidianamente in qualsiasi passaggio dal parlato allo scritto].

Accade così che certe pagine di poesia anche se folte di suggerimenti per l’intonazione guadagnano alla lettura visivo-mentale perché l’intonazione è stata tutta trasferita nella scrittura: per questo anzi ogni dizione di quelle non può non essere interpretazione e nuova creazione che o si accetta come tale o infastidisce.

È il caso dei sonetti del Belli. Pagine invece che coprono l’espressione sotto apparenze comunicative tendono a ridurre al minimo le tracce dell’intonazione: per questo chi le legge ad alta voce conferirà solo un minimo di espressione e parlerà come «un libro stampato». E il caso delle prose di Leopardi.

Tanto si dice perché i confini di classe penetrano lo scritto come il parlato. Privilegio non è la lingua scritta o la scrittura della lingua ma un dato grado di formalità e organizzazione della lingua parlata o scritta in quanto diventi inseparabile dalle ideologie dominanti e ancor più dalle strutture che le fondano. Non confondiamo situazione di classe con situazione di privilegio. La mano di chi tocca ai rapporti fra classe e linguaggio sia piuttosto leggera.

2. I minimi vitali

Da diversi anni scrivo in italiano e penso proprio che per migliorarne l’uso scritto qualcosa può essere fatto. Bisogna sapere però in che genere di scrittura. Quella della poesia e della narrativa ha la tendenza a vendicarsi di ogni partito preso. Il linguaggio è la sua materia più che il suo strumento e difficilmente fornisce risultati generalizzabili. I poeti possono essere utili alla lingua se non sono o non sono considerati soltanto poeti. Petrarca e Manzoni sono modelli di lingua indipendentemente dalla loro verità poetica. Della influenza linguistica quella sarà solo il veicolo.

Si possono invece immaginare interventi in tutta una serie ai scritture che vanno dal giornalismo alla saggistica. Ne fa parte questa pagina. Sono la grande maggioranza percentuale delle parole lette dai nostri concittadini nel libro di scuola e nell’articolo del giornale come nelle opere storiche o nelle cane pubblicitarie. La scrittura saggistica è comunicativa ed espressiva. Con la sua forma ambigua contesta ogni separazione. Non è pensabile fuori di un contesto sociale obiettivo ma ha la forza di percussione delle pronunce soggettive. È la prosa.

Queste varietà di scritture sopportano i precetti che i manuali di bello scrivere non impartiscono più. Dovrebbero impartirli perché a scrivere chiaro e utile si può imparare. Se non si vuole si dovrebbe star zitti o essere molto geniali.

Apro un dizionario e m’avvedo che se non per intenti espressivi particolari o necessità tecniche esso è per tre quarti fatto di parole ed esempi impraticabili senza ironia o vergogna. Ironia e vergogna sono però diventate in pratica smorte grazie stilistiche. Si provasse a lavorare con minimi lessicali cioè con parole povere e vitali. Usarne due invece di una se questa è troppo antiquata o popolaresca o troppo moderna o rara.

Scorciare le ali alla grammatica. Castigare i casi obliqui dei pronomi relativi. Buttar via l’eccesso di tempi e modi. Spostare sulla sintassi il centro di gravità della scrittura. Giocare sulle possibilità espressive della sintassi ma semplificando quella del periodo. Spiantare incidentali e parentetiche è ottima guerra. Risparmiare è buona politica.

Questi consigli hanno secoli. La novità non è qui. La novità è che il settore del linguaggio da riformare davvero è quello delle strutture dell’argomentazione. Modi e sequenze e nessi dell’esporre sono o no fatti del linguaggio? Mai capiti di leggere uno scritto che ne tratti. Ogni primo venuto parla di linguistica. Nessuno che discorra di logica. Saggistica e pubblicistica letteraria medie sembrano scritte a voce alta: citazioni da poveri ricchi e tecnicismi non necessari.

È difficile trovare fra chi ha meno di cinquant’anni una scrittura saggistica che non si stenda in cadenze umanistiche o non si carichi di minuterie cromate. Quasi soli, Sergio Solmi e Italo Calvino sanno scrivere i loro saggi in modo da far capire quel che dicono. Nausea della melensa scrittura tardo-crociana ha per vent’anni diffuso un linguaggio che su di un fondo fluido emotivo svagato senza controllo o verifica possibile fa navigare un numero grandissimo di tecnicismi: non senza somiglianza con molta narrativa e poesia.

