Rivendicazioni territoriali
Il sistema di Versailles e il suo fallimento (1919–1933)
di Karl Polany
Il potente sottinteso di ogni questione
Delle quattro potenze sconfitte — Germania, Austria-Ungheria, Bulgaria e Turchia — solo Germania, Ungheria e Bulgaria devono essere considerate attivamente revisioniste. Benché tanto l’Austria quanto la Turchia appartenessero al gruppo degli stati revisionisti, la loro politica estera non era dominata da questa preoccupazione; esse non avevano rivendicazioni territoriali su cui insistere. Come Russia e Italia, esse appoggiavano diplomaticamente i revisionisti veri e propri senza essere esse stesse revisioniste.
Le frontiere sono in effetti il problema reale, di fondo, nei rapporti fra stati nazionali. Esse costituiscono il segreto ma potente sottinteso di ogni questione.
Le richieste avanzate apertamente riguardano di solito problemi finanziari o economici, i diritti di minoranze etniche o, più spesso, solo la partecipazione a qualche programma generale, come la ricostruzione economica internazionale o accordi commerciali regionali.
Questi programmi, tuttavia, influiscono quasi sempre sulla politica generale di un paese, arrivando spesso a pesare negativamente sulla sua indipendenza, nella misura in cui restringono la sua libertà di azione a favore di un gruppo di stati o contro un altro gruppo.
Sullo sfondo si intravede la questione territoriale. Qualsiasi concessione relativa alle richieste che sono oggetto di trattativa, infatti, non può non pesare sulle prospettive del paese di arrivare in futuro a decisioni ad esso favorevoli riguardo al problema politico ultimo, le rivendicazioni territoriali.
«Politico» tende in definitiva a significare «territoriale», poiché non tanto le questioni di volta in volta all’ordine del giorno determinano gli schieramenti degli stati, quanto quelle che, alla lunga, non possono che dividerli; e queste ultime, nel mondo attuale, sono fondamentalmente le questioni territoriali.
È risultato più facile convincere alcuni degli stati più potenti della terra a rinunciare a reclamare centinaia di milioni di sterline dovuti loro come riparazioni, che forzare uno dei vicini più piccoli della Germania, il Belgio, a riprendere in considerazione il plebiscito nella regione di frontiera di Eupen e Malmédy.
Fu più facile almeno fino a quando rimase stabile l’assetto territoriale — comporre gli interessi largamente divergenti della Polonia e della Germania riguardo alle minoranze etniche e all’uso del Corridoio, che risolvere il problema della ripartizione della regione di Teschen, che dalla guerra in poi ha costituito una ragione di contesa tra Cecoslovacchia e Polonia.
Passando in rassegna i punti principali della questione della revisione, insomma, dobbiamo fissare la nostra attenzione prima di tutto sull’aspetto territoriale dei trattati.
1. Vecchia e nuova Austria
Cominciamo con l’impero austroungarico. Esso era composto da due stati distinti, uniti dal trono asburgico. La coesione di questa duplice monarchia era sorretta, oltre che dalla dinastia imperiale, dall’esistenza di un esercito, di una diplomazia e di un’amministrazione finanziaria comuni.
Quando le armate imperiali furono sbaragliate sui campi di battaglia dopo una straordinaria dimostrazione di capacità di resistenza e di ostinata riluttanza ad accettare l’inevitabile destino, l’impero crollò.
Sia l’Austria che l’Ungheria si dissolsero; le parti che le componevano si divisero secondo la loro composizione etnica.
La vecchia Austria conteneva, oltre alla popolazione tedesca, consistenti gruppi nazionali polacchi, cechi, sloveni e italiani.
Nel 1919 la provincia polacca della Galizia entrò a far parte dello stato polacco, che era stato appena creato riunendo i territori che erano andati alla Russia, alla Germania e all’Austria quando, nel 1795, fu spartita quella che era stata storicamente la Polonia.
Le parti ceche della vecchia Austria, la Boemia e la Moravia, divennero il nucleo dell’attuale Cecoslovacchia, che comprende anche le regioni slovacca e rutena dell’ex Ungheria.
