Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini nella critica del tempo

Mario Mancini
59 min readFeb 19, 2021

--

Vai agli altri film della serie “I film Pier Paolo Pasolini nella critica del tempo”

”C’è qualcuno che si ribella, ma appena appena, in modo incosciente: soltanto uno, ed è il punto culminante del film, muore chiudendo il pugno”. Pier Paolo Pasolini

“Faccio un film perverso per protesta contro la perversione che è ormai dappertutto”

Pier Paolo Pasolini

«La “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico; anzi, tale violenza sui corpi è diventata il dato più macroscopico della nuova epoca umana.»

Pier Paolo Pasolini

…. un film atrocemente comico

Tullio Kezich

“Salò un’opera unica, imponente, angosciosa e insieme raffinatissima, che resterà nella storia del cinema mondiale”

Mario Soldati

“Dio, Dio, perché ci hai abbandonato?”

L’urlo finale della ragazza immersa nel liquido fecale

L’ultimo film di Pier Paolo Pasolini si rifà al celebre romanzo di de Sade trasportandolo al tempo della Repubblica di Salò. È un’amara favola sul potere che uccide e schiavizza.

Quattro Signori (il Duca, il Monsignore, Sua Eccellenza e il Presidente) al tempo della Repubblica Sociale di Salò si riuniscono in una villa assieme a 4 ex prostitute ormai non più giovani insieme a un gruppo di giovani maschi e femmine catturati con rastrellamenti dopo lunghi appostamenti. Nella villa i Signori per 120 giorni potranno assegnare loro dei ruoli e disporre, secondo un regolamento da essi stessi stilato, in modo assolutamente insindacabile dei loro corpi. La struttura del film è divisa in 4 parti: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue.

Italo Calvino

Le 120 giornale di Sodoma è uno dei più tipici libri del marchese de Sade per la metodicità sistematica con cui e costruito: e un catalogo delle perversioni sessuali più strane, raccontate da quattro cortigiane come episodi della loro carriera professionale, a quattro depravati signori che ogni tanto provano a mettere in pratica le esperienze narrate su di un serraglio (cosi è chiamato) di otto giovinette e otto giovinetti, e altri accoliti d’ambo i sessi: in tutto una corte di quarantasei persone. rinchiuse per quattro mesi in un castello della Foresta Nera.

Lo schema del libro non è dissimile da quello canonico del Decamerone: le narratrici raccontano cinque (brevi) episodi ogni giorno per centoventi giorni, per un totale di seicento casi di perversione. Ma solo trenta giornate sono state scritte da Sade per disteso: delle altre l’autore ha dato un piano dettagliato con riassunti di poche righe per ogni caso, così come ha lasciato la contabilità precisa dei personaggi massacrati via via durante le orge: in numero di trenta, divisi tra le varie categorie.

Se insisto sulla regolarità dello schema formale, è perché nel determinare lo spirito del libro essa ha almeno altrettanta importanza della illimitata sregolatezza del contenuto. Il cercare d’esaurire l’orrendo e l’atroce attraverso una sistemazione ordinata e certo uno tra i principali moventi che spingono Sade a scrivere.

Nello stesso tempo si può dire che tra i libri di Sode Le 120 giornate è uno dei meno sadici, perché non le perversioni crudeli vi predominano ma quelle ripugnanti. O per meglio dire: sevizie e massacri abbondano nelle giornate di cui abbiamo solo i riassunti, mentre nelle trenta giornate raccontate per disteso il tema che domina ossessivamente è quello dell’ingestione d’escrementi. Calcolando che sui seicento casi di perversione registrati più della metà hanno a che fare con gli escrementi, perfino Gilbert Lely, che dell’opera letteraria di Sade è il più fedele studioso e apologeta, trova questa parzialità mostruosamente esagerata.

La monotonia dei particolari ripugnanti non è dunque fatta per rendere attraente la lettura. Le centoventi giornate di Sodoma considerato il più terribile libro del più terribile degli autori, appartiene certo alle opere più nominate che lette veramente. E questo credo sia vero anche oggi che in Francia il libro è passato dalle edizioni rare a una diffusa collana di tascabili. Anch’io che mi sforzo di parlarne con la maggiore precisione, devo ammettere di non aver avuto la costanza di leggerlo per intero, e la stessa cosa m’hanno detto tutti i lettori di Sade che conosco. Ma pur saltando, mi ha molto interessato seguire i meccanismi del libro, le strutture portanti, capire come è fatto, come funzionava questa macchina inarrestabile che era la mente di Sade.

In questo senso Le 120 giornate è un testo d’un interesse unico perché è una prima stesura, scritta di getto in trentasei giorni (a detta dello stesso autore) e contenente le note che Sade inseriva come promemoria per le correzioni che intendeva apportare durante una revisione che non poté più compiere. Insomma in questo testo vediamo insieme tanto un prodotto estremo della meccanica dello scrivere. quanto il funzionamento della macchina stessa durante la produzione.

Già In storia del manoscritto è straordinaria. Sade scrisse Le 120 giornate nel 1783 mentre era prigioniero in una cella della Bastiglia. Quattro anni dopo, nel saccheggio della Bastiglia, il manoscritto scomparve e Sade non poté più ritrovarlo, ma non andò mai perduto e se ne possono seguire le tracce in Francia e in Germania per centocinquant’anni, fino a quando fu acquistato da un grande collezionista francese (che il caso vuole fosse un diretto discendente della famiglia Sade). Fu allora possibile la sua prima pubblicazione integrale, compiuta nel 1935.

Questo manoscritto è un oggetto straordinario in sé: pur poter meglio, nascondere le sue pagine di carcerieri, Sade scriveva su un lunghissimo rotolo di carta sottile, che aveva lui stesso messo insieme incollando uno dopo L’altro i bordi superiori e inferiori di centinaia di fogli. Anni or sono, ho avuto la rara ventura d’avere tra le mani questo manoscritto, grazie alla gentilezza della signora (figlia del collezionista) che lo custodisce in un illustre palazzo di Fontainebleau. Il rotolo è fittamente scritto sia sul verso che sul retro e per la sua migliore conservazione è consigliabile di tanto in tanto srotolarlo nel senso opposto. Durante questa operazione ho avuto modo di percorrere con lo sguardo da cima a fondo questo fiume di scrittura fittissima, diritta, regolare, di righe tutte uguali, ben ai lineate, senza una cancellatura, senza un’aggiunta, senza un pentimento.

Per chi come me scrive con una media di tre, quattro cancellature per ogni riga, c’è da restare a bocca aperta. Questa prima stesura (stando alle annotazioni di Sade dobbiamo crederla tale) è un testo che parla solo di scatenamenti delle pulsioni più inconsulte si presenta come un prodotto dell’ordine mentale più freddo, e cristallino e lineare. Tra i tanti aspetti ardui della vita e dell’opera di Sade, questo è per me il più misterioso e straordinario.

Continuo a parlare del libro di Sade «dal di fuori» me ne rendo conto. Ma e questo il mio modo d’avvicinarmi a capire che cosa c’è dentro , che cosa significa veramente. Col suo film Pasolini sembra invece deciso a farci guardare l’interno di Sade dal di dentro. Ma è davvero cosi?

Il principale difetto del film di Pasolini Salò o le 120 giornate di Sodoma è la poca chiarezza dell’impostazione. Il coraggio di presentarci immagini ripugnanti non basta a dare senso a un film: ci vuole anche la decisione dì stabilire quale effetto queste immagini si propongono. La mia impressione è che Pasolini sia rimasto incerto tra tre o quattro impostazioni possibili del film e non abbia osato affrontare la sola che avrebbe avuto un senso. Ne è venuto un film che è fedele alla lettera di Sade più di quanto sarebbe stato necessario ed è troppo lontano dallo spirito di Sade per giustificare questa fedeltà letterale.

Per prima cosa devo dire che l’idea di ambientare il romanzo di Sade ai tempi e nei luoghi della repubblica nazifascista mi sembra pessima da ogni punto di vista. La terribilità di quel passato che è nella memoria di tanti che l’hanno vissuto non può essere usata come sfondo per una terribilità simbolica, fantastica, costantemente fuori dal verosimile come quella di Sade (e giustamente rappresentata in chiave fantastica da Pasolini). Intendiamoci: anche la terribilità di Sade è vera e credibile, ma su un altro piano, quello dell’ipotesi mentale e della finizione letteraria che toccano qualcosa di nascosto nell’animo umano e nella società. Molto mi è dispiaciuto veder apparire su di un cartello stradale il nome d’un paese dove avvenne davvero una strage spaventosa, Marzabotto. L’evocazione dell’occupazione nazista non può non risvegliare un fondo d’emozioni che è proprio tutto il contrario della paradossale spietatezza che Sade pone come prima regola del gioco ai suoi personaggi ma anche ai suoi lettori.

Sempre d’attualità è il problema del sadismo degli apparati di repressione, in un mondo in cui molti paesi praticano ancora normalmente la tortura sui detenuti. Ma Sade si presta male a questo discorso, lui che si ritrasse inorridito di fronte, alla crudeltà del terrore, cioè di fronte al sadismo divenuto ufficiale e legale. Se il film aveva tra le sue intenzioni la denuncia della violenza politica oggi, il ricorso a Sade non poteva che allontanare da questo obiettivo. Ma certo il punto non era quello.

Meglio delineata la impostazione di denuncia sociale: prendere quattro figure di personaggi seri e autorevoli, tutto quanto vi è di più rispettabile, come potrebbero essere giudici o alti funzionari o professori e mostrare che se i loro più segreti desideri si realizzassero assisteremmo a uno scatenarsi di turpitudini mai viste. L’idea non è certo nuova, diciamo che questo è il tema esplicito o implicito di buona parte della narrativa degli ultimi due secoli. Se è questo che il film vuol dire, cioè un impiego di Sade al fini d’una prevedibile polemica sociale, sarebbe qualcosa, ma certo poca cosa, per tutta la carne che mette al fuoco (fuor di metafora).

Oppure dobbiamo vedervi un capovolgimento di Sade ancor più radicale, un Sade visto dalla parte delle vittime? Anche questo c’è nel film, certamente, e sarà in questo aspetto che il pubblico dei precedenti film di Pasolini ritroverà gli accenti suoi più noti.

Il punto di maggior movimento narrativo del film si ha quando si scopre che nella piccola folla sbigottita delle vittime ognuno nasconde un suo segreto amoroso che lo aiuto a sopravvivere. Sono i ragazzi che si denunciano a vicenda sperando di salvarsi la vita. E questo è un segno della corruzione che il potere diffonde; ma ciò che si scopre è anche un’irriducibile riserva d’istinti vitali che si manifestano in tenerezza e calore umano e che l’oppressione non riesce a soffocare. Questo motivo (di cui mi pure che non ci sia traccia in Sade) è cinematograficamente efficace, ma si chiude assai presto con un’immagine che a me pare d’un retorico monumentale: il giovane nudo che muore assassinato levando il braccio co) pugno chiuso.

Certo Pasolini ha voluto lasciare qualche porta aperta per una lettura del film ottimistica, «umana» incoraggiante (cosi anche il finale, è la morte della pianista). Ma non c’è proporzione tra questa visione ideale e quel che il film ci mostra veramente. La sostanza del film non può stare in episodi consolatori confinati al margine, ma nella sua rappresentazione d’un mondo ripugnante e corruttore. Se una verità il film ci deve mostrare, dobbiamo cercarla lì e non altrove.

Ricorderò che Sade si preoccupa d’escludere dalle giornate di Sodoma ogni pauperismo o miserabilismo; e proprio per questo stabilisce che le sedici vittime siano tutti govinetti e giovinette di nobiile famiglia. Ma molto però insiste sulla corruzione attraverso il denaro. Ed è proprio questo il punto che Pasolini lascia in ombra.

Ora, il solo modo di rendere credibile e attuale la relazione che si stabilisce tra i quattro perversi signori e la loro corte era mettere in evidenza che essa ha per suo principale strumento il denaro. Solo cosi Pasolini sarebbe arrivato a parlare del tema fondamentale del suo dramma: la parte che il denaro aveva preso nella sua vita da quando era diventato un cineasta di successo.

