Ryūichi Sakamoto. Sognare la musica del futuro
di Daniele D’Orsi
da: “Sentieri Selvaggi”, numero 16 novembre 2023, pp. 18–25
Vai alla serie “Profili di innovazione”
Vai agli altri articoli della serie “Scampoli d’arte e di pensiero”
“Prego di poter continuare a creare musica fino all’ultimo momento. Proprio come Bach e Debussy”.
Queste parole, espresse da Ryūichi Sakamoto in occasione dell’uscita del suo ultimo album-diario, 12, testimoniano non solo la personalità di uno dei più grandi compositori dell’era moderna, ma un vero e proprio atto di fede: nei confronti dell’arte musicale, così come della vita.
Perché l’autore, scomparso all’età di 71 anni dopo una lunga malattia, ha votato la sua intera esistenza alla sperimentazione, cadenzando ogni momento della sua quotidianità con i suoni di un’espressione estetica mai stagnante o immobile.
Ma sempre proiettata al futuro. E alla necessità di dischiudere un sogno cosmico, che attraverso l’astrazione portasse tutti noi a confrontarci con le fragilità più intime e sepolte dell’animo umano.
La formazione da etnomusicologo
Sin dai tempi in cui era un giovane ragazzo “desideroso di vivere all’insegna dell’arte”, Ryūichi Sakamoto si è distinto per un’originalità creativa formidabile, da non collegare al suo solo talento istrionico: ciò che ha reso davvero grande l’autore, la cifra della sua immortalità artistica, è da ritrovare proprio nella capacità di rendere popolari dei generi musicali ancora acerbi o poco sdoganati a livello di cultura di massa.
Se la formazione da etnomusicologo gli permette di conoscere e nutrirsi della saggezza estetica dei grandi autori del passato, è la propensione a intercettare ciò che funziona nella modernità ad aprirgli la strada del successo.
Insieme a menti altrettanto avanguardiste come il super-produttore Haruomi Hosono e al cantante e percussionista Yukihiro Takahashi scomparso, anche lui, agli inizi dell’anno — forma nel 1978 una band che rivoluzionerà il modo di concepire e intendere la musica elettronica: la Yellow Magic Orchestra.
La Yellow Magic Orchestra
Il loro album di debutto, un mix di melodie computerizzate, sintetizzatori ed elementi mutuati dalle sonorità funk, permette la creazione di suoni fino ad allora mai codificati, anche grazie all’uso esteso del microprocessore Roland MC-8 su cui, ad esempio, si struttureranno tutte le prime espressioni sonore dei videogame, quando il videoludico (in Giappone, come nel mondo) non era ancora entrato a far parte dell’immaginario collettivo né tanto meno si era costituito come realtà industriale.
Ma la grandezza di Ryūichi Sakamoto non è da legare solo ai modi in cui ha tracciato le vie del synth-pop.
L’approdo al cinema
Come per molti dei grandi artisti della seconda metà del Novecento, trova nel cinema — il primo grande amore dell’autore, insieme alla letteratura — la sublimazione della sua espressione artistica. È con Merry Christmas, Mr. Lawrence (1983) che la parabola estetica del compositore prende una piega diversa, per entrare definitivamente nei lidi dell’immortalità.
Il film, infatti, oltre a rappresentare l’inizio della sua carriera nella composizione cinematografica, ne segna anche il debutto come attore. Nagisa Ōshima, stregato dal carisma del musicista, lo scrittura nei panni del violento e represso Capitano Yonoi, affiancandolo– guarda caso — a un altro artista che in quegli stessi anni stava cambiando i codici della modernità musicale: David Bowie.
Una coppia vertiginosa
Insieme, neanche a dire, formano una coppia vertiginosa. Ed è proprio in una vertigine che troviamo il senso del film, e forse della sua musica tout court: il prigioniero interpretato da Bowie, in faccia all’ennesimo sopruso commesso dai soldati giapponesi, si avvicina a passo lento a Yonoi; resta lì fermo, immobile.