Gli sloveni furono incorporati nel nuovo impero jugoslavo, composto, oltre che dal nucleo della ex Serbia, anche da importanti territori prima appartenenti all’Ungheria, come quelli della Croazia, della regione di Bàcska e di Bànàt e della Bosnia. (Quest’ultima si trovava prima sotto l’amministrazione congiunta dell’Austria e dell’Ungheria).
Gli italiani dell’Istria e quelli del Sud Tirolo, insieme a una consistente minoranza tedesca, passarono all’Italia. A parte il Tirolo e la Boemia, nessuna delle regioni perse dall’Austria conteneva popolazioni tedesche di una certa rilevanza.
Il territorio tedesco, cioè Vienna e le regioni alpine, venne a costituire lo stato indipendente chiamato Austria. Ora è facile capire perché questa piccola Austria non si desse da fare per riguadagnare i suoi vecchi confini.
Essa era il nucleo tedesco rimasto di un impero non tedesco, che in passato era tenuto insieme non da vincoli nazionali, ma dai casi della storia e dagli interessi patrimoniali di una dinastia.
Quando nel 1918 le armate imperiali furono sconfitte e la dinastia perse il trono, la vecchia Austria si dissolse quasi spontaneamente nelle sue componenti etniche.
Nacque, come repubblica, la nuova Austria. Ad essa l’idea di revanche era estranea. La sua politica estera non arrivava neanche a configurare la possibilità di recuperare le «frontiere perdute». Essa si considerò un nuovo paese senza alcun legame con gli altri che prima appartenevano al patrimonio dinastico degli Asburgo.
Il principale sconfitto, insomma, l’Austria, non divenne mai uno stato revisionista.
2. Quel che rimane dell’Ungheria
Sulla nuova Ungheria il trattato ebbe un effetto esattamente opposto. Uno dei più autorevoli fra gli esperti inglesi di problemi ungheresi afferma correttamente che «la richiesta di revisione del trattato domina completamente la politica estera ungherese».
L’Ungheria esistette per più di mille anni come paese dominato dai magiari secondo il diritto di conquista. Nel 1526 le grandi pianure caddero in mano ai turchi. La parte rimanente nel 1686 legò il suo destino agli Asburgo. Alcuni anni dopo i turchi furono infine cacciati dal paese.
La maggior parte della popolazione della vecchia Ungheria non era di origine magiara; alcuni erano di lingua slava, come gli slovacchi a nord, i serbocroati a sudovest o i ruteni a nordest.
Il sudest dell’Ungheria era abitato principalmente da rumeni. Su tutto questo territorio, nelle città si erano stabiliti gli ungheresi, magiari o ebrei che fossero.
Inoltre, un enclave molto importante di magiari persisteva nell’angolo sudorientale del paese.
Colonie tedesche, che mantenevano i loro antichi privilegi, si trovavano, sia nel cuore del paese, vicino alla capitale Budapest, sia nel nord e nel sudovest; molte città, poi, ospitavano gruppi considerevoli di tedeschi.
Gli ebrei avevano dato un importante contributo allo sviluppo della civiltà urbana; nell’arretrata regione montana rutena del nordest, tuttavia, continuarono a esistere a un livello culturale inferiore, e ad essere di peso in quell’ambiente agricolo.
Questo zibaldone di razze sul territorio ungherese non era stato riunito sotto un unico dominio attraverso matrimoni dinastici e accordi internazionali, come era il caso dell’Austria.
La supremazia magiara era basata, invece, sulla superiore abilità politica di una popolazione guerriera, che occupava la regione centrale di un’importante unità geografica ed economica.
Al monopolio del potere si accompagnarono il monopolio della cultura e dell’istruzione, entrambi indirizzati soprattutto a sviluppare, nella popolazione magiara, quelle qualità dalle quali dipendeva la perpetuazione della supremazia e del dominio.
L’esito della perdita delle regioni non magiare dell’Ungheria fu un’esautorazione pressoché totale dei magiari, la cui principale funzione era stata di garantire anche in quelle regioni un’amministrazione, una rete di trasporti e un sistema commerciale diretti da Budapest, e un meccanismo finanziario capace di distribuire il capitale straniero necessario per sfruttare le risorse del paese.
Quando la sconfitta bellica aprì alle minoranze etniche la via dell’indipendenza nazionale, i territori che si staccarono contenevano una percentuale non indifferente di magiari; la popolazione ormai quasi tutta magiara del nucleo rimasto rifiutò, quindi, di accettare la perdita come definitiva.