Talvolta imposta dal profitto e più spesso dalla notorietà la fretta si trucca da libertà geniale. Poi si vergogna e impara qualche paroletta scientifica. Crede così distinguersi dai padri professori di belle lettere.

Perché la nota e la recensione oppure l’articolo e il saggio non devono cercarsi regole? Perché non debbono esser costruiti anche a partire da una idea dei destinatari come destinatari di idee?

Il disprezzo per il lettore è eguale alla certezza della impunità. Con l’applauso di maestri lungamente malvissuti i più trovano giornali per la stampa e pubblico per la stima. Gli stranieri ridono delle nostre riviste letterarie. La Francia di questi ultimi anni non ha gran che da ridere ma perfino una pagina artificiale come quella d’uno Starobinski mostra pur sempre un disciplinato esercizio dei nessi fra i periodi e quel giuoco di contrappesi che come tutta l’arte retorica è un virtuoso omaggio del vizio alla virtù.

Sarebbe certo preferibile il rozzo gergo della nostra critica letteraria militante o di buona parte di essa se davvero si volesse rozzo e non invece molto delicato.

Riforma delle odierne scritture vuol dire anche repressione della genialità. Ci vuole un controllo della loro necessità pratica. Se la censura non c’è bisogna inventarla. E si rispettino coerenza formale e chiarezza come eminenti virtù. Un poeta russo del secolo scorso che Kruscev amava spesso citare e che si chiamava Nicolaj Alekseevic Nekrasov scrisse che «poeta puoi non esserlo — cittadino devi esserlo».

Si smetta di vantare diritti alla pubblica e vitalizia venerazione della propria ignoranza in nome d’un romanzo o d’una poesia ben riusciti. A discorrere di queste questioni del linguaggio i primi hanno da essere gli specialisti. Bisogna ascoltarli soprattutto se sono noiosi. Basta metterli in guardia dalla frequente tentazione di ammiccare alle grazie letterarie e di voler parere di buona compagnia mondana.

Selezionare sistematicamente il lessico ed esplorare la sintassi come sopra si è detto può farlo solo uno di quei gruppi di controllo e reciproco consiglio che nella storia delle nostre lettere talvolta non sono mancati. Avesse accesso ai mezzi di larga diffusione uno di quelli potrebbe portare anche rapidamente modifiche notevoli nella coscienza linguistica d’una parte della società.

Altrettanto e più importante è però l’altra operazione: rimettere in dignità cioè sottoporre a pubblica critica perché diventino praticabili dunque coerenti ai loro fini le forme della letteratura di comunicazione e persuasione. È il vecchio sogno di vedere gli scrittori applicarsi nei nodi veri e decisivi della lingua scritta: una nota critica o un libro scolastico come un articolo di giornale o un volume di saggi debbono essere correttamente eseguiti. Tanto meglio se possono poi essere anche intelligenti e nuovi.

P.S. — L’autore di queste righe impara dove può. Per renderle più svelte ha omesso tutte le virgole: primo esercizio per chi vuole eseguire volteggi a corpo libero.

Da: Dialoghi con Pasolini. Scritti 1957–1984, a cura di Alberto Cadioli, Roma, Editrice «l’Unità», 1985 pp. 67–71

Franco Fortini (Firenze 1917 — Milano 1994) Espulso, in seguito alle leggi razziali, dall’organizzazione universitaria fascista, dopo l’8 settembre 1943 ripara in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Dal 1945 si stabilisce a Milano, che diventa sua città d’adozione e dove oltre all’insegnamento svolge molteplici attività di copywriter, consulente editoriale, traduttore. Nel frattempo diventa docente universitario di Storia della Critica all’ Università di Siena. Ha attraversato la problematica dell’ermetismo, per arrivare presto a una forma di marxismo critico che lo ha collocato in una posizione fortemente polemica, sia verso l’establishment letterario, sia verso le neoavanguardie, tra le cui file si è mosso. Le sue poesie fino al 1983 sono raccolte in tre volumi (Una volta per sempre. Poesie 1938–1973; Paesaggio con serpente. Poesie 1973–1983; ll ladro di ciliege e altre versioni di poesia). Un ultimo e bellissimo libro, Composita solvantur, è uscito sempre con Einaudi pochi mesi prima della morte. Pier Vincenzo Mengaldo ha curato il volume Poesie inedite (1997). Fortini ha anche tradotto testi di Proust, di Brecht e di Kafka.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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