Non teme le conseguenze, perché sa che l’uomo che ha di fronte è solo una pedina nelle mani dell’esercito. Lo bacia sulle guance, e scatena nel capitano tutti i sentimenti omoerotici fino a quel momento repressi sotto il velo del machismo; Sakamoto sviene, accompagnato dagli arpeggi onirici della sua stessa musica.
Una scena-manifesto, forse un po’ dissonante, ma che restituisce perfettamente la cifra caratterizzante della musica del compositore: il senso di vertigine.
L’incontro con Bertolucci
Dopo Furyo, la carriera di Ryūichi Sakamoto prosegue a ritmi incessanti. Sempre al cinema Bernardo Bertolucci lo sceglie per musicare il suo film di maggiore successo commerciale, L’ultimo Imperatore, che porterà il compositore giapponese a vincere nel 1988 l’Oscar per la miglior composizione musicale.
Per il regista italiano scriverà alcune delle partiture più significative della sua carriera, in particolare quella per Il tè nel deserto (1990) adattato dall’omonimo romanzo romanzo di Paul Bowles, un’opera che Sakamoto riscoprirà in uno dei suoi ultimi lavori da solista, realizzato nel pieno della malattia.
ASYNC
ASYNC (2017) si apre infatti con un estratto dal libro in questione:
“Dal momento che non sappiamo quando moriremo, pensiamo alla vita come a un pozzo inesauribile. Eppure tutto accade solo un certo numero di volte, un numero molto esiguo, in realtà. Quante volte ancora avrete l’occasione di ricordare un certo pomeriggio della vostra infanzia? Quante volte guarderete sorgere la luna piena? E nonostante questo, tutto sembra illimitato”.
Un passaggio forte, che assume ancora più significato se collocato nel contesto (sonoro, esistenziale, artistico) in cui lo udiamo. Quello di un uomo, che in faccia alla sofferenza più crudele, disinnesca il dolore attraverso la sperimentazione musicale. P
er offrire le chiavi della sua anima a chi, ancora a oggi, è disposto ad accogliere l’invito a celebrare la (sua) vita.
Dai suoni
Perché pochi come il compositore giapponese sono stati in grado di trasformare i suoni della vita in arte. Nel meraviglioso documentario che Stephen Nomura gli ha dedicato nel 2017, Ryuichi Sakamoto: Coda, c’è in merito una scena altamente significativa, che ben esplicita l’attitudine del maestro a intercettare i ritmi del mondo senza neanche ricorrere a quegli strumenti di registrazione/riproduzione digitale che tanto hanno contribuito a collocare la sua espressione musicale nel campo dell’astrazione.
Vediamo il compositore al centro di una foresta, circondato dalle rifrazioni sonore di un ambiente privo di mediazioni tecnologiche.
Improvvisamente ogni rumore cessa di esistere, come se il corpo di Sakamoto, alla pari di un magnete organico, stesse in quel momento assorbendo tutti i suoni che natura gli mette a disposizione, in modo da connetterli a idee e visioni grezze, immerse in uno stato embrionale.
… alla musica elettronica
È proprio qui che si sublima il principio del suo processo creativo, il primo passo verso la creazione di un qualcosa che ancora non è stato reso manifesto agli occhi del mondo, ma che a quel mondo inevitabilmente appartiene. Lo vediamo recarsi nel suo appartamento/laboratorio newyorkese, e osservare sul monitor le frequenze appena metabolizzate: solo adesso l’artista è libero di ragionare su ogni pausa, su ogni accenno di melodia.
La realtà, quella dello studio, si è appena fusa con il cosmo interiore dell’uomo. E non è un caso che sia proprio il computer a porsi qui come veicolo delle sue introspezioni. Perché quello strumento che gli consente di connettere — e quindi di rielaborare musicalmente su un unico piano — un insieme di istanze solo all’apparenza contrarie, dal sound design tarkovskyano ai rumori d’ambiente della quotidianità fino ai cori di Bach, diviene la chiave d’accesso a una dimensione creativa senza reali limiti né confini.