La ricostituzione dell’Ungheria storica nella sua integrità divenne la spina dorsale della politica nazionale. Dopo un intervallo di nove mesi diviso più o meno a metà fra una rivoluzione democratica e una rivoluzione comunista, nel 1919 la nobiltà feudale riconquistò il controllo politico del paese.
La nobiltà magiara era stata la sola beneficiaria di tutti i vantaggi politici e amministrativi, e, insieme con gli ebrei, anche dei monopoli economici e finanziari della Grande Ungheria.
Accettare come perpetua la nuova situazione non era per loro possibile, senza adattarsi a un cambiamento radicale del loro livello di vita e della loro visione del mondo. Sotto la loro guida politica l’Ungheria divenne la roccaforte del revisionismo sul Danubio.
Le pretese di revisione ungheresi si fondavano su tre serie di fatti.
La prima riguardava la frammentazione dell’Ungheria storica nelle sue componenti etniche.
La seconda si riferiva alle ingiustizie commesse nel ridisegnare le frontiere.
La terza era basata sul trattamento che i nuovi padroni facevano subire alle minoranze magiare rimaste nei territori staccati dalla madrepatria.
Quest’ultima lagnanza non era senza fondamento, almeno per quanto riguarda la Romania e la Jugoslavia. I magiari della Transilvania, ad esempio, a un certo punto stavano peggio sotto il dominio rumeno di quanto i rumeni fossero stati sotto quello magiaro.
Ritorneremo ancora su quest’ultimo problema, trattando più in generale la vexata quaestio della protezione delle minoranze nazionali.
Ciò che ora desidero rilevare è l’ambiguità dell’espressione «revisione delle frontiere» quando viene impiegata in riferimento alle recriminazioni dei primi due tipi.
Lungo la maggior parte dell’attuale confine ungherese sono state lasciate fuori popolazioni magiare insediate proprio a ridosso della frontiera, alle quali si sarebbe potuto consentire di rimanere all’interno dell’attuale Ungheria senza costringere sotto il dominio magiaro un numero apprezzabile di non magiari.
Il numero di questi magiari rimasti appena fuori dai confini è di circa un milione. Se si fosse addivenuti a una rettifica dei confini tale da riportare in seno alla madrepatria questa moltitudine da essa artificialmente separata, l’atmosfera politica sarebbe migliorata in modo netto e forse determinante.
Occorre però precisare che la rettifica delle frontiere e la ricostituzione dell’integrità territoriale dell’Ungheria sono due cose completamente diverse.
Dal punto di vista del rispetto delle nazionalità, le frontiere attuali sono tracciate in modo ingiusto, ma le precedenti erano ancora più ingiuste.
D’altra parte, mentre il ristabilimento dei vecchi confini rimedierebbe l’asfissia economica di quel che rimane dell’Ungheria e, come effetto secondario, riporterebbe tutti i magiari sotto un governo magiaro, la mera rettifica dei confini non conseguirebbe né l’uno né l’altro risultato. Essa non diminuirebbe, infatti, le difficoltà economiche della nuova Ungheria, lasciando inoltre un gran numero di magiari sotto dominio straniero.
È un errore molto comune credere che la richiesta di reintegrazione sia in realtà una specie di moneta di scambio, capace di assicurare il successo della più modesta richiesta della rettifica dei confini.
È un punto di vista completamente erroneo, poiché le due richieste sono reciprocamente incompatibili. La rettifica lascerebbe geograficamente più o meno inalterata l’Ungheria attuale; la ricostituzione della grande Ungheria nella sua integrità cambierebbe talmente l’estensione e la forma stessa di esistenza dell’attuale Ungheria, da renderla irriconoscibile; senza contare che farebbe anche sparire tre degli stati danubiani ora esistenti.
Quale delle due accezioni del termine «revisione» — reintegrazione o rettifica — prevarrà nella politica estera ungherese può essere, in effetti, una questione di vita o di morte per i vicini dell’Ungheria.
3. La nuova Turchia
Come il suo omologo danubiano, anche l’Impero turco, smembrato dal trattato di Sèvres, sparì dalla carta geografica.