Questo è il dramma della corruzione come sistema: questa è la sostanza dell’opera di Sade, ma che Sade esprimeva con una feroce euforia, mentre in Pasolini è disperazione. In questa disperazione, in questo ribrezzo della corruzione che contagia ogni cosa, sta la verità del film. Ma la mancanza di chiarezza interiore obbliga Pasolini a una serie di manovre diversive, a tingersi come bersaglio un «potere» che più egli cerca di determinare storicamente più si fa astratto e generico, a accusare tutto il mondo di corrompere e lasciarsi corrompere, tranne se stesso.

Sarebbe bastato riconoscersi per un momento nel mondo che egli accusa per far trovare al film una misura e una linea. E solo cosi avrebbe ritrovato il senso di Sade, il quale si guardava bene dal mettere in gioco i nostri buoni sentimenti quando si tratta di compiere l’operazione opposta: aprire gli occhi sul mondo tenebroso che è in noi. Un effetto «morale» da Sade si può ricavare solo se la denuncia tiene il suo indice puntato non sugli altri ma su noi stessi. Il «luogo dell’azione» può essere solo la nostra coscienza.

Da Il Corriere della Sera, 30 novembre 1975

Giovanni Grazzini

Rileggendo in questi giorni L’innocente di D’Annunzio, vi trovo un pensiero che sono tentato di applicare al Salò di Pasolini: “Ahimè, quante volte noi crediamo sentire la verità in una voce che mentisce! Nulla ci può difendere dall’inganno”. Penso alla verità dell’arte, ma anche alla trappola in cui può essere caduto il povero Pasolini e che può contenere, o non contenere, il film: così ambiguo, così sconcertante a chi non sappia troppo giocare con le parole, e apportatore per tutti di malessere profondo, sembrandomi il suo ultimo modo di usare l’immagine del male per condannarlo.

Mi chiedo se la ricerca della verità, che egli indubbiamente perseguiva con assillo furibondo, non fosse ormai guidata da una fantasia così ossessionata dal turpe da impedirgli di possedere il reale. Mi sento molto vicino a quanti, suoi amici, oggi si adoperano perché la sua fine appaia sotto una luce non ignobile.

Dopo aver visto Salò, l’ipotesi che Pasolini sia andato volontariamente in cerca di qualcuno che lo suicidasse in uno scenario sentito come luogo canonico della desolazione mi sembra rafforzarsi. Il suo film, voglio dire, avvalora il dubbio che negli ultimi mesi Pasolini non sapesse più guardarsi da quella forma di autodistruzione, di separazione dalla realtà, di fuga dalla storia, che si esprime da un lato nella frenetica predicazione di assenti sociali utopisticamente regrediti e dall’altro nell’anarchico rifiuto dell’idea di potere, tenuto esso stesso per trionfale espressione dell’anarchia.

Doveva esserci una dissociazione tragica, risolta nel delirio letterario, in un Pasolini che mentre rimpiangeva “il tempo del pane”, tornando a contemplare il mondo qual è denunciava la vocazione dei suoi protagonisti subalterni, umili e casti, a essere con la loro passività complici delle aberrazioni dei potenti, sboccando così in un nichilismo nel quale forse si esprime l’impotenza di molta cultura contemporanea a reggere la difficoltà di vivere.

Perché altrimenti Pasolini, col suo grande talento di artista, avrebbe scelto di ispirarsi, fra mille opere e mille esempi, a pagine della storia letteraria che per quanto possano essere interpretate come una rivolta metafisica non cessano perciò di restare un mito repellente, un rifiuto della ragione e dell’amore?

Pasolini sapeva bene che l’immagine ha una concretezza sconosciuta alla parola, e che il simbolismo del marchese De Sade, una volta portato sullo schermo, non avrebbe potuto serbare la sua carica di scandalo intellettuale, ma prodotto un disagio fisico e morale in cui il fascino del male sarebbe stato maggiore del suo orrore.

Se lo ha fatto, credo è perché la nausea di sé, complice e vittima egli stesso del consumismo del sesso, lo induceva al più tetro “cupio dissolvi” che possa albergare in chi è costretto ad arrendersi dinanzi alla violenza corruttrice di quel potere che Pasolini considerava la negazione della storia e che invece è inerente alla sua stessa nozione. Perché la storia dell’umanità è la storia del potere, e viceversa.

Salò trasferisce al 1944–45, nel clima della Repubblica sociale italiana, le vicende narrate nelle Centoventi giornate di Sodoma, scritte da Sade, esattamente centonovanta anni fa, in una cella della Bastiglia, e per la prima volta pubblicate, non a caso da uno psichiatra, nel 1904. Il film si apre su quattro personaggi (un’eccellenza, un presidente, un monsignore, un duca) che firmano un regolamento, da loro redatto, nel quale si prevede il cerimoniale delle pratiche cui si apprestano a dedicarsi.

Di che cosa si tratti veniamo a sapere ben presto: appena rastrellati fra le campagne e sottratti a famiglie e collegi, adolescenti dei due sessi vengono raccolti in una villa, selezionati, e costretti ad assistere e partecipare ad azioni nefande, compiute su di sé e su di loro dai quattro signori e dalle guardie del corpo in divisa repubblichina.

Perché l’atmosfera si scaldi, tre vecchie ruffiane d’abito e movenze eleganti (scendono scale come Wanda Osiris) raccontano a turno, accompagnate al piano da un quarta, nel corso di tre gironi intitolati alle manìe, alla merda e al sangue, le maggiori perversità di cui sono state testimoni e protagoniste nel corso della vita: di un professore che si faceva masturbare dalle bambine, di un ministro che associava il piacere al culto degli indumenti carbonizzati, di un generale che amava mangiare escrementi, e via insanendo.

I quattro signori, secondo il programma, ascoltano i racconti con crescente agitazione, pretendono ogni dettaglio, sovente li interrompono per metterne in pratica i passaggi più scabrosi. Il film ci mostra così, senza veli, mani maschili che afferrano i giovani ospiti, li sbottonano, li piegano alle loro voglie, li trascinano nei cessi, coram populo li violentano, e se occorre li oltraggiano sino alla morte.

Alle ragazze innocenti si dà lezione su un manichino, e se taluna scoppia in lacrime la festa è più eccitante. Accade che i pranzi, serviti da giovani nude, si chiudano con brindisi sodomitici commentati da canzoni della grande guerra, che si celebrino falsi matrimoni intervallati da dibattiti culturali, e che i giovani siano costretti a comportarsi da cani.

La vetta si tocca durante un banchetto di nozze nel quale vengono servite feci umane fumanti, e tutti ne mangiano, quando si indice un concorso per il culo più bello (primo premio, la morte), e tre dei signori, travestiti da donna, sposano altrettanti ragazzi.

Dopodiché bisogna punire quanti fra i giovani hanno violato la legge che proibiva rapporti fra sessi diversi. Una catena di delazioni porta i signori a scoprire che molti hanno compiuto infrazioni al regolamento. Siano dunque castigati immergendoli in un catino di sterco e sottoponendoli agli affronti più crudi. Chi sfugge al capestro, alla fiamma e alla garrota verrà accecato e scuoiato.

Gli aguzzini assistono a turno allo spettacolo da lontano, muniti di cannocchiale, e la vista delle perfidie è pretesto per nuove delizie. Due danze chiudono il film: fra tre carnefici, che intrecciano un balletto da avanspettacolo, e fra due ragazzi che affettuosamente parlano di fidanzati. L’unica che non ha retto è la ruffiana pianista, gettatasi dalla finestra.

Che Salò sia fedele alle Centoventi giornate, e che quindi non si debbano attribuire alla fantasia di Pasolini le sue infamie, importa poco. Nemmeno intimidisce l’operazione critica che sarà compiuta, in una bella gara di intelligenze, per affermare il valore libertario di questo catalogo di follie, con il prevedibile elogio della bellezza dell’inferno: dato ricorrente in una cultura che esorcizza la paura della propria sterilità celebrando le virtù dei porcili.

Tanto meno l’accusa di non saper controllare i meccanismi moralistici indotti dalla tradizione. Ciò che sgomenta è il ricatto di cui tutti siamo vittime dinanzi a un film sul quale è quasi impossibile esprimere un giudizio che in qualche modo prescinda dalla morte violenta del suo autore, e non lo correli alla provocazione, esplicitamente cercata, di un Pasolini prigioniero del proprio ruolo in una società che digerisce ogni scandalo.

Le sue intenzioni si conoscono. Egli intendeva compiere una metafora delle nequizie cui conduce il potere, quali gli sembravano esprimersi soprattutto nel rapporto sessuale sadico. In qualsiasi potere, insisteva Pasolini, c’è qualcosa di belluino, che porta al possesso dei corpi, usati come oggetti. I delitti nazifascisti nei mesi di Salò ne sono l’esempio storico più persuasivo, ma oggi se ne ha la riprova nei crimini del consumismo.

I veri anarchici sono sempre quanti manovrano le leve di comando: la storia non esiste, odio i corpi e gli organi sessuali, odio il sesso divenuto, da gioia e libertà per gli umili in epoche repressive, atroce espressione di violenza in epoche permissive. “Faccio un film perverso per protesta contro la perversione che è ormai dappertutto”.

Mi chiedo questo: se la protesta non sia contro la perversione ma contro la vita stessa, se l’odio di sé non spingesse Pasolini a un supplizio autopunitivo in quel fango che a lungo era riuscito a intellettualizzare, aiutato dalle mode letterarie, ma del quale aveva misurato (anche per il complesso di colpa creatogli dal successo del cinema decameronico) l’irreparabile ribrezzo.

Io non sono affatto sicuro che la ruffiana la quale si getta dalla finestra non sia il simbolo della coscienza di Pasolini. Mi sembra certo invece che il cammino della sua ricerca espressiva, volta a stilizzare la degenerazione in una specie di sacra rappresentazione del laido con elementi di sinistra comicità, sia stata frenata da ingorghi personali, dalla quasi maniacale venerazione di riti troppo vissuti o sognati per potervi ironizzare senza straziarsi le carni.

Lasciamo perdere l’immagine di Salò come asilo di pazzi, sebbene anche quella parentela fra il castello svizzero del Seicento in cui Sade aveva ambientato le fiabesche “Giornate” e la “Villa Triste” dei repubblichini confermi la sfiducia di Pasolini nell’analisi storica. È che gli spunti sarcastici del film, riassunti nelle barzellette idiote che i quattro signori ogni tanto si raccontano ma anche nell’irridente invito d’una ragazza a sopportare ogni ingiuria facendo un fioretto alla Madonna, sono annullati nello stupore che Pasolini, sotto l’apparenza di un’ occhio glaciale, prova nell’esibire le svolte del male. Il suo pessimismo giunge a inglobare le vittime, non tutte spaurite dal satanismo dei padroni.

Viene il sospetto che egli abbia più odio per quei giovani corpi inermi, esposti dalla stupidità dell’innocenza a ogni oltraggio, che per i loro carnefici, strumenti d’una fatale demenza.

Mai come di fronte a Salò si misura l’assurdo del crinale fra bello e brutto, buono e cattivo. Il distacco di Pasolini dalla sua terrificante materia essendo intermittente, il film ha nel contempo la sacralità d’un mistero blasfemo, narrato come un sogno mentale di assoluta coerenza, e la bassezza del cinema osceno che dell’accumulo di immondizie fa, a seconda della tollerabilità dello spettatore, un elemento stilistico o un fattore di tedio umiliante.

Con molte intuizioni narrative, quali il rapporto fra la squisitezza triviale dei racconti e la matta bestialità delle azioni, le pitture “degenerate” di cui i mostri si circondano, l’uso di sfatte bellezze per le parti delle ruffiane di lusso, la musica che accompagna le orge, il silenzio delle torture finali e certe parentesi assorte, ma anche con civetterie quali la bibliografia sadiana offertaci nei titoli di testa e strappi di gusto quali l’attribuire a uno dei quattro carnefici una voce molto simile a quella di Aldo Moro, il battezzare Gentile e Missiroli alcuni campioni di sadismo, e far salutare col pugno chiuso una delle vittime.

