Sacrificio di Tarkovsky nella critica del tempo

L’albero della vita

Mario Mancini
13 min readJan 15, 2024

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Film del 1986, scritto da Andrej Tarkovskij
Regia di Andrej Tarkovskij; con Erland Josephson (Alexander), Gudrun Gisladottir (Maria), Susan Fleetwood (Adelaide), Sven Wollter (Victor), Valérie Mairesse (Julia), Allan Edwall (Otto)
Premi: Grand Prix speciale della Giuria del Festival di Cannes del 1983
Durata: 2h 28m
Streaming: YouTube

Mentre Alexander, un anziano ex attore, circondato da moglie e da figli sta celebrando il suo compleanno, la tv annuncia che è scoppiata la guerra atomica. L’uomo cade in ginocchio, offrendo tutti i suoi beni in cambio della salvezza dei suoi cari. Il giorno seguente, dopo aver offerto il suo amore ad una delle domestiche, convinto che questo servirà a scongiurare i pericoli, scopre che tutto è tornato normale. Fedele al voto, dà fuoco allora alla casa; viene portato via in ambulanza, creduto folle. Un invito a ritrovare i valori spirituali.

Tullio Kezich

Testamento spirituale di Andrei Tarkovskij, costretto all’esilio dall’ottusità dei burocrati pre-Gorbaciov e accolto come un fratello in cinema nella Svezia di Bergman. Dal mondo poetico del suo ospite, il russo trae toni e colori, paesaggi e personaggi di questa moralità in forma di fiaba, dove Alexander, eroe stanco e allarmato, vive l’incubo della catastrofe nucleare tra il sonno e la veglia.
Ma anche se si è trattato di una fantasia, l’uomo che ha promesso a Dio il sacrificio di se stesso per la salvezza di tutti non può tirarsi indietro: santo e profeta nella dimensione morale, nella realtà è considerato un pazzo di manicomio.
Erland Josephson modula la più alta delle sue interpretazioni al servizio di un personaggio che porta il peso di una terrificante missione soterica; e suggerisce con arte finissima l’ineluttabilità della scelta che oggi si pone al mondo, tra il rifiuto del consumismo e l’apocalisse nucleare.
Tutto questo era stato pensato, scritto e girato prima di Cernobyl: la realtà non ha fatto che rendere più nevralgici i termini del problema. Tarkovskij filma in maniera ritualistica e solenne, memore della pittura di Munch e dei drammi di Strindberg: i simboli emergono con limpidezza, a cominciare da quello dell’albero stecchito che va innaffiato tutti i giorni come se potesse ancora dare frutti.
Ciò che l’autore indica ancora come un valore, giunto al colmo dell’amarezza e alle soglie della morte, è la ripetitività di un gesto quotidiano, magari assurdo, che nel contenere un microcosmo di speranza diventa un sostitutivo laico della preghiera.

Da Il filmnovanta: cinque anni al cinema: 19861990, Mondadori, Milano, 1990

Stefano Reggiani

Avvicinamento a Bergman

Opera di un poeta, malato e lontano, lettera indirizzata al figlio “con speranza e fiducia” nelle generazioni che verranno, parabola sulla necessità del sacrificio e sul dovere di non mutilarsi nello spirito, invito a reagire personalmente (religiosamente) alla rassegnazione, il nuovo film di Tarkovskij, Sacrificio, già campeggia nobile fiero e magari irritante (la poesia non è mai carezzevole).
Si sa cos’è stato il peso dell’esilio volontario per Tarkovskij: l’impossibilità di espatriare idealmente nella bellezza (Nostalghia), la battaglia per avere dall’Urss i familiari, certe delusioni laiche, l’avvicinamento al gruppo integralista cattolico di Comunione e Liberazione, il lavoro in Svezia, con capitali svedesi e francesi, per dare voce al Sacrificio.
Raccontiamo la storia dal basso, come se fosse il paesaggio di una malattia dentro un mondo irrecuperabilmente materialista, una prosecuzione delle nevrosi bergmaniane di Luci d’inverno dove il silenzio di Dio s’accompagnava alla paura del pericolo assoluto, dell’atomica.
Su un lembo di costa svedese bergmaniano, dentro una casa splendidamente fotografata nei mezzi toni del bergmaniano Sven Nykvist, un ex attore e famoso saggista (l’ultra bergmaniano Erland Josephson) vive quasi nascosto dal mondo con la moglie, una figlia adolescente e un figlio ancora bambino e amatissimo. La sera del suo compleanno vengono degli amici a pranzo, un medico forse ex amante della moglie, l’impiegato postale bizzarro studioso del paranormale, una misteriosa Maria finlandese.