La Turchia attuale è il risultato della vittoria militare ottenuta al comando di Kemal Pascià Atatùrk contro l’esercito greco nel 1921–22, vittoria alla quale la Gran Bretagna diede il suo appoggio diplomatico.
Con il trattato di Sèvres la Turchia fu privata non solo del suo impero arabo ed egiziano, ma anche dei suoi possedimenti europei di Costantinopoli e della Tracia, e infine della costa sul mar Egeo.
I turchi ribaltarono questa decisione sul campo di battaglia. Nel trattato di Losanna (1923) essi riguadagnarono sia la loro antica capitale Costantinopoli sia la costa mediterranea, compresa Smirne. La Turchia è rimasta una potenza europea. Essa però non rivendica territori né in Europa né in Asia.
La Turchia moderna è «intensamente nazionalista e tuttavia con il suo nazionalismo non minaccia altri stati».
4. La Bulgaria
È stata descritta come l’Ungheria dei Balcani. Questo piccolo stato, situato sul Mar Nero fra la Romania e la Turchia, ha combattuto tre guerre nel breve periodo di sei anni.
Nella prima ottenne una brillante vittoria. Insieme con le sue alleate Serbia e Grecia, essa respinse i turchi fino alle mura di Costantinopoli.
Ma quasi subito il bottino le fu sottratto dai suoi alleati, ai quali si era aggiunta la Romania, che voleva avere la sua parte pur non avendo partecipato alla guerra.
Questi paesi non solo fecero in modo di privare la Bulgaria di quasi tutte le sue conquiste territoriali, ma arrivarono in realtà a paralizzarla, dopo una guerra breve ma sanguinosa.
Nella Grande guerra la Bulgaria sperava di ottenere vendetta. Essa si unì alle potenze dell’Europa centrale che invasero il territorio serbo nel 1915.
Il disastro che travolse queste ultime sul fronte di Salonicco nell’agosto 1918 ebbe le conseguenze più pesanti proprio per la Bulgaria.
La Jugoslavia e la Grecia si appropriarono del suo territorio in misura ancora maggiore che in precedenza, ed essa perse l’accesso all’Egeo. Ciò nonostante, il governo popolare contadino di Stambuliski intraprese con grande coraggio morale una linea pacifica e non nazionalista, scoraggiando energicamente il gruppo nazionalista degli ufficiali e l’intellighenzia macedone, che premevano per una guerra di revanche contro la Jugoslavia.
Ma l’Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone, che aveva il quartier generale in Bulgaria, fomentò la controrivoluzione, e la Bulgaria si mise sulla strada di una politica estera revisionista.
5. La Germania
Lo stato più potente tra gli sconfitti è il più potente anche tra i revisionisti. Conviene esaminare le sue rivendicazioni territoriali separatamente secondo i paesi verso i quali sono dirette.
Francia
L’Alsazia e la Lorena erano andate alla Francia, dopo essere state annesse alla Germania in seguito alla guerra del 1870–71.
La popolazione di queste regioni è in parte di lingua tedesca, ma è prevalentemente francese di sentimenti. Nel 1925 la Germania, firmando il trattato di Locarno, rinunciò di sua volontà ad ogni pretesa sull’Alsazia e la Lorena. Allora sembrò che così la questione fosse liquidata.
Ora i leader del Terzo Reich continuano a insistere che non è concepibile alcuna disputa territoriale tra Francia e Germania.
Ciò che si può affermare con certezza è che, per lo meno fino a quando Hitler prese il potere, la Germania aveva completamente accettato la perdita dell’Alsazia e della Lorena.
Belgio
I distretti di Eupen e di Malmédy andarono al Belgio. I tedeschi avevano buone ragioni per criticare il metodo del plebiscito predisposto in questa regione, il risultato del quale fu loro avverso.
Dal 1925, tuttavia, si ritenne senz’altro che l’accettazione definitiva della frontiera occidentale da parte della Germania includesse anche Eupen e Malmédy.
Polonia: Slesia superiore, Danzica e il Corridoio
La Germania dovette lasciare al nuovo stato polacco tutti i suoi territori polacchi.
La provincia di Posen, parte della Prussia, porzioni della Slesia superiore furono trasferite incondizionatamente alla Polonia.
Nella Slesia superiore, importante distretto industriale, il risultato di un plebiscito fu una maggioranza del 60 per cento a favore della Germania.
