Quattro notti di un sognatore, di Robert Bresson nella critica del tempo
I film di Robert Bresson nella critica del tempo
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«I miei sforzi vanno sempre verso una vita interiore».
Jacques«Immagini. Come le modulazioni in musica».
Robert Bresson
Tratto da Le notti bianche di Dostoevskij.
Il giovane Jacques nota sul Pont Neuf l’insolito comportamento di una ragazza: Marthe, questo è il suo nome, si è tolta le scarpe e ha scavalcato il parapetto, al di sopra della Senna. Si ferma un’auto della polizia, ma nessuno parla. Jacques decide di intervenire: cerca di parlare con la ragazza, l’aiuta a ritornare sul ponte. I poliziotti si allontanano, Jacques riaccompagna Marthe a casa: nel congedarsi, il ragazzo le dà appuntamento la notte successiva, alla stessa ora e nello stesso luogo del loro primo incontro, sotto la statua di Enrico IV.
La notte successiva Jacques e Marthe si ritrovano. Jacques le racconta la sua storia: «sapesse quante volte sono stato innamorato», le dice, «di nessuno, di un ideale…». «È stupido», obietta Marthe, e Jacques le dà ragione: «Dio mi ha inviato il suo angelo per dirmelo». Adesso è Marthe a raccontare la sua storia. La madre di Marthe, trovandosi in difficoltà, subaffittava una stanza della loro abitazione: Marthe si era innamorata del nuovo inquilino. Quando questi aveva deciso di andarsene, lei gli aveva chiesto di portarla con sé.
Sul Pont Neuf, poco prima di andare a Orly, l’inquilino le aveva dato un appuntamento, dopo un anno, in quello stesso punto, alla stessa ora. Ora l’anno è trascorso, l’inquilino è arrivato da tre giorni ma non si è ancora recato sul luogo dell’appuntamento. Jacques le consiglia di scrivere una lettera all’inquilino, Marthe gli risponde di averlo già fatto e chiede a Jacques di portare questa lettera a certe persone che a loro volta la consegneranno al destinatario. Si danno appuntamento per la notte successiva.
La terza notte. Marthe piange, Jacques cerca alcune possibili ragioni per spiegare l’assenza dell’inquilino. Marthe lo ringrazia e augura a Jacques un futuro felice.
Quarta notte. Marthe si lamenta del comportamento dell’inquilino, Jacques la saluta e se ne va. Lei lo insegue. Jacques confessa alla ragazza di amarla. I due camminano, si scambiano parole affettuose. In un caffè Marthe chiede a Jacques di farle dimenticare l’inquilino. In un negozio di Saint-GermiandesPrés, il ragazzo le compra una sciarpa rossa.
Davanti al negozio, Marthe chiede a Jacques di prendere in affitto la stanza della sua casa. Ma mentre Jacques le sta indicando la luna in cielo, Marthe riconosce tra i passanti il volto dell’inquilino. Corre verso di lui, lo stringe tra le braccia. Poi ritorna verso Jacques, lo bacia con slancio sulle guance. Quindi ritorna dall’altro e si allontana con lui. Rientrato nel suo studio di pittore, Jacques registra sul magnetofono un discorso indirizzato a Marthe, nella quale la ringrazia per il suo amore, poi riascolta il monologo mentre dipinge. Finito il testo non si sente più che il rumore del pennello sulla tela.
Jean Sémolué
Le notti bianche appartengono alla giovinezza di Dostoevskij prima dell’esperienza del carcere. Questo breve racconto ha due sottotitoli: «romanzo sentimentale» e «ricordi d’un sognatore».
Prima di Bresson, questo racconto ha tentato un altro grande cineasta: Visconti. La sua versione, dal titolo Le notti bianche ha ottenuto il Leone d’Argento alla Mostra di Venezia nel 1957. Ma si sa che, dopo Procès de Jeanne d’Arc, Bresson non è intimidito da precedenti celebri. […]
A differenza di Visconti, Bresson non ha cercato un equivalente «sentimentale» dello psicologismo e della rappresentazione della miseria presenti nel romanzo. Allo stesso modo ha fatto un’insolita scelta, il suo film non ha bisogno di una scenografia ricostruita come quella di Visconti, che ha sostituito una Livorno ricostruita in studio al fiume russo Neva. […].