Salò è un film privo di gioia erotica, e per paradosso anche privo di volgarità, ma dove la luce dell’intelligenza di Pasolini è appannata da un’ideologia della sconfitta. Non saprei dar torto a chi, respingendo il ricatto d’una cultura che spesso si sposa allo snobismo, si dolesse di veder affidato a Salò il testamento di Pasolini. Il marchese De Sade si augurava, morendo, che la sua memoria scomparisse dallo spirito degli uomini. Forse Pasolini ha sperato che, avviato al suicidio universale, il nostro mondo traesse dal suo film il coraggio di buttarsi. Per rinascere come?

Da Corriere della Sera, 16 novembre 1975

Edoardo Bruno

In effetti Salò o le 120 giornate di Sodoma si definisce, immediatamente, come uno spazio chiuso, in cui Pasolini ha inserito la sua “rappresentazione”. Questo vuoto immaginato, in cui il tempo si ritira dalla Storia, non ripete i segni descrittivi di Sade (celle, baratri, sotterranei) e si estende nella visione di una fiction, dove il nero castello di Durcet diviene una villa, con stanze semplici e disadorne, luoghi deputati di una scrittura borghese.

In questo universo (la “cittadella impenetrabile” di Sade) solo i rumori della pioggia e delle Fortezze Volanti danno il senso dei fuori, della Natura e della Guerra, che rende possibile questo Assoluto, questo arbitro di “scelleratezze”, che è il fascismo, nei suo sublimarsi in Salò (ma anche nei suo quotidiano “riproporsi” come Potere “che manipola i corpi in modo orribile, (…) trasformando la coscienza dei mondo peggiore; istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi, che sono i valori del consumo”).

Opera metaforica Salò si tiene saldamente legata al discorso politico-poetico di Pasolini, alla definizione del mondo moderno, “affrontato in tutto il suo orrore”, fuori da ogni dimensione realistica, oltre il linguaggio significante, in un’aura poetica che rifiuta ogni belluria e incide, fortemente, l’immagine in una livida e densa illuminazione. Salò è stato un momento fortemente dato della nostra Storia, l’a-ideologia che detiene il potere, l’assoluta anarchia, come dice Curvai, il momento dei Vuoto, quando tutto è possibile e “qualsiasi cosa, più folle ed inaudita, la più priva di senso, diviene immediatamente legata”; ma è anche l’indicazione simbolica di una dilatazione di potere che, anche oggi, fuori dalle aberrazioni più evidenti, sottilmente si insinua.

Pasolini getta Io sguardo allucinatoriio su un tempo, in ogni caso, presente e si muove con la libertà dell’invenzione, correlandosi a giudizi e scritti precisi — di Bataille, Blanchot, Barthes, Soliers — proprio per definire anche “testualmente” questa sua costante presenzialità.

Lo spazio chiuso diviene così — oltre la cittadella — la definizione di un “assoluto terribile”, Io spazio di una visione, dove la gestualità si fa rito opprimente, teatro di se stesso. li tempo è definito da connotazioni fortemente ancorate alla Storia, dalla rievocazione di un nome — Salò o Marzabotto — dalla rappresentazione di azioni — il rastrellamento dei giovani — dall’impiego di costumi — le divise, i vestiti — perfettamente inseriti nella violenza ritualizzata di quegli anni; ma è sufficiente un’impercettibile incrinatura, ad esempio, la citazione di Klossowski sul modello di Dio, per mettere in moto tutta una serie di significanti a spirale, per fare oscillare, paurosamente, l’identità ritrovata tra una realtà e una meta-realtà, occludendo il passaggio remoto ed aprendosi a sensi immediati.

La rappresentazione come metafora della reiterazione (“la reiterazione è indispensabile perché il morto rinasce a livello della mostruosità”) diviene metafora della violenza, diviene Rito di un potere metafisico, irresistibile “scellerato” e al tempo stesso Avvertimento, Profezia di una insidia presente.

Le immagini si iscrivono nella reverie, sono l’immaginazione fantastica, nella ottusa insensatezza della ripetizione continua, il rumore di fuori sottolinea il silenzio di dentro, il rimbombo delle parole, delle risa nervose, delle grida inquietanti. La diegesi si fa totalizzante, nello spazio assediato: la rappresentazione converge verso la fiction, ogni piano è tenuto distante dall’obbiettivo, in coincidenza di un montaggio alternato, in una segmentazione, che si distende nello spazio, senza prolungati movimenti di macchina, con brevi panoramiche, che ricompongono l’unità ideale.

Quando in un silenzio di orrore, il Presidente reclama l’esigenza di una risata, Helène Surgére e Sonia Saviange ripropongono la finzione del loro film Femmes, Femmes con la rappresentazione di Commedia e Tragedia. È un momento allucinante, violento, che conferma la direzione di una scelta anacronistica, di una invenzione tutta costruita e irreale, di un elaborato di segni.

E tutto è segno, nell’universo di Salò: l’elemento causale delle riprese spontanee, che tendono al realismo, qui dà posto al rigore della costruzione perfetta, che tende all’assurdo. L’irrealismo trasferisce tutto sul piano dell’allegoria; come in Porcile e con ancora più esattezza formale, ogni dato si inscrive in questo universo formalizzato, che non lascia posto alla lettura lucida, al piacere sensuale, alla jouissance. È purtuttavia tutto il film recupera il piacere del segno, il tratto concluso, il disegno metaforico, che rimette in circolazione le idee di un magma atroce di perversità ritualizzate.

La struttura verticale, che ripete il “verticalismo teologico” dell’inferno di Dante, chiude il film in una tensione unitaria e tende a costituire una serie di piani contigui, che conferiscono il senso della circolarità dei giorni (girone delle manie, della merda e del sangue) in una fredda specularità rovesciata. L’interno assorbe la chiusura dello spazio, sino a divenire luogo ossessivo di logiche operazioni, di fredde e simmetriche situazioni, prive di razionalità, dove la logica che prevale è la logica dei rito e io spazio, come staccato dai tempo, diviene un assoluto claustrofobico, dilacerato in due punti:

1) l’improvviso canto corale, che si leva a tavola, durante il primo banchetto (“sul ponte sventola bandiera nera”) che reintroduce, improvvisamente, il tempo richiamando la “realtà” che è fuori della diegesi e facendo convergere il fuori e il dentro. Riduzione di convergenza dentro la quale si ritrova il segno di una interpretazione ideologica, il senso di una coincidenza tra passione e forma, l’indicazione di un vero più vero del vero, dove il “dato” fascismo coincide con il senso inane e agghiacciante di una a-ideologia, che si esibisce in tutto il suo orrore significante;

2) nella notte delle delazioni, quando il giovane, sorpreso ad amare la serva negra, viene ammazzato a colpi di pistola, il pugno chiuso, che si leva in segno di sfida, è una indicazione che c’è ancora una speranza laica (mentre il grido delle ragazze, affondate nel mastello di merda, “Dio perché ci hai abbandonate” risuona nel silenzio di un mondo senza cielo).

La diegesi di Pasolini si costruisce nello spazio ristretto della visione oculare, la specularità rovesciata dà un’impressione agghiacciante a queste immagini, che sembrano venire da uno spessore infinito, dove il grido e il dolore non sono audibili che come suoni immaginari, (Le strofe poetiche di Ezra Pound, poste a commento, sembrano le parole di uno speaker e sono il rifiuto della poetica della consolazione, come pure i quadri novecentisti, impiegati come decorazione negli interni borghesi).

Lo spettatore della “soluzione finale” ha i segni stilistici delle immagini silenziose di Dreyer, la Piatta angoscia dei sogni, la scoperta ansiosa di spazi infiniti. Il binocolo che si rovescia, allontanando le immagini, in una distanza abbissale, dà la misura del gioco ottico, della irrealtà, dei diaframma assoluto. La tragedia è compiuta.

La messa in scena delle 120 giornate di Sodoma si conclude come nelle precipitanti ultime pagine di Sade, con il ritmo violento del grande massacro. In una stanza della villa, due giovani armati ballano sull’aria di un motivo, che trasmette la radio. “Come si chiama la tua ragazza?” “Margherita”.

È una possibile salvazione dell’uomo?.

Da Filmcritica n. 256 (1975)

Tullio Kezich

Non è un film storico, non ha la minima pretesa di documento. È soltanto un sogno-incubo in cui un moderno lettore di Sade ambienta, con tipica alogicità onirica, gli eventi narrati nel romanzo all’epoca del fascio repubblichino. Guardato sotto il profilo della metafora, è anche un film molto chiaro. Le glosse che gli ha fatto Pasolini rischiano di essere più difficili delle immagini.

Salò è diviso in quattro tempi: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda, Girone del Sangue. L’insistenza sui particolari più sordidi, dal voyeurismo all’omofilia, dall’onanismo alla coprofagia, è programmata come un’operazione estremista e tuttavia asettica. Approdato dal relativo ottimismo della Trilogia della vita a una visione più allarmata della realtà, l’autore ci dà con Salò il film della morte attraverso un sinistro affresco della sopravvivenza nella società dei consumi. La villa delle orge è il famoso palazzo del potere di cui Pasolini parlò in uno dei suoi ultimi articoli. Il palazzo viene riempito per mezzo di retate negli ultimi angoli in cui ancora si annida una civiltà naturale, contadina: sono le immagini fresche, stupende, luminosissime, dell’Antinferno.

Nel palazzo c’è l’inutile eleganza di cui ci circondiamo, osservata con la prospettiva ironica che oggi si può avere verso là moda del 40, la scala alla Wanda Osiris da cui scendono le narratrici, i quadri futuristi e formalisti alle pareti, il compiaciuto sfoggio di cultura dei potenti. Le barzellette dei presidente sono le stupidaggini della TV, che Pasolini proponeva di abolire.

I cori alpini (Sul ponte di Perati, Stelutis alpinis) sono la cultura dopolavoristica offerta al popolo per aiutarlo a smarrire la sua. Paolo Bonacelli interpreta il duca suggerendo più consapevolmente degli altri l’intenzione dell’autore, che era forse quella di fare un film atrocemente comico.

Da Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967–1977, Edizioni Il Formichiere

Roland Barthes

È certo che ai fascisti Salò non piace affatto. Ma essendo Sade divenuto per alcuni di noi un patrimonio prezioso, alte grida si levano anche da tutt’altra parte: “Sade non ha niente a vedere col fascismo!” Quanto agli altri, né fascisti né sadiani, hanno per dottrina immutabile e comoda di trovare Sade “noioso”. Il film di Pasolini non può quindi catturare proprio alcuna adesione. Eppure, e in modo evidente, da qualche parte va a colpire. Ma dove?

Ciò che colpisce, ciò che fa effetto in Salò, è la lettera. Pasolini infatti ha filmato le sue scene “alla lettera”, come erano state descritte (non dico “scritte”) da Sade e queste scene hanno dunque la bellezza triste, gelida, esatta, delle grandi tavole d’enciclopedia.

Far mangiare gli escrementi? Far uscire un occhio dall’orbita? Mettere degli aghi nel cibo? Si vede tutto: il piatto, lo stronzo, l’atto di imbrattarsi, la confezione d’aghi (comprata all’upim di Salò), la farina della polenta; come si dice, nulla vi sarà risparmiato (vero e proprio motto della lettera).

A questo punto di rigore, non è più il mondo tratteggiato da Pasolini a essere messo a nudo, ma il nostro sguardo: il nostro sguardo messo a nudo, ecco l’effetto della lettera. Nel film di Pasolini (e questo, credo che gli appartenesse proprio) non c’è alcun simbolismo: da un lato una grossolana analogia (il fascismo, il sadismo), dall’altra la lettera, minuziosa, insistente, esibita, leccata, come la pittura di un primitivo; l’allegoria e la lettera, ma mai il simbolo, la metafora, l’interpretazione (stesso linguaggio, ma più pieno di grazia in Teorema).