Ciò non di meno il territorio fu diviso tra Polonia e Germania, la quale dovette rinunciare alla maggior parte delle miniere di carbone, a tutte quelle di ferro e a circa l’80 per cento dell’industria pesante.
I tedeschi hanno sempre ricusato la legalità di questa divisione; conseguenza della quale è stata, comunque, una sostanziale diminuzione dell’importanza economica della regione.
La questione della Slesia superiore rimarrà presumibilmente in sospeso fino a quando le relazioni tedesco-polacche non peggioreranno.
Il cosiddetto Corridoio polacco costituisce un problema ben più incisivo. Il trattato di pace accordò alla Polonia l’accesso al mare attraverso un territorio prima appartenente alla Germania, separando così la Prussia orientale dalla madrepatria.
Benché dal punto di vista etnico il Corridoio sia più polacco che tedesco, la sua istituzione è stata considerata come il più vitale motivo di recriminazione per la Germania.
Tanto più che, in mancanza di un porto nel tratto di costa che fa parte del Corridoio, l’antica città tedesca di Danzica fu staccata dalla Prussia orientale e costituita in città libera sotto il protettorato della Società delle Nazioni.
Fu la Polonia, d’altronde, ad avere una posizione privilegiata. Nei rapporti con stati esteri, Danzica era rappresentata dalla Polonia; pur essendo città libera, fu compresa nel sistema doganale polacco; e così via.
In seguito, i polacchi costruirono un proprio porto, Gdynia, capace di essere un rivale vincente di Danzica sulla costa del Baltico.
Attualmente la supervisione della Società delle Nazioni su Danzica è divenuta nominale e il governo locale è dominato dalla Germania.
L’istituzione di un corridoio polacco attraverso il territorio tedesco costituisce il principale motivo di recriminazione della Germania contro il trattato di Versailles.
Le difficoltà in cui si trova l’agricoltura nella Prussia orientale sembra siano dovute in parte all’esistenza del Corridoio, a causa del quale questa regione risulta separata.
I tedeschi tendono a non rendersi conto che il territorio del Corridoio è sempre stato popolato in maggioranza da polacchi e che ora è divenuto effettivamente polacco; che, inoltre, l’accesso al mare per la Polonia può essere valutato più importante della libera circolazione tra la provincia orientale della Germania e il resto del paese.
In realtà, poi, il traffico ferroviario attraverso il Corridoio non subisce intralci — non occorre passaporto e non ci sono ispezioni doganali. Le comunicazioni via mare sono sicure.
La povertà delle campagne nella Prussia orientale, infine, si spiega più con la diffusione del latifondo, cioè con la concentrazione della proprietà e la coltivazione estensiva, che con le pretese restrizioni al traffico dovute all’esistenza del Corridoio.
Tutte le volte che le forze revisioniste tedesche entrano in gioco, la questione del Corridoio è al primo posto.
Nell’accordo con la Polonia del febbraio 1934 la Germania si è impegnata a tenere tale questione nel cassetto per un periodo di dieci anni. Finora essa ha mantenuto la parola, nonostante la notevole crescita dello spirito nazionalistico e della potenza militare.
Il fatto che un governo tedesco ultrapatriottico stia mantenendo questo tipo di atteggiamento per un periodo relativamente lungo di tempo prova che la pace non fu resa senz’altro impossibile dal trattato di Versailles, come spesso si è con leggerezza sostenuto.
Lituania
La popolazione di Memel, circa 150 000 persone, avrebbe dovuto poter decidere con referendum se stare con la Germania oppure con la Lituania.
Il colpo di stato militare del gennaio 1923 in Lituania rese impossibile il referendum. Il Consiglio della Società delle Nazioni accettò il fatto compiuto così come aveva tollerato, tre anni prima, il colpo di stato militare contro la capitale lituana, Vilna.
Uno speciale statuto avrebbe dovuto salvaguardare i tedeschi, che costituiscono la grande maggioranza nella città di Memel, da tendenze oppressive del governo lituano di Kaunas.
Non si può dire che questo statuto sia stato applicato in modo soddisfacente, in parte a causa dei metodi assolutistici della dittatura lituana, in parte a causa dell’influenza nazista a Memel.
La questione di Memel può essere sollevata dalla Germania in qualsiasi momento, con una richiesta di revisione.