Una preghiera rivolta a Dio

L’ora grigia del lungo crepuscolo s’insinua tra le stanze e le chiacchiere, insieme con la luce lattiginosa della televisione e la voce incerta del primo ministro, che mormora affranta: raccomando a tutti la calma, una base missilistica è stata colpita, non ci sono in Europa posti sicuri, restate dove siete… Poi cade la corrente, s’interrompe il telefono, passano a bassa quota due aerei a reazione, la luce è ancora più livida.
È possibile che sia accaduto? La moglie ha una crisi di nervi, il bambino dorme (che cosa fare perché non si svegli nel mondo cambiato e finito?), Josephson interrompe le sue meditazioni e i suoi incubi (lampi in bianco e nero di una realtà decaduta e miserabile) per fare una preghiera: Signore, io ti sacrifico tutto, rinuncio a tutto, la casa, i figli, il lavoro, se tu riporti il mondo a poche ore fa, se cancelli ciò che è avvenuto. Consuma il resto della notte prodigiosamente librato tra le braccia pietose di Maria, seguendo il consiglio dell’impiegato postale (“È una strega, in senso buono, ha dei poteri”).
Il giorno dopo tutto sembra normale, il sole, le chiacchiere, la serenità. Josephson ammonticchia i mobili, dà fuoco alla casa e alla macchina, si lascia prendere dagli infermieri del manicomio, tace, non dà spiegazioni, fedele alla consegna di annullarsi. Resta il bambino, a innaffiare un albero bruciato che forse un giorno fiorirà.
Se stiamo alla storia bassa, il sacrificio ha placato in un malato la paura e ha dissipato, almeno per uno, gli incubi. Oppure possiamo aprire la porta del non materialistico, possiamo prendere atto che la violenza atomica prima c’era e poi se n’è andata, che il mondo è fatto di tanti incommensurabili momenti, basta un nulla (un nulla?) per cambiare la storia, per revocare la dannazione, anche il sacrificio di uno solo.

Il versante religioso

Su questo versante «religioso» post-bergmaniano e anti-bergmaniano, la discussione continuerà, la voglia di spiritualità, di assoluto e di sacrificio sta riprendendo in una parte della cultura, perché risponde all’efficienza inflessibile della tecnologia (il sacrificio nell’antichità era il prezzo che si pagava all’ordine del mondo e alla sua sopravvivenza).
Ma poeticamente, nell’unica chiave di lettura legittima e indiscutibile, Tarkovskij ha voluto espiare da solo le colpe della cultura materialistica, un ordine e una premessa alla distruzione che ci sfuggono perché è caduto il limite simbolico del sacrificio.

Se nessuno rinuncia, tutto continua peggio di prima. (Forse anche Tarkovskij ha provato quelle furie adolescenti tra gli anni cinquanta e sessanta: Signore, distruggimi, purché gli altri siano salvi). La malattia del poeta rende più triste e autentico il voto solenne contro la sconfitta universale.