Bresson, invece, gira il suo film sulle rive della Senna, senza farsi problemi di equivalenza se non quello degli esterni ripresi sulla riva di un fiume. Il modernismo di Quatre nuits d’un rêveur stupisce al punto che, malgrado un modello letterario comune, l’atmosfera del film rimanda più a Baci rubati di Truffaut o a Il maschio e la femmina di Godard che a Le notti bianche di Visconti. Senza dubbio, la parentela più prossima è con Les Dames du Bois de Boulogne e soprattutto con Une femme douce: collocando personaggi di Diderot e di Dostoevskij in una Parigi in cui regnano i telefoni e le automobili, Bresson ottiene un effetto di distacco; il romanticismo degli stati d’animo si percepisce attraverso gli oggetti tecnologici e la rapidità del mondo moderno.
Parigi è molto più presente in questo film che nei due citati precedentemente o in Pickpocket. Ecco perché Quatre muits d’un rêveur è il film più contestualizzato fra quelli di Bresson […]: riesce a restituire il clima di un’epoca. L’universo materiale, visivo e sonoro, e anche l’universo morale, nel quale vivono i personaggi è decisamente moderno. Anzi. Meglio: modernista. Gli abiti, la musica, i divertimenti, il modo di vivere e gli hippies di tutte le nazionalità che vivono sulle rive della Senna sono presenti nel film per integrarlo, ma tutto questo esiste anche fuori del film.
Dopo aver fatto di Bresson un giansenista, un costruttore di architetture atemporali, astratte che eliminano ogni aspetto anedottico e transitorio, dobbiamo forse chiederci se Bresson è diventato il cronista di una Parigi pittoresca, un testimone del tempo che fugge? Non passiamo da un eccesso all’altro. Constatiamo semplicemente che in Quatre nuits d’un rêveur gli elementi esterni non sono opprimenti come in Les Dames du Boie de Boulogne poiché gli elementi proposti dal mondo non sono immediatamente riassorbibili dalla elaborazione dell’eroe o di un’opera che si dà come scissa dal mondo, come accade anche in Pickpocket.
(Jean Sémolué, Quatre nuits d’un rêveur, “Téléciné”, n. 173, ottobre-novembre 1971).
Marcel Martin
Quatre nuits d’un rêveur è come una lezione di geometria nello spazio dei sentimenti, un esercizio di alta qualità in cui l’artista lavora senza gli elementi dello star system, il patetico, la suspence, la violenza, l’erotismo.
[…] Nel caso di Bresson il termine «sdrammatizzare» è debole. Con regale disprezzo della moda, il regista cancella, lima, appiana tutti gli effetti, gli scarti, gli angoli che potrebbero turbare l’armonia perfetta della linea plastica, psicologica, e drammatica che si è prefisso […]. Ciò che è assente è l’inutile arabesco, la rotondità superflua; ci si trova davanti all’evidenza della necessità, davanti alla messa in opera — imperturbabile — di un sistema basato sul rifiuto, l’ellissi, la litote.
[…] Ad evitare ogni vana ricerca di transizione, ogni partecipazione primaria all’azione, Bresson ha deliberatamente diviso il suo racconto in capitoli: prima notte (l’incontro), seconda notte (le confidenze: storia di Jacques, storia di Marthe), terza notte (la disperazione di Marthe), quarta notte (le confessioni reciproche) […].
Insomma, un disprezzo assoluto del verosimile e, insieme, la ricerca intransigente di una «verità»: verità di caratteri fuori del comune, verità anche di uno scenario che mira più a significare che a rappresentare.
L’uso del colore è sorprendente: fedele alla realtà eppure impercettibile, tranne quando scoppia la sontuosità aggressiva di un rosso, il sapore tranquillo di un verde profondo. Bresson stilizza, cerebralizza: i suoi hippies sono figure simboliche della contemplazione, il suo erotismo non è certo il contatto di due epidermidi. Ma è creatore incomparabile di un piacere estetico puro, un meraviglioso liberatore del sogno.
(Marcel Martin, “Les Lettres françaises”, 9 febbraio 1972)
Pasquale Misuraca
Un angelo caduto sulla terra. Non si adatta, non si inserisce, non si conforma, non essendo terrestre, ma acquatico e aereo, pesce fuor d’acqua, uccello con ali spezzate, galleggia come tronco trascinato dalla corrente del fiume, arranca e saltella come albatros prigioniero nella barca di agitati, distratti e crudeli pescatori. Non può fare l’amore, non sa fare l’amore. Può e sa solo sognare guardare e ascoltare. Il sogno infatti è niente altro che il ricordo, l’ombra della vita celeste che non potrà mai più vivere.