Eppure, la lettera ha uno strano effetto, un effetto inatteso. Si potrebbe credere che la lettera sia al servizio della verità, della realtà. Niente affatto: la lettera deforma gli oggetti di coscienza rispetto ai quali noi siamo tenuti a prendere posizione. Restando fedeli alla lettera delle scene sadiane, Pasolini giunge a deformare l’oggetto-Sade e l’oggetto-fascismo: è dunque a buon diritto che i sadiani e i politici si indignano e riprovano.

I sadiani (i lettori incantati del testo di Sade) non riconosceranno mai Sade nel film di Pasolini. Per una ragione generale: Sade non è affatto figurabile. Esattamente come non ci sono ritratti di Sade (se non fittizi), così nessuna immagine è possibile dell’universo sadiano, il quale, per una decisione imperiosa dello scrittore-Sade, è affidato tutt’intero al solo potere della scrittura. Se ciò è possibile, è senza dubbio perché esiste un accordo privilegiato tra la scrittura e il fantasma: entrambi sono bucati; il fantasma non è il sogno, non segue mai i collegamenti di una storia, per bizzarri che siano; e la scrittura non è la pittura, non segue la pienezza dell’oggetto: il fantasma può solo scriversi non descriversi. Ed è per questo motivo che Sade non passerà mai al cinema e, da un punto di vista sadiano (dal punto di vista del testo sadiano), Pasolini non poteva che sbagliarsi — cosa che ha fatto con ostinazione (seguire la lettera è ostinarsi).

Ma Sade si è sbagliato anche da un punto di vista politico. Il fascismo è un pericolo troppo grave e troppo insidioso, per trattarlo attraverso una semplice analogia, con i padroni fascisti che “con la massima semplicità” prendono il posto dei libertini. Il fascismo è un oggetto vincolante: ci obbliga a pensarlo esattamente, analiticamente, politicamente; la sola cosa che l’arte possa farne, se ci si mette, è di renderlo credibile, di dimostrare come arrivi, non di mostrare a cosa assomigli; insomma, non vedo altri modi di trattarlo che alla Brecht.

O ancora: è una responsabilità quella di presentare questo fascismo come una perversione; chi non dirà con sollievo davanti ai libertini di Salò: “Io, non sono affatto come loro, non sono un fascista, perché non mi piace la merda”.

Insomma, Pasolini ha fatto due volte quello che non si doveva fare. Dal punto di vista del valore, il suo film perde su entrambi i tavoli: perché tutto quello che irrealizza il fascismo è cattivo, così com’è cattivo tutto quello che realizza Sade. Eppure, se comunque…? Se comunque, sul piano delle emozioni, ci fosse del Sade nel fascismo (cosa banale) e, molto di più, se ci fosse del fascismo in Sade? Del fascismo non vuol affatto dire il fascismo.

C’è il “sistema-fascismo” e c’è la “sostanza-fascismo”. Tanto il sistema richiede un’analisi esatta, una discriminazione ragionata, che deve impedire di considerare come fascista qualunque oppressione, così la sostanza può circolare ovunque; perché in fondo essa è soltanto uno dei modi con cui la “ragione” politica giunge a colorare la pulsione di morte, che non si può mai vedere, come spiega Freud, se non è tinta da qualche fantasmagoria. È questa sostanza che Salò risveglia a partire da un’analogia politica, che qui ha esclusivamente un effetto di firma.

Fallito come figurazione (sia di Sade che del sistema fascista), il film di Pasolini trova il suo valore come riconoscimento oscuro, mal padroneggiato in ciascuno di noi, ma sicuramente imbarazzante: mette a disagio tutti, perché, in ragione dell’ingenuità tipica di Pasolini, impedisce a chiunque di riscattarsi. Ed è per questo che io mi domando se, al termine di una lunga catena di errori, il Salò di Pasolini non sia in fin dei conti un oggetto propriamente sadiano: assolutamente irrecuperabile: e in effetti, nessuno sembra poterlo recuperare.

Da Sul cinema, Il Melangolo, Genova, 1994

Mario Soldati

Sere fa, in un cinema di Milano, ho fatto appena in tempo a vedere l’ultimo film di Pasolini. Il giorno dopo, tornavo a quel cinema per controllare il nome di alcuni attori. Spingo i cristalli: resistono. Che succede? Due impiegati, seduti in fondo all’atrio, mi fanno cenno di no. No? E perché? grido. Non rispondono. Seguitano a dirmi no coi soli gesti, come se temessero da me qualcosa: ma che cosa? che fracassi i vetri? Sono ormai un vecchietto inerme, dall’aspetto ottocentesco e mite. Invano chiedo mi si apra, invano spiego che vorrei soltanto dare un’occhiata alle scritte delle fotografie. Finalmente, con quel tanto in più di voce che basta appena a farsi udire attraverso i cristalli, mi dicono che il film è stato sequestrato.

Ho l’abitudine di leggere le critiche cinematografiche di mezza dozzina di quotidiani e, istintivamente, faccio una media, ricavo un giudizio complessivo che mi pare abbia ogni probabilità di corrispondere al vero. Quando poi vado a vedere i film, nella grande maggioranza dei casi, la mia opinione è l’esatto contrario.

Sennonché, stranamente, accade che io non mi fidi mai di questa mia esperienza: ogni volta ricasco, mi fido dei giornali; e così ero convinto che Salò non mi sarebbe piaciuto, ed ero decisissimo a non vederlo, a malgrado o piuttosto per via dell’affetto e dell’ammirazione che mi legava a Pier Paolo. Mi sono poi contraddetto all’ultimo momento, e per una curiosa serie di combinazioni: passavo la sera con uno dei miei figli; lui voleva vedere Salò, io no, e avevo insistito, fino a convincerlo, per un altro film; l’appuntamento era all’aperto, faceva molto freddo; quando mio figlio arrivò, mancava ancora mezz’ora all’inizio dell’altro film, invece Salò, in un cinema lì vicino, cominciava subito… insomma, ho ceduto.

E dopo pochi minuti di proiezione, ho capito che Salò non soltanto era un film tragico e magico, il capolavoro cinematografico e anche, in qualche modo, letterario di Pasolini: ma un’opera unica, imponente, angosciosa e insieme raffinatissima, che resterà nella storia del cinema mondiale.

È noto che Pasolini si è rifatto alle opere di Sade, e particolarmente a quella intitolata Le 120 giornate di Sodoma: meno nota la misura, larga e profonda, con cui vi attinge. Come presago della sua prossima scomparsa, Pasolini stesso aveva rilasciato interviste e aveva scritto decine di cartelle destinate a spiegare il film.

Non si stancava mai di insistere su questo punto: «Non ho aggiunto una parola a ciò che dicono i personaggi di Sade, né alcun particolare estraneo alle azioni che compiono. Il solo riferimento all’attualità è il loro modo di vestirsi, di comportarsi, la scenografia, ecc. insomma, il mondo materiale del 1944».

«Ho seguito il numero magico di Sade, cioè il 4…». Continuo sunteggiando le dichiarazioni di Pasolini.

Quattro sono gli episodi, gli atti in cui come una tragedia è diviso il film: il prologo, o l’Anti Inferno; il girone delle Manie; il girone della Merda; il girone del Sangue.

Quattro i principali personaggi maschili, cioè i Padroni, ai quali sono conferite addirittura le stesse qualifiche sociali che hanno in Sade: il Duca (l’attore Paolo Bonacelli); il Vescovo (Giorgio Cataldi); Sua Eccellenza il Presidente della Corte d’Appello (liberto Quintavalle); il Presidente (Aldo Valletti). Quattro le Storiche: la signora Castelli (Caterina Boratto); la signora Maggi (Elsa De Giorgi); la signora Vaccari (Hélène Surgère); la virtuosa di pianoforte (Sonia Saviange).

Quattro le schiere dei giovani subalterni maschili o femminili: le vittime; gli armati; i collaboratori; i servi. Quattro i messaggi inerenti all’ideologia del film: analisi del Potere; inesistenza della Storia; circolarltà tra i carnefici e le vittime; istituzione, che precede tutto quanto, di una realtà che non può essere se non economica.

Quattro, infine, gli elementi stilistici: accumulazione dei caratteri della vita altoborghese; ricostruzione del cerimoniale nazista, cioè la sua nudità, la sua semplicità militare e insieme decadente, il suo vitalismo ostentato e glaciale, la sua disciplina come armonia tra autorità e obbedienza; accumulazione ossessiva, fino al limite del tollerabile, dei fatti sadici, rituali e organizzati, ma talvolta affidati a un raptus; correzione ironica del tutto: un umorismo che esplode in particolari sinistri e dichiaratamente comici, grazie ai quali di colpo tutto vacilla e si presenta come non vero e non creduto, un delirio, un incubo.

Perché Salò? fu chiesto in una delle interviste: e Pasolini rispose: «Una frase di Sade dice che nulla è più «profondamente anarchico del Potere». Anarchico: ossia, niente è meno sociale, meno cristiano. «E, a mia conoscenza, non c’è mai stato, in Europa, un Potere così anarchico come quello della Repubblica di Salò: fu la dismisura più meschina fatta Governo». «Ho preso dunque Salò come simbolo del Potere che trasforma gli esseri umani in oggetti, il potere fascista e il potere della piccola repubblica. Ma, appunto, si tratta di un simbolo. Questo potere arcaico mi facilitava la rappresentazione».

Ripeto: fino dalle prime battute, il film mi parve una grande opera d’arte. Ma devo aggiungere subito che, mentre vedevo il film, ero sorpreso e confortato nella mia ammirazione dal contegno del pubblico. La sala era colma, non si trattava di una proiezione speciale, per giornalisti o intellettuali: era uno spettacolo qualunque per un pubblico qualunque.

Ebbene, contrariamente a quanto mi aspettavo, questo pubblico misto e interclassista (oggi vanno alle prime visioni anche i giovani proletari, che non dovrebbero avere la possibilità di pagare il biglietto!) capiva, o, piuttosto, sentiva il film esattamente come va sentito: un film serio, serissimo, tragico fino all’atrocità, e malinconico fino a una disperata pietà. Scusate se parlo per un momento con la mia antica esperienza ipersensibile di regista-nascosto-in-mezzo-al-pubblico: il modo con cui il pubblico accoglie una pellicola durante la proiezione, lo si avverte, se uno ci sta attento e teso, fino alle più piccole sfumature.

Ebbene, quel pubblico, col suo stesso silenzio, coi suoi sommessi mormorii, e direi coi suoi respiri, sottolineava variamente, ma sempre positivamente, tutto: e l’eleganza, la grazia, l’illuministica geometria dei racconti delle Storiche, recitati come monologhi, con l’accompagnamento al pianoforte di dolcissime melodie romantiche; e le nefandezze ossessive dei Padroni, perpetrate e presentate fino al limite del tollerabile, come voleva Pasolini e come accade nella grande cena infernale, ributtante ma anche comica, della coprofagia; e le atrocità finali di tutte le indicibili torture, l’occhio cavato con la punta di un pugnale, i sessi arsi con la fiamma di una candela, i capezzoli bruciati da carboni ardenti; e tutti gli episodi, tutte le inquadrature che, continuamente frapposte a quelle visioni, deliranti, terribili, sataniche, mostrano l’innocenza, il candore, la rassegnazione, ma al momento giusto anche la ribellione eroica e la speranza delle povere vittime, fino alla lacerante invocazione: «Dio! Dio, perché ci hai abbandonati?!». Questo urlo e la chiave di tutto il film.

Nulla sfuggì agli spettatori. E quando il film finì, un lungo silenzio parve trattenerli sui sedili: si alzarono lentamente, ancora in silenzio, quasi evitando di guardarsi l’un l’altro. Non c’è dubbio, un profondo sgomento, quasi un senso di colpa era in ciascuno, come se ciascuno si chiedesse: «Ma è possibile? Questo, dunque, è il fondo, questo è il mistero della vita?» e si rispondesse, nell’intimo: «Eh sì, è possibile, forse è possibile… ».