Da La Stampa, 13 maggio 1986

Giovanni Grazzini

L’ultimo film

“Lunga vita a Tarkovskij” augurammo nel maggio dell’anno scorso, quando Sacrificio vinse a Cannes il gran premio speciale della giuria, mentre avrebbe invece meritato la Palma d’oro. Non fummo ascoltati (Tarkovskij è morto alla fine dell’86), né il regista ha fatto in tempo a vedersi ufficialmente riabilitato, per le conseguenze del V Congresso, nel proprio paese, che lo aveva indotto all’esilio.
Ma il suo ultimo film, soltanto ora arrivato nelle nostre sale, ne è il testamento stupendo: uno di quei rarissimi film che, come dicemmo, dovrebbero essere visti in ginocchio. Per accostarsi con più devozione alla loro anima religiosa, e per esprimere meglio la nostra riconoscenza nei confronti di autori che, segnati dalla grazia, ci compensano del cinema sporco, stupido, banale da cui siamo quotidianamente assaliti.

Richiamo a Nostalghia

Se avete visto Nostalghia ricorderete Domenico, che per protesta si dà fuoco sulla piazza del Campidoglio. Un suo fratello maggiore è Alexander in Sacrificio: un attore ritiratosi dalle scene, che soffre di tutti i disagi della nostra civiltà, e ha cercato rifugio con la moglie, la figlia e un bambino in una casa di legno ai bordi d’un lago.
Alexander dice di non avere rapporti con Dio: è diviso fra la speranza della verità e la paura del presente. Fra gli amici venuti a festeggiare il suo compleanno c’è Otto, un ex professore che ora fa il postino, affascinato dal paranormale.
È anche perché turbato dai racconti di Otto che Alexander, quando la Tv annuncia una catastrofe nucleare contro la quale non c’è difesa, ritrova le parole del “Pater noster” e fa voto di rinunciare a tutto purché Dio salvi i suoi cari. E nel cuore della notte (per cui forse è vittima d’un incubo) raggiunge una serva islandese, non a caso di nome Maria, con la quale si unisce, e grazie all’amore levita nella penombra.

L’angoscia del futuro

Sia stato miracolo o magia, l’indomani la vita nell’isola sembra tornata normale. Credendo esaudito il suo voto, Alexander mantiene perciò la promessa; dà alle fiamme la casa mentre i familiari sono a passeggio, e senza più dire parola si lascia portar via da un’autoambulanza. I suoi si disperano, Maria osserva in silenzio, il bambino annaffia l’albero piantato dal padre: verrà pure il giorno in cui dovrà fiorire…
Sacrificio fu dedicato da Tarkovskij al proprio figlio con l’angoscia di chi non vuol perdere la nozione di futuro ma anche crede di sapere che il terrore della nostra età può, e forse deve, dettare gesti clamorosi, nei quali si esprima la demenza sublime dei mistici. Scomparso Tarkovskij, ci sentiamo in molti partecipi di quella dedica, in molti leggiamo nell’ultima scena del film la consolazione dell’attesa. Non occorre infatti essere cristiani per accogliere il suo appello straziante e misterioso perché la società, dimezzata dall’edonismo, riacquisti il senso dei valori spirituali e ricomponga l’armonia perduta, anche a prezzo di quel folle olocausto, di quel consegnarsi al silenzio, con cui l’uomo può eroicamente affermare la propria libertà.