Dentro un film di ombre e canzoni irrompe un giovane di carne e ossa, è la vita che irrompe sul lenzuolo dello schermo. Nella vita della notte, nella rappresentazione drammatica, irrompe la vita del giorno, fare la spesa, ordinare il tavolo, lavare il corpo. Nel quadro di Guido Reni, accanto Ila Madonna, irrompe il David del Caravaggio, e reca in mano la testa mozzata dell’autore. E nel momento in cui le frontiere tra sogno e veglia, pittura e specchio restano incerti, fiorisce il cinema.
Mondare la verità dagli ornamenti (le mani strette sotto il tavolo), la rappresentazione dalle descrizioni (il flusso sfocato degli astanti), il racconto dalla storia («Io non ho una stola»); introdurre il soprannaturale nel reale (il battello luminoso), l’astratto nel concreto (entrata e uscita dalla porta a vetri), il realismo nel classicismo (la visita dell’amico pittore). L’infinito stupore di fronte al silenzio del Dio imperscrutabile (l’addìo senza parole), alla impossibilità dell’emulazione del Padre misericordioso («Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei Cieli»… per essere perfetti bisogna dunque tacere?), all’Amore senza amanti, alle Notti senza sogni. Quattro notti. Quattro, il numero sacro per i pitagorici. Ricordate la forma divina del circolare e quadrato triangolo equilatero costruito con uno, due, tre e quattro stelle?
(1998)
Adelio Ferrero e Nuccio Lodato
Due anni dopo, l’occasione per un nuovo incontro con Dostoevskij è fornita dal racconto giovanile Le notti bianche,apparso nel 1848 con il sottotitolo “romanzo sentimentale dalle memorie di un sognatore”, che può vantare, come altri romanzi dello scrittore russo, una ininterrotta tradizione, non sempre felice, di “adattamenti” teatrali e cinematografici. Di questi ultimi, basterà ricordare i due più noti: il sovietico Le notti bianche di San Pietroburgo (1933) di Grigori Roshal e Vera Stroeva e l’italiano Le notti bianche (1957) di Luchino Visconti.
La “fosforica luce” di quelle pagine ha spesso tentato più di un regista, attratto forse dalla «malinconica trama (…) immersa in un clima di sortilegio come le notti pietroburghesi. I suoi personaggi, creature inermi e smarrite nell’immensa solitudine della notte e della vita, sembrano le silhouette spettrali di una lanterna magica» (Ripellino, Prefazione a R Dostoevskij, Le notti bianche, Einaudi, 1957). Ma la diafana e incantata spettralità, nitidamente diffusa sulla pagina del narratore, può prestarsi, sullo schermo, alle più insidiose contraffazioni. Come dimostrano il tardo e manierato espressionismo del film sovietico e l’enfatizzazione scenografica di quello italiano.
Ma Bresson, così estraneo all’uno e all’altra? Quali ragioni poterono indurlo, nel 1971, a una nuova “versione” cinematografica del racconto? Anche ragioni “materiali”, senza dubbio. Prodotto in compartecipazione italo-francese e acquistato dalla televisione italiana, il film richiedeva tempi di preparazione e di lavoro piuttosto stretti e precisi: «Un adattamento mi fa risparmiare molto tempo — ammetteva Bresson — , consentendomi di trovare con il produttore un accordo rapido sul soggetto».
Ma a questa ammissione “minimizzatrice” si accompagnava, ridimensionandola drasticamente, un’altra confessione: «Perché Dostoevskij? Perché è il più grande» (A propos de Quatre nuits d’un rêveur, intervista di R. Bresson a J. Sémolué, in M. Estève, 2a ed.).
Un giovane autostoppista che dalla campagna fa rientro a Parigi, pare intento a godersi felice la vita.
Quella notte, al Pont Neuf, riesce a salvare una ragazza in procinto di gettarsi nella Senna, e ne ottiene un appuntamento nello stesso luogo ventiquattr’ore dopo.
La sera dopo la giovane, che giunge puntuale, gli chiede di raccontarle la sua storia. Jacques, questo il nome di lui, le espone la propria vita tranquilla di pittore in difficoltà economiche, attratto dalle coetanee e intento anche a dettare un romanzo fantastico al magnetofono. Marthe (la ragazza) lo richiede alla fine di un parere. Per ottenerlo, gli racconta a sua volta la propria storia. Convive decorosamente con la madre, ma il mantenere il tenore di vita le ha costrette ad affittare una camera a un misterioso inquilino, che per lungo tempo non ha mai incontrato, e che comunicava solo con sua madre, lasciandole in lettura romanzi anche erotici.