Ecco, in quei momenti, mentre il pubblico sfollava adagio verso l’uscita, ho capito what’s the matter, che cosa davvero importa, in questo film: qual è il suo vero

argomento. Non si tratta di Salò, si tratta del mistero della nostra esistenza, e il pubblico stesso, in quei momenti, ancora lo capiva. Invece le polemiche, le repressioni ufficiali, le denunce, il sequestro, il processo che oggi si celebra a Milano, e purtroppo anche le critiche di molti dei giornalisti si riferiscono a Salò repubblichina e sono forse, nascostamente, alimentate da un turbamento diffuso e inconfessabile, che riguarda il girone della Merda.

Turbamento diffuso e inconfessabile perché, grazie al ciclo, la percentuale di coloro che provano la tentazione di martoriare e di uccidere (girone del Sangue) è infinitamente meno numerosa di quella di coloro che provano quelle altre tentazioni, magari in forma blandamente masochistica, mai sadica. Mi pare di leggere nel futuro: verrà giorno in cui il Potere di una classe qualsiasi su tutti gli altri esseri umani, il potere di quella classe che è, sempre, il Potere stesso, comincerà a declinare, oppure, al contrario, saprà mascherarsi così diabolicamente da non essere riconosciuto con facilità come Potere: ma anche se non ci sarà un miglioramento, anche se non ci sarà un progresso, anche se la struttura economica della società sarà sempre straziata dalla stessa ingiustizia, almeno allora si comincerà a capire che la sociologia attuale era come una scienza che studia i sintomi del male senza risalirne alla causa.

Quel giorno, soltanto gli eruditi saranno ancora informati dell’esistenza lontana ed effimera della meschina repubblica di Salò; e allora i cineamatori capiranno, come voleva Pasolini, che Salò è soltanto un simbolo, e rivedranno questo film come va visto: come l’opera di un poeta che ha ficcato intrepidamente lo sguardo nella tragica oscurità del cuore umano e che ha tentato di risalire dai sintomi alla causa.

Infatti, il piacere atroce del sadico implica che il sadico si immagina la sofferenza che infligge alle vittime, e non può immaginarsela se in qualche modo e misura non la prova egli stesso: la circolarità cui accennava Pasolini. Piacere e sofferenza, bene e male che la ragione vuole distinti sono invece confusi perché così, nel profondo, li vuole la natura: forse due facce della medesima realtà, complementari e necessarie l’una all’altra come la luce e l’ombra.

A proposito di Salò, Moravia, da lunghi anni amico vero e grande di Pasolini, ha scritto che Pasolini, ideologicamente e poeticamente, si era ispirato soprattutto all’Italia, avendola amata di un amore sviscerato fino dalla fanciullezza. Si badi bene: le espressioni di Moravia, assolutamente, non sono negative né limitative, come forse si potrebbe dedurre da queste mie parole. Polemizzando con Calvino, Moravia conclude: «La tragedia di Pasolini non è stata quella dell’uomo corrotto dal denaro, ma quella del patriota tradito dal suo paese».

Tuttavia, con il vigore finale di Salò, Pasolini ha dato la prova di essere qualcosa di più. Ingaggiò, nell’ultimo anno di vita, una battaglia mortale, «e parve di costoro /quelli che vince, non colui che perde».

Gennaio 1976

Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006

Georges Sadoul

In una «anticamera» e tre «gironi», l’inferno dell’abiezione e della violenza in un condensato delle Centoventi giornate di Sodoma che vengono trasportate nella Repubblica di Salò, ultima roccaforte di crudeltà e follia del fascismo italiano non rassegnato alla sua caduta. In un ambiente a mezza strada tra la realtà storica italiana e i fantasmi di de Sade, alcuni dignitari fascisti umiliano, sporcano, ammazzano dei ragazzi.

Per Pasolini è un modo di trattare metaforicamente il tema, conducendo al suo termine di disgusto la metafora stessa (il fascismo), ma ancora di più un modo per rappresentare la società di oggi. «Questo film, ha detto Pasolini, è il sogno folle, inspiegabile di quello che abbiamo passato nel mondo durante gli anni ’40: sogno tanto più logico nel suo insieme che nei suoi particolari.

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

Giancarlo Zappoli

Dopo la “Trilogia della vita” (Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una Notte) Pasolini sente la necessità di affrontare una opposta e tragica lettura dell’uso della sessualità. Questa volta (grazie all’opera del marchese De Sade che offre l’idea di base) è il Potere di ogni tempo e non solo quello fascista ad essere chiamato in causa e condannato. <br/>

“Ora tutto si è rovesciato. Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza.

Secondo: anche la “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana.

Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subìto il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è diventato suicida delusione, informe accidia”.

Così si esprimeva il regista in un suo testo del 1975 pubblicato postumo. Rilette oggi queste sue parole assumono un valore non solo chiarificatore sugli intenti di un film che cerca lo scandalo e insiste sui particolari più turpi senza mai compiacersene ma con lo scopo dichiarato di provocare una reazione morale alla presunta immoralità della sua opera.

Reazione che purtroppo ci fu ma scomposta e mirante a far scomparire per sempre l’opera dalle sale. Proiettato a Parigi per la prima volta a 20 giorni dall’uccisione del suo autore il film subì sequestri e dissequestri ma la sua libera circolazione fu sancita solo dieci anni dopo.

Il degrado delle mura entro il cui perimetro si svolgono le azioni ci mostra, grazie al mirabile apporto di Dante Ferretti, non solo i segni lasciati dal tempo sull’edificio ma quelli, ben più significativi, di un disfacimento a cui sembra impossibile porre rimedio. Quello di Pasolini si propone così ancora una volta come un grido di allarme questa volta quasi totalmente disperato (se si esclude il finale scelto tra 4 possibili).

La mercificazione dei corpi e del sesso sarebbe divenuta, negli anni successivi, sempre più invasiva sotto le mentite spoglie di una apparente libertà. Da parte di alcuni si è voluto leggere il film come una sorta di testamento di Pasolini alla ricerca della morte ma si tratta di fatto di una lettura a posteriori e non necessaria per comprenderne la forza dirompente di un Requiem per una civiltà che ormai non è più tale.

Gian Luigi Rondi

Il film postumo di Pier Paolo Pasolini. Inedito fino a ieri a Roma, dopo un iter giudiziario durato quasi un anno e mezzo. Cominciamo da Sade, da cui prende anche il titolo. Il romanzo da cui si ispira, scritto nel 1785, proponeva, per 120 giornate di seguito, secondo gli schemi narrativi del Decamerone, degli episodi di perversioni sessuali, raccontati, cinque al giorno, da quattro cortigiane a quattro signori che, in un ben custodito castello della Selva Nera, di tanto in tanto li mettevano in pratica ai danni di un gruppo di adolescenti d’ambo i sessi, seviziati spesso fino alla morte.

Pasolini ha ritrascritto il romanzo con due sostanziali varianti. Ha spostato l’azione dal Settecento al’45, alla vigilia cioè del crollo della repubblica di Salò e, facendo dei quattro “signori” quattro gerarchi fascisti, ha sostituito all’etica pur aberrante del piacere che era alla base del testo di Sade una polemica contro il potere e la sua capacità di “trasformare i corpi in cose”, come ebbe a dichiararmi proprio qui in quel suo ultimo intervento in cui faceva esplicita allusione anche alla “repressione nazifascista”.

Come narratore, insomma, come autore, si è messo dalla parte delle vittime, i loro carnefici anziché “eroi sublimi” come li aveva visti Sade, li ha descritti come mostri e la loro attività, anziché esaltarla, l’ha esecrata, svolgendola a tal segno come un viaggio nel male da trasformare intenzionalmente lo schema a puntate giornaliere ripreso dal Decamerone in tre giorni infernali preceduti da un “antinferno”.

Risultato? La pagina “scritta” di Sade, anche se la si propone adesso, solo per maledirla, resta egualmente carica di turpitudine. Pasolini se n’era reso conto, tanto è vero che aveva parlato qui di “accumulazione ossessiva fino al limite della tollerabilità” ammettendo che “ad ogni in quadratura” si era posto “il problema di rendere lo spettatore intollerante e subito dopo smontarlo” grazie ad “un umorismo” e ad una “correzione ironica” da far esplodere talvolta “in dettagli di dichiarata e sinistra comicità”.

Questa “correzione ironica”, però, nel momento stesso in cui le parole diventano immagini, arriva solo molto di rado a smontare l’intollerabilità. La sgradevolezza della materia, così, anche quando l’autore l’affronta e la combatte proprio in quanto sgradevole (e orrida e ributtante) prevale, con la sua trista evidenza, sulle intenzioni polemiche e provoca quasi ad ogni passo, come è stato lucidamente rilevato, “onde concentriche di orrore”.

Chi, tuttavia, vincerà questo orrore, potrà trovare nel film uno stile. Da analizzare e studiare. Intanto la distanza fra l’autore e la cosa rappresentata, anche quando è fatta oggetto di furori polemici. Una distanza ottenuta con il gelo, con geometrie narrative e visive di ghiaccio e nonostante l’accento sia sempre sulla componente erotico-sadica del Potere, con un vuoto totale di compiacenze erotiche.

In secondo luogo quel tentativo di trasformare la pagina allusiva e visionaria di Sade in immagini altrettanto visionarie pur dovendo fare i conti, dati i puntuali riferimenti storico-polemici, con il dettaglio realistico. Un tentativo spesso non risolto, per l’impossibilità che si è detto di visualizzare Sade con riletture poetiche, ma che, ancora una volta in Pasolini, approda nei momenti riusciti a quel realismo visionario che egli aveva così acutamente teorizzato per Il fiore delle Mille e una notte.

Un sogno, un incubo realisti, fasciati di luci funerarie, immersi in colori lividi di decomposizione e di morte, ritmati, lugubremente, da citazioni di letterati pro nazisti. Con due momenti degni e rigorosi: quel prologo rosselliniano (antinferno) che ha il tono e il sapore, felicissimi, di una rivisitazione congeniale di Paisà, e le ultime pagine dell’ultimo “girone”, quello del sangue, in cui la narrazione a freddo, oggettiva, tende a farsi di colpo personale e partecipe, per intonare, sulle vittime del potere fascista e di tutti i poteri repressivi, una lamentazione funebre dolorosa e sommessa.

Quella che, a un nostro caro e compianto collega, Leo Pestelli, aveva fatto sentire “l’inesausta sete di innocenza in fondo al cuore di questo poeta maledetto, la sua predilezione, qui risultante per clamorosa antitesi, verso un’arcadia precristiana o addirittura prelogica: quanto in lui, insomma, era di vichiano e pascoliano insieme”.

Se non è possibile, perciò, accogliere questo film senza le dovute riserve soprattutto perché il suo autore non è riuscito a dominarne sempre artisticamente la materia, lo si consideri almeno, al di là delle polemiche che lo hanno bersagliato, come un testamento ideologico permeato anche di precisi riferimenti personali. Quelli che, appunto, avevano indotto qui Pasolini a parlare di un “film dell’adattamento”. “

Ho finito per dimenticare com’era l’Italia fino a una decina di anni fa e anche meno — mi aveva detto — e poiché non avevo altra alternativa che l’esilio o il suicidio, ho finito con l’accettare l’Italia com’è diventata.

Una immensa fossa dei serpenti dove, salvo qualche eccezione e alcune misere élites, tutti gli altri sono dei serpenti stupidi e feroci, indistinguibili, ambigui, sgradevoli” Parole gravi, anche disperate nonostante l”adattamento”, ma che si accordano esattamente con Salò o le centoventi giornate di Sodoma

Da Il Tempo, 11 marzo 1977

Dacia Maraini

Intervista a Giovanni Ricci

Roma, fine di marzo. Quaggiù è arrivata la primavera: il Tevere, pieno di luce, sembra meno inquinato del solito. Soffia un vento leggero. Fa caldo. Incontro Dacia Maraini, nel suo attico di quasi periferia, per un’intervista sulle ultime opere filmiche di Pasolini. Alberto Moravia lavora nella stanza vicina. Dalla finestra si vedono — nitidi — ampi spazi del lungofiume e un cielo di un azzurro particolare, che fa venire in mente — è una sensazione privata — certi pomeriggi di Inverness, in Scozia, o certe albe estive di Copenaghen.