L’intreccio dei motivi

Come altri di Tarkovskij, talvolta oscuro e gremito di simboli (torna spesso l’immagine del putridume), Sacrificioè film che può lasciare storditi per la complessità dei suoi motivi: la stregoneria dell’arte, l’incomunicabilità familiare, la violenza fatta dall’uomo alla natura, l’ansia di fuggire, le prevaricazioni della scienza, i conforti della musica, il dono grande della parola.
Ma li aggruma in uno spettacolo, stilisticamente memore di Bergman — anche perché girato nell’isola svedese di Gotland, fotografato da Sven Nykvist, interpretato dal magistrale Erland Josephson, e con le scenografie di Anna Asp, la stessa di Fanny e Alexander — di fascino immenso, radicato in quello spiritualismo slavo, con echi di Dostoievskij, del quale Tarkovskij è stato nel cinema di parabola il supremo testimone.
Le sue immagini sono d’una densità irripetibile, i suoi movimenti di macchina sono memorabili, le sue luci sono livide e accecanti con splendidi squarci, ed è eccezionale il sonoro: non Bach soltanto ma il rombo del turbine atomico, e i lontani richiami dei pastori, gli sgocciolii, i ticchettii d’una pendola, le grida degli uccelli, e quei tocchi di musica giapponese che accentuano l’astrazione.
Sacrificio è un messaggio estremo, chiuso nella bottiglia del cinema e lanciato nel nostro marasma. Chi sa raccoglierlo e leggerlo torna a provare due brividi forse dimenticati: il brivido dell’arte, il brivido della preghiera.

Da Il Corriere della Sera, 30 maggio 1987

Roberto Escobar

Un film che dà da pensare

È come se Tarkowskij avesse fuso un’enorme, sonante campana: la sua opera, in tutto sette film nell’arco di venticinque anni, è l’equivalente della scommessa di Boriska, il ragazzino che nel finale di Andrei Rublëvrischiando la vita si getta nell’impresa.
E noi spettatori, così come il grande monaco pittore, al rintocco della campana costruita dal ragazzo miracolosamente siamo tratti dal silenzio, dalla disperazione, dal nulla. Si può vivere, si può parlare, si può avere fiducia negli altri perché qualcuno, miracolosamente, testimonia l’esistenza di un senso possibile.
Certo, è difficile mantenere in ogni opera la perfezione formale e il pathos espressivo di L’infanzia di Ivan e diAndrej Rublëv, oppure la capacità evocativa di Lo specchio e di Solaris: tuttavia anche Sacrificio, come il precedente Nostalghia, pur nell’accavallarsi non sempre completamente risolto di temi, suggestioni, visioni risulta un’opera che “dà da pensare”, che si propone come sofferta riflessione sulla condizione umana.
I due film sono accomunati dalla dura esperienza personale dell’autore, costretto a un esilio doloroso, soprattutto sofferto per la lontananza della terra russa, della dacia vicino a un fiume, del figlio minore. È appunto a questo figlio, al quale è stato poi concesso in un secondo tempo di ricongiungersi al padre, che Tarkowskij dedica Sacrificio, ancora una volta cercando di scacciare le ombre della morte con un atto di disperata fiducia nel futuro.

La metafora dell’albero secco

“Ometto”, il bambino senza nome e senza parola al quale l’autore affida la possibile salvezza dell’umanità, innaffia nell’inquadratura finale un albero secco, “sapendo” che un giorno rispunteranno le gemme, e contemporaneamente pronuncia le uniche sue parole di tutto il film: “In principio era il Verbo: perché papà?”. È questo senz’altro il momento più alto e misterioso di un’opera affascinante proprio perché non perfetta, coinvolgente al di là di un estenuante tempo narrativo perché impregnata di sincerità e autenticità.
Tarkowskij, in vita, godeva fama di uomo chiuso e un po’scontroso, quasi infastidito dal “rumore” del mondo: ci resta ora la sua opera (nella speranza che Rublëv, da anni scomparso dalla circolazione, sia di nuovo disponibile) a testimonianza di una eccezionale comprensione dell’esperienza umana, intesa come pienezza integrale di corporeità e spiritualità.
Un volto tragicamente teso, scavato: così inizia la prima inquadratura di Sacrificio, su un particolare dell’Adorazione dei magi. Poi la cinepresa risale lungo l’albero che sta nella parte destra del quadro di Leonardo, fino a scoprirne le foglie, verdi e vive. Il movimento di macchina, lento verso l’alto, è un’apertura alla speranza e anticipa l’ultima parte del film, la più commossa e intensa.
Nella seconda inquadratura, un altro albero si alza al cielo. È disseccato e tende i rami spogli, invocante. Occorrerà curarlo, quest’albero che sembra non avere più diritto alla speranza, dice Alexander al figlio.
Occorrerà portargli ogni giorno dell’acqua, e prima o poi tornerà vivo.