Gli strumenti di sintesi sonora
D’altronde i sistemi di sintesi sonora costituiscono da sempre la ricetta con cui il compositore anticipa i gusti e le aspettative del pubblico, prefigurando vie inedite — se non addirittura inaspettate — per la canonizzazione futura delle sonorità elettroniche. Al punto che in Coda si passa senza soluzione di continuità dal passato al presente, con l’immagine del vecchio sintetizzatore usato ai tempi della Yellow Magic Orchestra che si sovrappone idealmente ai moderni sistemi di riproduzione digitale.
Quasi a voler abbattere tempi e spazi distanti, e legare le composizioni elettroniche del passato al riflesso di un’espressività che non ha mai perso, anche nelle derive contemporanee, la sua natura avveniristica: quella volontà cioè di stregare le menti di chi ascolta, e di portare l’evoluzione musicale verso i lidi di un sogno chiamato futuro. Di cui il compositore giapponese è indubbiamente uno dei suoi artefici più visionari, soprattutto per come è arrivato a pensare l’elettronica come veicolo di trascendenza del pensiero umano. E forse anche del mondo che lo circonda.
Una produzione frenetica
Nulla, allora, può davvero fermare il flusso magmatico di pensieri, sogni e speranze di Ryūichi Sakamoto. Neanche la malattia. Basti pensare che negli ultimi anni, oltre a scrivere un numero altissimo di composizioni — sia per il cinema, come nel caso di The Revenant (2015) Rage (2016) e Love After Love (2017) sia per gli album da solista — è stato impegnato in molte cause sociali, prima fra tutte quella contro il nucleare.
Come osserviamo nel potente incipit di Coda è lo sguardo sul contemporaneo, la volontà di lasciare un mondo migliore alle generazioni più giovani, a dominare ogni afflato espressivo dell’autore nipponico. Di un uomo che sin dalla metà degli Anni ’70, non ha mai tradito sé stesso né tanto meno il suo pubblico.
Al punto che, poche settimane prima dell’inevitabile fine, annuncia senza struggimenti a una gremita platea di fedeli che non ci sarebbe stata più occasione di ascoltare la sua musica dal vivo. Il male, dopo tutto, stava prendendo il sopravvento. Ma Sakamoto, in realtà, non è stato veramente sconfitto.
Opus, l’ultimo concerto
In quell’ultima performance, registrata dal figlio Neo Sora come forma di testamento musicale e presentata Fuori Concorso all’ottantesimo Festival di Venezia, c’è la sintesi di ciò che il maestro ha sempre desiderato comunicare: l’immagine di un uomo in sinestesia totale con la sua musica, con al fianco un pianoforte a fargli da unico compagno d’avventura.
Un’esibizione estatica, densissima di emozioni e vulnerabilità, non a caso intitolata Opus, perché quel che mette in questione è il lavoro di una vita intera, di un’esistenza che non accetta di essere delimitata nemmeno dallo scorrere dei titoli di coda. Fino all’ultimo respiro, infatti, ha continuato a comporre, scrivere e a sfidare le ingiustizie del mondo.
Vita brevis, ars longa
Proprio come i suoi amati Bach e Debussy, eterni tra gli uomini grazie all’immortalità della loro arte. E nel nuovo film di Koreeda, Monster, gli spettatori hanno ancora l’occasione di incontrare, per l’ultima volta, le perturbanti e catartiche note di Sakamoto, e dire finalmente addio a un artista, che in realtà, non ci lascerà mai. Sembra allora giusto concludere questo ricordo con una delle citazioni preferite del compositore: “Vita brevis, ars longa”. È esattamente così: la vita è effimera, l’arte è ciò che sopravvive. Sayōnara, sensei…
Discografia selezionata
Thousand Knives (1978)
Solid State Survivor (Yellow Magic Orchestra, 1979)
B-2 Unit (1980)
Furyo — Merry Christmas, Mr. Lawrence (1983)
Le ali di Honneamise (1987)
L’ultimo imperatore (1987)
Il tè nel deserto (1990)
Tacchi a spillo( 1991)
1996 (1996)
Gohatto (1999)
Femme Fatale (2002)
Tony Takitani (2004)
Love After Love (2017) Async (20
12 (2023)
da: “Sentieri Selvaggi”, numero 16 novembre 2023, pp. 42-45