Parlare di Pasolini, dei suoi film, dei suoi libri significa, credo, impegnarsi su problematiche che vanno al di là dell’estetica, del formalismo letterario o visivo.

Parlare e scrivere di Pasolini vuol dire calarsi nel magma politico-esistenziale di quest’Italia (quest’Europa) che ci circonda. Intanto il processo [si riferisce al processo in corso contro l’ultima opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini, Salò o le centoventi giornate di Sodoma ] va avanti stravolgendo — come osserva Dacia Maraini al termine del colloquio — i ruoli effettivi, reali del carnefice e della vittima.

Salò subisce, da noi, la condanna al rogo; in Francia lotta ancora coi baroni della commissione di censura; a Francoforte i bravi borghesi germanici arricciano il naso, evidentemente turbati più dal simbolismo dei cineperiodi che dal rimorso d’un retroterra storico in massimo grado colpevolizzante.

Dacia Maraini è un’operatrice culturale che ama partire nel giornalismo, nella letteratura, nel teatro, nel cinema — da dati razionali, concreti, una donna che fa cultura e politica secondo una linea d’azione che niente ha da spartire coi tetri decadentismi in cui si dibattono vasti e ambigui settori della “intelligentija” romana.

Discutere con lei intorno alla figura di Pier Paolo Pasolini, questo compagno di strada e di lotta costantemente attratto dal non razionale, dal non scientifico, è un’esperienza di grande interesse.

Reputo giusto, e doveroso, trascrivere in modo pressoché integrale il resoconto fonografico del nostro dialogo, avvenuto a Roma tra le ore 12 e le 13 del 29 marzo 1976.

Giovanni Ricci (GR): Inizierei col parlare di Salò. Come hai reagito tu dinanzi alla visione del film? Dice Sciascia: “I più non ne avranno che nausea e orrore: e o sentiranno l’impulso di ripagare con la violenza tanta violenza (magari sfasciando il cinema) o sentiranno tanta disperazione e dannazione da trovarsi a invocare Dio come nel film la vittima”. E aggiunge di aver chiuso gli occhi alla ricerca di un buio fisico che si contrappone al buio morale erompente dallo schermo.

Dacia Maraini (DM): Salò o le centoventi giornate di Sodoma è un film in certo modo sgradevole, però è anche una parabola abbastanza chiara sulla violenza. In fondo le cose che infastidiscono sono le cose ambigue: Pasolini è invece estremamente chiaro, anche troppo, a tal punto che diviene quasi astratto, simbolico. Questa metafora sul Potere e sulla sua violenza verso gli oppressi si differenzia dal film della Cavani [Portiere di notte, ndr] che era tutto basato su un coinvolgimento della vittima dentro il male. Qui c’è un distacco nettissimo, manicheo: ci sono gli oppressi e gli oppressori, e fra di loro non si instaurano rapporti se non di brutale violenza. Forse la cosa che più colpisce non è tanto la violenza quanto la parte escrementizia: siamo abituati a vedere sia il sesso che la violenza, ma la parte escrementizia è nuova, e dà una certa impressione. Poi una cosa che dice Moravia e su cui io sono d’accordo è che il film non è sadico, perché non è fatto da una persona sadica: i film sadici sono i film americani. Sono talmente sadici da non dare più l’impressione del sadismo che — come in Mandingo e in certi film western — diviene un qualcosa di assolutamente assimilato. Salò, al contrario, è un film sul sadismo di una persona che non è affatto sadica.

GR: Pasolini a un certo punto della sua vita ripudia la trilogia Decameron-Canterbury-Oriente oppresso dalla sperimentazione quotidiana di un mondo ove anche i sensi hanno perso ogni ipotesi di felicità, di innocenza, e le stesse masse sub-proletarie sono omologate, standardizzate persino nell’aspetto fisico. Come mai, in che modo, in quali termini dall’apparente ottimismo della “Trilogia della vita” Pasolini perviene alla drammaticità mortuaria di Salò?

DM: Pasolini aveva seguito molto da vicino la trasformazione del sottoproletariato e ne era rimasto colpito. Bisogna dire che il sottoproletariato è lo strato sociale che è cambiato di più negli ultimi anni, passando da una specie di accettazione paesana della realtà a una presa di posizione molto violenta e brutale: i sottoproletari si sono impadroniti dei valori della borghesia portandoli alle estreme conseguenze, senza addolcimenti di alcun genere. E poiché il mondo che Pasolini conosceva meglio era appunto quello del sottoproletariato, partendo da queste considerazioni era portato a generalizzare. Qui, secondo me, lui sbagliava, perché non è vero che anche nel proletariato o negli studenti vi sia questa omologazione. Il discorso diviene anzi un po’ pericoloso, così com’è pericoloso risalire per esempio dal fatto che ci si veste in un certo modo al fatto che si pensa tutti nello stesso modo. È vero comunque che non c’è più la separazione di una volta tra mondo borghese e mondo popolare, ma questa piccolo-borghesizzazione della massa è un fenomeno verificatosi ovunque. La massa oggi non è popolo ma piccola borghesia (come stile di vita), e da ciò Pasolini traeva la conseguenza che destra e sinistra si equivalgono, entrambe omologate da un certo modo di comportarsi, da una certa segnaletica. E arrivava al punto di dire che sotto il fascismo il sottoproletariato era più intatto perché l’ideologia fascista gli era imposta mentre adesso l’ideologia dominante gli viene inculcata e i sottoproletari la accettano come propria.

GR: Ecco, mi pare chiaro che Pasolini, ai tempi di Salò, volesse prendersela più col potere di oggi, distruttivo e omologante, che col fascismo repubblichino. Diceva anzi che era stata l’impossibilità di sopportare fisicamente “i beni di consumo di oggi, le facce di oggi, i capelli lunghi di oggi” a fargli proiettare la critica al Potere di oggi nell’epoca di Salò, che diventa simbolo recente eppure non storicizzato, per dirla con Argentieri “travestimento storicistico e sociologico di una angoscia esistenziale” (“Rinascita”, 28 febbraio 1975). Pasolini insomma sembrava più ossessionato da certa violenza mercificante del Potere che dai pericoli del neofascismo: era, questo di Pasolini, un atteggiamento politicamente motivato, vorrei dire oggettivo, scientifico, o non piuttosto personalistico, frutto di problemi di adattamento esistenziale integralmente soggettivi?

DM: I suoi atteggiamenti non erano mai dettati da ragioni oggettive: lui era molto soggettivo e la sua qualità consisteva appunto nel razionalizzare questa sua soggettività, questo suo irrazionalismo. E si è spesso trovato al momento giusto, nel posto giusto a creare, così, una sorta di scandalo, di rottura che aveva una sua funzione, come quando se la prese con gli studenti prima del ‘68.

GR: L’erotismo. Diceva Pasolini: “I miei film non sono mai erotici, purtroppo”. E a proposito di Salò: “No, neanche questo, non credo che sia erotico, può essere sconvolgente oppure non so scioccante, ma erotico no, mai, forse perché sono inibito e non so rappresentare l’erotismo in quanto erotismo… l’eros nei miei film è sempre un rapporto drammatico, metaforico” (“Il mondo”, 1 aprile 1975). In che senso l’eros pasoliniano è sempre rapporto drammatico? Anche nella “Trilogia della vita” l’eros è rapporto drammatico?

DM: In questo penso che lui avesse ragione. È vero che, così come Salò non è erotico-sensuale, anche gli altri suoi film non possono essere definiti erotici. Ed è vero che lui era inibito, che per lui l’eros era un dramma: basta pensare un momento alla sua vita, all’allontanamento dalla scuola, a tutto il resto per capirlo. La sua omosessualità, oggetto di persecuzione fin dal principio, evidentemente gli ha fatto vivere il sesso in maniera drammatica. Nella stessa “Trilogia” c’è un’idea indiretta della sessualità: la sessualità è rivista e vissuta attraverso gli occhi dei protagonisti, dei ragazzi di vita, dei giovani. È inoltre una sessualità molto letteraria e figurativa, sempre concepita come un quadro rinascimentale o come un’opera di Chaucer, di Boccaccio… È una sessualità molto raggelata, non è ricca di carica vitale, non è semplice, diretta, non lo è mai…

GR: “La vera anarchia è quella del potere”. Sei d’accordo?

DM: Credo che Pasolini volesse dare alla parola “anarchia” — intesa come “disordine”, come caos un senso dispregiativo. L’anarchia in quanto fine politico è un’utopia, mentre di solito quando si parla di “realtà anarchica” ci si riferisce a una situazione negativa di confusione estrema. Penso che lui intendesse dire questo: è la condanna del Potere come legge del più forte. Naturalmente sono d’accordo.

GR: Ha scritto Leonardo Sciascia, a proposito dell’atteggiamento di Pasolini nei confronti del marxismo: “[…] Si potrebbe azzardare una specie di ipotesi di lavoro: che certe verità dette da Pasolini — sul capitalismo, sul comunismo, sulla violenza, sulla classe dirigente italiana (cioè non-dirigente), sull’istruzione pubblica fossero marxiste in quanto verità, per la capacità e mobilità del marxismo e far propria ogni verità […] e non lo fossero per estrazione, per adesione, per meditazione” (“Rinascita”, 12 dicembre 1975). Qual è la tua opinione in merito?

DM: Quelle di Pasolini non sono tanto delle posizioni marxiste quanto piuttosto delle rotture. E in questo senso era più un cristiano, cioè era per lo scandalo nei confronti del mondo borghese, del Potere dominante. Sebbene non fosse sempre disposto a vedere la verità, era un uomo sincero, onesto, coraggioso e mai opportunista: rischiava spesso di andare contro l’opinione pubblica, di essere aggredito, attaccato, criticato… Non aveva niente a che vedere con quei letterati che si nascondono dietro le formule. Portava avanti i discorsi che lo interessavano con grande slancio e grande coraggio. Questo ha un’importanza enorme, perché il nostro è un paese poco coraggioso in cui gli intellettuali non parlano chiaro e il linguaggio è estremamente ermetico. In questo mondo letterario così estetizzante lui estetizzava in maniera clamorosa, violenta, ammirevole. Io credo che lui si sia espresso in modo completo soprattutto nelle poesie, più che nel cinema: per me le poesie sono il massimo che ci ha dato. Nelle poesie riusciva a fondere le preoccupazioni esistenziali private con il momento pubblico, con l’apertura verso la realtà politica. Anche perché forse la poesia si serve di strumenti irrazionali, non ha bisogno di una struttura rigida come il cinema o il romanzo.

GR: Come si poneva Pasolini in rapporto con le strutture economiche della produzione cinematografica tradizionale e capitalistica? E in che rapporto era coi circuiti del cinema cooperativistico e alternativo? Grimaldi, mi pare, è un altoborghese piuttosto illuminato, mentre d’altra parte abbiamo avuto Visconti che ha lavorato per Rusconi…

DM: Non c’è dubbio che oggi, è inutile nascondere la testa sotto la sabbia, l’artista, l’uomo di cinema lavorano con capitali borghesi: non è che ci siano molte scelte. I giornali, le case editrici, tutto appartiene al capitalismo, appartiene alla borghesia. I circuiti alternativi, sia quelli del cinema che quelli della letteratura, sono talmente embrionali e minimi che servirsene per un discorso un po’ allargato risulta quasi impossibile. Ogni tanto ci si lavora, ma certamente non possono essere questi gli unici canali a disposizione degli autori. E anche vero però che, all’interno di questa non-scelta, sussiste una differenza profonda: c’è come dicevi giustamente, Rusconi, che porta avanti una politica di conservazione, di oscurantismo, e ci sono altre produzioni che invece, se non altro, si avvicinano a tematiche più moderne, più interessanti: che poi lo facciano per ragioni economiche e non certamente politiche non importa poi molto, si sa, è ovvio. E in questo senso credo che Pasolini non avrebbe fatto un film per Rusconi. Mi pare di ricordare, ne abbiamo parlato a volte, che lui criticasse Rusconi.