L’eterno ritorno dell’uguale

Ora, la stessa inquadratura uno splendido piano-sequenza introduce un nuovo elemento: su una bicicletta arriva Otto, il postino. I tre si incamminano verso casa e intanto Otto gira attorno ad Alexander e al figlio, in cerchi che si rincorrono uguali. Come i “malvagi” di cui da qualche parte scrive sant’Agostino, anche Otto “corre in cerchio”.
È questo, appunto, il tema nuovo. Otto è un seguace molto sui generis di Nietzsche. Alla terribile insensatezza del mondo oppone l’annuncio dell’eterno ritorno dell’uguale, nella versione che, in Così parlò Zarathustra, è del “nano”. Tutto è destinato a tornare, il tempo è un cerchio. Può bastare questo ad Alexander, uomo senza più certezze e senza più speranza?
Bisognerebbe credere che una verità, la verità — dice — sia conoscibile, per accettare una tale visione del mondo, o qualunque altra pretenda tanta assolutezza.
Ma è proprio della verità che non è più sicuro. Mentre i due uomini discutono, il bambino lega con una lunga corda la bicicletta di Otto a un arbusto. Quando il postino riparte, i tre ridono. Il riso — questo riso leggero che viene da un bambino — chiude l’inquadratura.
Tutto ciò che Sacrificio dice e cerca è già nel prologo che, insieme con le ultime immagini, fa del film un grande film. Fino all’epilogo, però, Tarkowskij non arriva più nemmeno vicino a tanta purezza di immagini, all’essenzialità dei temi introdotti con tanta semplicità e leggerezza.

La speranza

A poco a poco, Alexander entra nel buio terrore di Stalker (1979), di cui tornano anche le vive con totale immediatezza la fede e la saggezza da essa suggerita (anche Nietzsche, che Tarkowskij sembra assumere come “Anticristo”, era affascinato da questo personaggio di Dostoevskij). Ora finalmente, dopo il sacrificio, il film ritrova la grandezza e la leggerezza del prologo.
Il figlio di Alexander, tornato all’albero disseccato, lo cura con fedeltà. Sdraiato alle sue radici, chiede al padre assente: “In principio era il verbo: cosa significa, papà?”. Sono le sue prime parole. Da lui, da un bambino, riprende il nuovo inizio, dalla sua parola sotto l’albero della vita, come nel grande quadro di Leonardo. Ora che Tarkowskij è morto, in questa immagine e in questa domanda si sente ancora più forte la sua disperata speranza, insieme con uno struggente senso della paternità. “Dedico questo film a mio figlio, con speranza”: così si chiude l’ultimo film di Andrej Tarkowskij, atterrito indagatore del sacro. Post scriptum per nietzschiani.
Cosa penserebbe Nietzsche di Sacrificio? Direbbe, forse, che il nano fa una triste, diabolica caricatura dell’eterno ritorno. Il suo eterno ritorno è solo un ritorno senza fine delle terribili cose della vita. Il nano, e con lui Otto e Alexander, prendono la questione con spirito di pesantezza.
Per Zarathustra, invece, l’eterno ritorno sta “sulla soglia dell’attimo”. È eterno, non infinito. È la universale innocenza del divenire, l’amore della superficie di chi abbia scrutato nelle profondità umane, troppo umane del dolore. È il gioco leggero di un fanciullo, l’amo d’oro che riconquista alla vita. Secondo Nietzsche, il dolce principe Myskin è a un passo da questo fanciullo che ride. E che, ridendo, libera il mondo dal terrore metafisico di Alexander. Ecco, forse Nietzsche troverebbe splendidamente “leggeri” il prologo e l’epilogo, con il riso liberatore e la gioia che vengono dal gioco di un fanciullo.