GR: Sembra esistere, seppure non negli ultimi tempi, anche un Pasolini che storicizza, che avvicinandosi dall’esterno tocca i confini espressivi del reportage, che guarda con qualche interesse al cinema-verità, magari al film d’intervento. Pensiamo agli Appunti per un film sull’India, a La rabbia (con quei brani di cinegiornali della fine degli anni Cinquanta rimontati da Pasolini: la guerra in Algeria, Papa Giovanni…). Pensiamo ai Sopralluoghi in Palestina (del 1964) per il futuro Vangelo secondo Matteo, e a un filone come Comizi d’amore (in cui, sempre nel 1964, Pasolini volle mettere insieme una serie d’interviste sui tabù sessuali degli italiani). E la collaborazione a 12 Dicembre di Bonfanti, e l’Orestiade africana girata in 16 millimetri… Pensi si tratti di filoni secondari? Viene da chiedersi se questi film abbiano qualche legame con l’altro cinema di Pasolini…

DM: Penso che Pasolini sentisse il bisogno, come credo succeda a tutti i registi che lavorano nel mondo cinematografico ufficiale, di intervenire in canali e in produzioni di tipo alternativo. E certamente qualcosa ha fatto: non molto, perché il tempo che gli portava via il cinema diciamo così costoso, ufficiale, era quasi tutto il tempo che lui aveva a disposizione. L’opera secondo me più riuscita è senz’altro gli Appunti per una Orestiade africana che ho visto recentemente in Spagna dove hanno fatto una proiezione, un dibattito su questo film e su di lui. Pasolini l’aveva girato per la televisione italiana e la televisione non l’ha mai messo in onda: quindi vedi che anche lavorare per canali non commerciali diventa un problema. Io per esempio devo fare un documentario sulle donne in un villaggio africano, il progetto è stato discusso e approvato ma sta lì da due anni, non riesco a iniziare i lavori. Sono sicura che il giorno in cui magari ho la possibilità di ultimarlo resta poi in un cassetto. È estremamente frustrante per un autore lavorare fuori dal cinema commerciale perché le sue opere o hanno scarsissima diffusione oppure, come nel caso del denaro pubblico, finiscono con l’essere messe da parte.

GR: Ha scritto Moravia: “Si dovrebbe dire che Pasolini forse si sentì impacciato dalle parole e allora ricorse all’immagine che, per essere nuova per lui, dovette sembrargli, almeno per un certo tempo, più libera, più vergine, più espressiva” (“Corriere della Sera”, 6 dicembre 1975). Una tua opinione in proposito, e anche una tua posizione personale sul tema del rapporto parola-immagine.

DM: Pasolini certamente era una persona irrequieta e aveva il bisogno di provare sempre cose nuove. In questo senso credo che abbia ragione Moravia: Pasolini sentiva la limitatezza della parola (limitatezza come diffusione), soprattutto perché lui era poeta, scriveva soprattutto poesie e le poesie, si sa, hanno pochissima diffusione: il nostro è un mondo che in un certo senso rifiuta la poesia. Quindi Pasolini voleva parlare a un maggior numero di persone e non c’è dubbio che il cinema è il linguaggio più comune, che si diffonde meglio, che non ha bisogno di traduzione, che si può trasferire in altri paesi: c’è un senso di grande libertà a lavorare col cinema. Quanto al mio caso personale esiste una certa affinità di posizioni, anche se io mi muovo in un campo diverso dal suo, perché il cinema che io faccio è un cinema alternativo, un cinema d’intervento politico, ho fatto una cosa sull’aborto, faccio cose sui problemi delle donne… Per me il cinema e il giornalismo, due armi che io uso per intervenire pubblicamente, sono in effetti strumenti molto efficaci e immediati: i prodotti del cinema e del giornalismo possono circolare in tutti gli ambienti, hanno una capacità di intervento sulla realtà, di avvicinamento al problema che la letteratura è un po’ più difficile abbia.

GR: Qualche tema meno generale. Come vedi, all’interno di Salò e dei film precedenti, i rapporti tra Pasolini e la religione cattolica? Si può cogliere una certa intuizione del peccato, un certo interesse per il cristianesimo…

DM: Proprio per il suo carattere in fondo irrazionale Pasolini era abbastanza influenzato da fenomeni come il cattolicesimo, che razionalmente rifiutava ma che sentimentalmente subiva. E questo si ritrova, credo, in tutti i suoi film. Il suo è un tipico rapporto sentimentale con la religione: perché lui non era religioso.

GR: La religione diveniva un fatto irrazionale, emotivo…

DM: Sì, una religione irrazionale, mistica, emotiva e anche rituale. È molto importante il momento rituale. Non so se tu hai visto La ricotta: ne La ricotta, e anche nel Vangelo, c’è un rapporto sentimentale con Cristo. Addirittura di identificazione. Non solo, ma lui dà il Vangelo come se fosse vero, non lo discute, non lo storicizza: lo illustra, mettendoci dentro una carica di identificazione sentimentale e personale. E in questo torno a quello che dicevo prima: Pasolini, pur nella sua grande capacità intellettuale, aveva con la realtà un rapporto fuori da moduli razionali.

GR: Pasolini e il femminismo. Pasolini e l’immagine (filmica) della donna. A me personalmente sembra che la posizione di Pasolini nei confronti della donna fosse abbastanza contestabile. A questo proposito, più che ai film di Pasolini, penso sempre a una pellicola di cui Pasolini ha fatto la sceneggiatura, le Storie scellerate di Citti, in cui mi pare vi sia un’immagine della donna oggettualizzata al massimo… Perché Pasolini dava quest’immagine della donna se la sua concezione del mondo era totalmente, innegabilmente democratica?

DM: Il rapporto di Pasolini con le donne passa attraverso il rapporto di Pasolini con la madre, perché è l’unico rapporto in cui è andato a fondo. Pasolini aveva pochissimi rapporti con le donne, soprattutto non aveva mai avuto un rapporto sentimentale, che è sempre un modo di capire le persone: amare una persone vuol dire capirla. Ora, l’unica donna che lui ha amato è la madre. Quindi in un certo senso lui ha cercato di vedere il mondo attraverso gli occhi della madre e attraverso quello che per lui rappresentava questa madre. Infatti, quando aveva un certo sentimento di amicizia con una donna, spesso la vedeva come una madre: è successo nel caso della Laura Betti, è successo nel caso della Elsa Morante. E, anche se io ero più giovane di lui, c’era un po’ anche con me questo tipo di rapporto. Quindi, non amando le donne, non le conosceva, non le capiva, e anche era portato per una specie di vezzo sentimentale a vederle attraverso gli occhi dei suoi ragazzi. E spesso parlava delle donne, non tanto delle donne intelligenti che lui conosceva e che stimava, ma delle ragazze, come ne parlerebbe un ragazzo di borgata, cioè con grande familiarità ma anche con molto disprezzo, con disinteresse.

Il fatto di generalizzare, il fatto di non vedere le donne nella loro realtà lo ha poi portato, per esempio, a prendere una posizione così negativa nei riguardi dell’aborto. Sul “Corriere” ha scritto, e gliel’ho fatto notare, un lungo articolo contro l’aborto senza mai riflettere un momento che è la donna a subire l’aborto: lui ha visto tutto dal punto di vista di questo bambino ancora non nato, potenziale uomo, naturalmente maschio. Dunque ha sùbito colto il rapporto madre-figlio e l’aborto gli ha ripugnato profondamente perché ha visto una negazione di se stesso come figlio e una violenza da parte della madre. Senza pensare che invece la violenza prima è quella subita dalla donna. Questo non gli veniva neanche in mente, infatti quando a un certo punto gli ho detto: ma scusa, tu hai scritto un lungo articolo in cui sembra che la donna non esista, che l’aborto venga fatto non si sa da chi, che sia un atto meccanico, lui ha ribattuto: sì, forse è vero, non ci ho pensato, ho pensato soltanto alle ragioni del figlio immaginario, di questo figlio che deve ancora nascere. E questo è abbastanza indicativo: Pasolini vedeva un mondo con uomini reali e donne irreali. Così in certi momenti intuiva le donne come immagini della madre, in altri momenti le vedeva attraverso gli occhi dei ragazzi che amava, in altri momenti ancora le concepiva come figure poetiche e molto astratte. Non riusciva mai a vederle nella loro realtà, in maniera problematica.

GR: Vorrei sapere quale tra i film di Pasolini tu ami di più, per motivazioni estetiche o ideologiche o di altro genere.

DM: Uno dei film che amo di più è Accattone, poi Teorema, anche perché forse in Teorema ci sono due personaggi di donna che per la prima volta Pasolini prende abbastanza stranamente sul serio: il personaggio (interpretato da Laura Betti) della serva che finisce santa, martire, e il personaggio della moglie dell’industriale, che tenta di afferrare il mondo, di dare un senso al mondo attraverso un tipo di erotismo cieco ma non femminile come tradizione storica.

GR: Concluderei, se sei d’accordo, con qualche ricordo della tua collaborazione cinematografica e culturale con Pasolini.

DM: Il lavoro più impegnativo che ho fatto con lui è stata la sceneggiatura de Il fiore delle Mille e una notte. Pasolini aveva molta fretta perché la sceneggiatura doveva essere pronta entro un mese: è stato molto faticoso. E stranamente abbiamo lavorato in parallelo, cioè io ho fatto una metà, lui ha fatto l’altra metà, poi ci incontravamo la sera a vedere il lavoro reciproco, che — per quanto mi riguarda — lui ha modificato abbastanza durante la lavorazione del film. Infatti l’ho rimproverato di aver introdotto qualche modifica alle figure femminili, che io avevo cercato di rendere più dal punto di vista della donna e che lui non ha potuto fare a meno all’ultimo di cambiare. Poi, per esempio, gli ho molto rimproverato quella scena, non so se ti ricordi, della freccia, che io ho trovato bruttissima, anzi molto offensiva. Secondo me non è neanche un’idea sua ma dello scenografo perché è un’idea, così… quasi da barzelletta, no? Ecco, per il resto c’erano degli elementi meno oggettuali del solito nei riguardi delle donne.

GR: Fra gli ultimi film probabilmente è il meno antifemminista.

DM: Il meno antifemminista, sì. Forse si sente un po’ la mia mano, anche se in seguito appunto molte cose sono state cambiate. Comunque questo è il mio lavoro più impegnativo con Pasolini. Poi abbiamo fatto insieme alcun doppiaggi, alcuni — diciamo — adattamenti: Sweet movie, Trash… In realtà il lavoro di tipo pratico lo facevo io, perché lui non aveva tempo. Però mi aiutava a scegliere le voci, mi aiutava a scegliere i personaggi, e poi correggevamo insieme i dialoghi…

GR: Cioè avete fatto la traduzione e curato la parte tecnica…

DM: …e curato il doppiaggio, sì, che è riuscito piuttosto bene proprio perché abbiamo compiuto una scelta scrupolosa delle voci, che non erano quelle del doppiaggio tradizionale, ripugnanti per la loro meccanicità. Abbiamo cercato al contrario delle voci che dessero l’idea di un qualcosa di autentico, di genuino, di umano, ecco…

GR: Le voci originali…

DM: Nel caso di Trash si trattava d’una presa diretta, quindi le voci inglesi non erano affatto convenzionali. Mi riferisco alla convenzione del doppiaggio italiano che viene fatto in 56 giorni mentre gli attori non sanno che cosa vanno a doppiare: il massimo dell’alienazione. Il doppiaggio in Italia avviene così, no? Si chiama un attore, di solito perché partecipa a una certa cooperativa, e dunque spesso neanche adatto al personaggio, viene messo davanti a un testo che non conosce, vede soltanto quei brani che lo riguardano, doppia rapidissimamente — con uno stile ormai meccanico — la sua parte e poi se ne va, prende i soldi, e basta. Noi in realtà eravamo contrari al doppiaggio, ma nel mercato italiano è molto difficile sfuggire…

GR: Tu sei favorevole ai sottotitoli…

DM: Sarei per i sottotitoli, contro il doppiaggio, naturalmente, e anche Pasolini lo era, perché trovo che la lingua originale è molto più efficace. Però finora il mercato italiano ha rifiutato decisamente qualsiasi forma di film con sottotitoli. Adesso forse le cose stanno cambiando. Allora, comunque, noi abbiamo tentato di realizzare un doppiaggio che fosse più umano, un doppiaggio nel quale gli attori fossero consapevoli di ciò che facevano, conoscessero il film, venissero scelti perché veramente adatti a quella parte e non soltanto in base a opportunità di mestiere. Tutto questo con una calma, una attenzione che di solito non si usa.

GR: Siamo al termine dell’intervista. Non so, se vuoi aggiungere qualcosa…

DM: Io vorrei adesso semplicemente dire una cosa che credo sia bene dire: anche se qui parliamo di tutt’altro, delle sue opere, dei suoi film, non bisogna dimenticare che è importantissimo oggi prendere posizione per far capire che non bisogna ucciderlo un’altra volta. Secondo me Pasolini è stato ucciso dall’intolleranza della nostra società profondamente repressiva, falsamente tollerante. E adesso si rischia di ucciderlo un’altra volta, proprio per intolleranza, perché in un certo senso questo ragazzo che l’ha ucciso sta diventando la vittima e lui il colpevole. Questo non deve accadere, bisogna prendere posizione contro ciò che hanno scritto, non so, Filippini su “Repubblica”, e altri. Questa società ha eliminato Pasolini, per mano di quello che vuoi, di un ragazzo inconsapevole, incosciente, immaturo, però oggi sta cercando di eliminarlo di nuovo facendone un colpevole, mentre basta riflettere un attimo su quello che è stato fatto di questo povero corpo di uomo mite (perché era assolutamente un uomo mite, non sadico) per capire che non può assolutamente passare dalla parte dei colpevoli: la sua unica “colpa” era quella di essere dichiaratamente omosessuale. (Marzo 1976)

Da: AA.VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano 1976 Gammalibri/Kaos Edizioni, Milano

Natalia Ginzburg

Nell’ultimo film di Pasolini, Salò, i primi quindici minuti sono bellissimi. Sull’inizio, c’è una campagna chiara, vaporosa, piovosa, immersa in un’aria umida non sapremmo dire se primaverile o autunnale, una campagna di erbe tenere e di strade grigie, che solcano rare biciclette.

C’è una villa, alta, ricca, imponente e solenne. La pesantezza della villa e la chiarezza della campagna ci conducono in una direzione che ci dà sgomento. Ragazzi dalle guance colorite dal freddo vengono catturati su quelle strade. A uno di loro, la madre singhiozzando porta una sciarpa, mentre lo trascinano via. Un bambino quietamente lo saluta, senza smettere di giocare. Egli quietamente risponde, senza volgere il capo. Nella villa, a un vasto e lucido tavolo, dinanzi a una vetrata che dà sul giardino, quattro uomini stabiliscono che faranno, degli adolescenti raccolti e catturati nelle vicine campagne, ciò che hanno deciso di fare.

Il silenzio che all’inizio ci investe è come una raffica di vento che ci trasporti nelle profondità d’un pianeta diverso dal nostro. Placata quella raffica di vento, noi ci accorgiamo d’essere caduti in uno stato di immobilità, come se fossimo stati colpiti da una malattia o da un freddo improvviso, e ci sembra d’avere perduto ogni nostra sensibilità abituale. Dello sgomento che avevamo provato all’inizio, non c’è in noi più traccia. Non sentiamo né orrore, né ripugnanza, né ribrezzo. O meglio, il ribrezzo e l’orrore sono in noi leggeri e gelidi, e a poco a poco non ne avvertiamo più il minimo segno. In seguito, quando ricordiamo il film, ciò che ricordiamo con vero orrore sono degli accordi di pianoforte, un fruscio di vesti o un luccichio d’anelli, voci untuose e vellutate, e specchi e tappeti e cristalli, come se il vero orrore fosse tutto addensato nello scenario; e ciò che ricordiamo con maggiore ribrezzo è la campagna dell’inizio, l’erba e le strade e gli alberi e le biciclette, come se là ci fosse addensata tutta l’indegnità e l’abbiezione. Ma nel corso del film, davanti alle azioni turpi e alle risate lunghe e lugubri, e davanti agli escrementi e al sangue, non sentiamo nulla, salvo un senso di oppressione al respiro, e un senso di immobilità. Non sentiamo pietà per i ragazzi, né odio per i loro persecutori. Siamo caduti in preda a un’indifferenza smorta, che trascolora il mondo ai nostri occhi.

Un simile stato d’animo è di una tristezza tremenda, ma ce ne accorgiamo soltanto all’ultimo, venendo via. Ora il giudicare della natura e della qualità di tale tristezza è oggi, credo, un’impresa disperata: perché nessuno di noi è oggi in grado di separare l’idea del film dall’idea della morte di Pasolini, così come essa è avvenuta nella realtà. Nessuno riesce a non pensare, venendo via, che questo è l’ultimo film che ha fatto, e che lui di film, brutti o belli, non ne farà mai più; e nessuno riesce a non pensare che egli ha passato gli ultimi tempi della sua esistenza in compagnia di queste immagini ossessive e immote. Venendo via, comprendiamo però che quella che ci era sembrata in noi una insensibilità fulminea, o la discesa in un pianeta diverso dal nostro pianeta abituale, era in verità la contemplazione, a occhio nudo e senza schermo alcuno, dell’idea della morte.

In ogni opera creativa è presente l’idea della morte, ma affiancata all’idea della vita; qui, l’idea della morte è ritagliata fuori da ogni idea della vita, e ogni idea della vita è per sempre assente. Essendo l’idea della vita per sempre assente, subito abbandonata all’inizio e non più ritrovata, né pianta, né invocata, né sperata o pensata, ed essendo le rare lacrime versate in qualche istante da qualcuno dei ragazzi non angoscia o rimpianto o collera ma orme e impronte così leggere che subito una brina o una coltre di polvere le copre e cancella, noi cadiamo in una condizione di spirito dove gli echi della vita non ci raggiungono più e dove assistiamo a strazi e supplizi con immemore indifferenza. Contempliamo l’idea della morte con la medesima fissità immota della fantasia che l’ha generata.

In presenza di questo film, e nel ricordarlo, tutte le parole che adoperiamo di solito ci sembrano improprie e false. Falso è definirlo fallito, falso definirlo riuscito. Né fallito né riuscito, ma remoto dalle frontiere nelle quali di solito giudichiamo le cose, esso ci lascia un senso di profondo malessere, che insorge in noi dopo l’insensibilità, un malessere e un’angoscia che non mandano né luce, né suono. Falso è definirlo osceno, e definirlo casto sarebbe forse altrettanto falso, essendo qui la castità e il pudore stranamente presenti ma gelidi. Falso definirlo allucinante, falso definirlo crudele. Esso in verità non ha aggettivi, come non ha aggettivi l’idea della morte, e potremmo soltanto definirla immota, spoglia e solitaria. Esso è sconfinatamente lontano da tutto ciò che siamo usi percorrere, amare, detestare e calpestare.

Da Il Mondo, 4 dicembre 1975

Leonardo Sciascia

Ho visto una volta, per cinque minuti, un film pornografico. A differenza di Catone nell’epigramma di Marziale (tradotto da Concetto Marchesi: «Tu conoscevi il dolce rito della giocosa Flora, / e l’allegria della festa e la libertà della gente. / E allora perché sei venuto a teatro, o severo Catone? / O sei venuto soltanto per questo: per uscirne?»), non sapevo quali sarebbero state le mie reazioni di fronte a un simile spettacolo. Presumevo anzi che mi sarebbe piaciuto, piacendomi la letteratura erotica e libertina. Mi sono invece trovato davanti a dei corpi umani ridotti a una pura e triste meccanica e ho fatto l’immediata constatazione che di pornografico, in un film pornografico, ci sono soltanto gli spettatori. Se fossi rimasto oltre, mi sarei molto annoiato e un po’ vergognato.

Giorni addietro, a Roma, vedendo l’ultimo film di Pasolini mi sono trovato in una condizione del tutto diversa. Questo per dire subito che se sono arrivato a sperare che questo film lo vedano pochi, ci sono arrivato da ben altra parte. Mentre le immagini scorrevano sullo schermo, non mi sentivo pornografo ma vittima. Vittima del dovere di vederlo, vittima dell’attenzione con cui ho sempre seguito Pasolini, vittima — perché non dirlo? — del mio cristiano amore per lui, di un amore che forse sfiora il concetto — cristiano e cattolico — della reversibilità. Ho sofferto maledettamente, durante la proiezione. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a non chiudere gli occhi, davanti a certe scene: e nel buio diciamo fisico che si faceva in me, precario conforto a quell’altro, morale e intellettuale, che dilagava dallo schermo, disperatamente e come annaspando cercavo nella memoria immagini d’amore. Poi venne, da una delle vittime — da una di quelle che anche nelle didascalie iniziali, coi loro nomi anagrafici, sono definite vittime –, venne l’invocazione-chiave, l’invocazione che spiega il senso del film e l’impressione che produceva in me: «Dio, perché ci hai abbandonati?». Lo stesso grido di Cristo nel Vangelo di Marco: «Eloi, Eloi, lama sabactani?».

A questo punto, a spezzare provvidenzialmente l’effetto del film, mi affiorò il ricordo di una battuta di Jean Paulhan quando, testimoniando a favore di Jean-Jacques Pauvert, imputato per la ristampa delle opere di Sade che veniva facendo, alla domanda del giudice: «Dunque lei non crede che le opere di Sade siano pericolose?», aveva risposto: «Pericolosissime: conosco una ragazza che dopo averle lette si è fatta monaca». Questa battuta, meno paradossale di quanto sarà parsa al giudice (nella migliore delle ipotesi: ché è possibile l’abbia intesa a carico invece che a discarico di Pauvert), veniva a porre la questione del film di Pasolini in rapporto alla censura, e il problema stesso della censura, nei termini più esatti e più giusti. Il film di Pasolini è senza dubbio importante: importante come conclusione della sua autobiografia, importante per chi come me sente il bisogno di ricostruire la sua vita, di spiegarsela, di capirla con umiltà e insieme con pietà; di capire la sua scelta, di capire il suo «suicidio». Ma a che serve, per la generalità degli spettatori; a che serve per le masse che lo consumeranno? Lasciando da parte i pochissimi che a vederlo possono sentirsi insorgere delle latenti perversioni o trovare una forma di appagamento a quelle coscienti, i più non ne avranno che nausea ed orrore: e o sentiranno l’impulso di ripagare con la violenza tanta violenza (magari sfasciando il cinema) o sentiranno tanta disperazione e dannazione da trovarsi ad invocare Dio come nel film la vittima, come la ragazza di cui dice Paulhan che si è fatta monaca dopo aver letto Sade.

Ora, decisamente, tanto per stare alla battuta di Paulhan, è appunto questo che non vogliamo: che le ragazze si facciano monache. Facendo il film che ha fatto, Pasolini ci ha avvertito di questo pericolo. E anche morendo come è morto: di una morte in cui gli elementi «libertari» sono sovrastati e annichiliti dagli elementi «cattolici». Ma noi dobbiamo difendercene. E non dico noi per dire questa società, questo Stato, tutto quello che Vittorini chiamerebbe morte e putredine — che hanno se mai non il diritto di difendersi ma il dovere di dissolversi; ma noi che ormai sappiamo quello che siamo e quello che vogliamo: anche se stretti tra le delusioni storiche nuove e le tentazioni metafisiche vecchie.

Da Nero su nero, Milano Adelphi, 1991, pp.119–120)

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.