Da Il Sole 24 Ore, 14 Giugno 1987

Claude Beylie

Una sera d’estate nell’isola di Gotland. Ci sono Alexander, scrittore ed ex attore, che non crede più nel potere delle parole; la moglie Adelaide, che non è certa di aver fatto bene a sposarlo; il loro bambino, che ha subito da poco un’operazione alle corde vocali e non può parlare; una serva devota e un po’ strega; un postino filosofo che racconta strane storie dei tempi andati.
Si festeggia il compleanno del padrone di casa, ma la notte è lunga. Alla televisione viene annunciata una catastrofe nucleare. Ognuno si chiude in se stesso come in una conchiglia.
Per scongiurare il male, la disperazione, il dubbio, l’angoscia fisica e morale che assediano tutti, Alexander sacrifica la casa e la sua ragione in uno slancio assurdo e sublime di mortificazione.
Ai piedi di un fragile arbusto, la vita potrà riprendere e il Verbo di nuovo farsi carne, nel bambino, come all’inizio del mondo. “Questo film è dedicato a mio figlio Andrjuska. Con la mia speranza e la mia fiducia”, ha scritto Tarkovskij sull’ultima immagine di questo splendido poema esoterico, pieno di riferimenti culturali (Shakespeare, Cechov, Leonardo da Vinci…), di metaforme, di finezze plastiche, di elevazione spirituale e di immediate emozioni.
Dopo Andrei Rublëv il regista russo aveva percorso un lungo cammino, fatto di brancolamenti, di introspezioni manieriste (Nostalghia, 1983) e di purificazione interiore.
Con due titoli chiave: Solaris (1972) e Stalker (1979). Con Sacrificio egli ha toccato il vertice della propria arte. Colpito dallo spettacolo di una società occidentale dominata dall’egoismo e dal materialismo, dall’assenza nella nostra cultura di ogni ricerca spirituale, ha avuto voglia “di mostrare che si può riannodarne con la vita, ricomporre l’alleanza con se stessi, conquistare una sorta di autonomia moral” a prezzo, ovviamente, di un’ascesi radicale, della dimenticanza assoluta di sé in una prospettiva palingenetica.
Quest’austera esigenza ha trovato in Sacrificio (girato in Svezia) un’illustrazione esemplare. Un uomo (lo stesso Tarkovskij?) fa il bilancio di una vita di sofferenza e di speranze deluse e si offre in olocausto perché il mondo ritrovi la sua anima. Trasmettendo la fiaccola a un piccolo essere fragile e muto.

Da I capolavori del cinema, Vallardi, Milano, 1990

Georges Sadoul

Nonostante il male che lo avrebbe ucciso e strappato al suo paese, Tarkovskij ha fatto del suo ultimo film un’opera sconvolgente. Si può parlare di serenità della regia, di dolcezza nei movimenti della macchina da presa che gira intorno a una casa isolata in un’isola svedese, mentre si tratta invece dell’angoscia dell’apocalisse nucleare, degli sconvolgimenti del mondo, in una dolorosa meditazione.
Ed il film potrebbe chiudersi con la follia del vecchio che guarda, senza una parola, bruciare la propria casa, oggetto di tutte le sue cure, che lui stesso ha scelto di incendiare. Un sacrificio totale: distruggere la casa, centro di gravità visivo di tutto il film (e ben lo dimostra il primo, straordinario piano-sequenza), e distruggere anche la propria identità: lasciarsi credere pazzo, continuare a vivere ma cancellato dal consorzio umano, per scongiurare il male che sta per abbattersi sul mondo.
Potrebbe finire qui il film, ma improvvisa giunge l’ultima immagine: un bambino ai piedi di un albero spoglio, l’albero che quest’uomo, suo padre, ha piantato per lui.

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.