In un tempo successivo, l’uomo le si era rivelato e l’aveva invitata al cinema, ma ne aveva ottenuto un rifiuto, e si era a sua volta sottratto a un’altra consimile occasione.
Una notte, erano intercorsi tra loro segnali attraverso la parete in comune e reciproche spiate dalle serrature delle rispettive porte. La mattina successiva, la madre aveva annunciato a Marthe l’imminente partenza dell’uomo. Lei aveva fatto in modo di incontrarlo, chiedendogli di condurla con sé. L’inquilino aveva addotto l’impossibilità di portarla negli Stati Uniti, dove si recava per motivi di studio. Ma si erano amati, e lui — accompagnato in taxi all’aeroporto — le aveva ridato appuntamento da lì a un anno esatto nello stesso luogo.
Ora l’anno è trascorso da tre giorni, soggiunge Marthe, e l’inquilino, benché tornato, non dà segni di vita. Jacques le suggerisce di raggiungerlo con una lettera, che del resto la ragazza ha già approntato. Lui si offre di recapitarla, e lo fa, senza riuscire a scorgere bene il destinatario, che richiude subito la porta.
Terza notte. Marthe esprime a Jacques la propria gratitudine per l’incarico assolto, e lo ringrazia anche per l’amicizia fraterna che le tributa, evitando di innamorarsi di lei. In realtà il ragazzo è già innamoratissimo, e ha progettato di dichiararsi solo la notte successiva. Nel buio, sembra quasi che appaia l’inquilino, ma neppure Marthe sembra certa della sua identità, tanto più che la misteriosa figura non dà alcun segnale di interesse nei suoi confronti. Il passaggio quasi magico di un battello luminoso sul fiume sembra distrarla. Si congeda piangendo. Jacques invece ha il morale alle stelle: tutta Parigi, il giorno successivo, sembra risuonare e risplendere del nome dell’amata.
Quarta e ultima notte. Marthe è sempre più delusa e amareggiata della latitanza dell’uomo misterioso, ma Jacques riesce a poco a poco, con calma, a consolarla, a distrarla, ad attrarla a sé con attenzioni e il dono di un foulard che ella indossa. Ma proprio allora l’inquilino sopravviene. Marthe non ha esitazioni a seguirlo, pur congedandosi con tenerezza e gratitudine da Jacques.
Che rientra nel suo atelier e detta al magnetofono frasi che non riguardano più la sua vicenda di fantasia, ma la storia d’amore di quei tre giorni.
Ancora Dostoevskij, dunque, e un racconto nel quale almeno due motivi, tra gli altri, potevano toccare profondamente Bresson: la solitudine del protagonista («i miei sforzi vanno sempre verso una vita interiore. La vita solitaria di Jacques si prestava a questo con molta naturalezza»), e, in questa, l’estrema sproporzione tra la povertà dell’esistenza quotidiana e apparente e l’intensità della vita sognata e immaginaria. E, ancora, lo straordinario equilibrio del tessuto compositivo:
«Dostoevskij punta anche qui sui dialoghi per mettere in luce il meccanismo interiore dei due personaggi — osservava Ripellino nella prefazione citata Questo racconto non ha il dinamismo vorticoso né l’intenso groviglio di vicende caotiche né lo svolgimento convulso delle altre opere dostoevskiane: la sua scrittura è pacata, sommessa, crepuscolare e assume a tratti persino cadenze melodiche. Frequenti iterazioni danno al periodare un alone musicale».
E Bresson, per parte sua, non ha mai nascosto la suggestione che avvertiva in questa perfezione compositiva intimamente mossa e animata:
«Proust dice che Dostoevskij è originale soprattutto nella composizione. È un esempio straordinariamente complesso e serrato, puramente interno, fatto di correnti e controcorrenti come le onde del mare, che si trova anche in Proust (del resto così diverso), e la cui alternanza sarebbe molto adatta a un film» (Notes sur le cinématographe, pp. 126–127).
Questo film, volendo, è tutto il “cinematografo” di Bresson ma due, in particolare, ci sembrano le opere più “dostoevskiane” del regista, Pickpocket e Quattro notti di un sognatore, che meglio si adeguano, nel taglio ritmico-compositivo, all’equilibrio ammirato, e perseguito, da Bresson: abbandono e ripiegamento, dilatazione e chiusura dei sentimenti si alternano e si richiamano, nelle Notti, con la continuità sommessa e ineluttabile che Proust avvertiva in Dostoevskij. Questo spiega anche il particolare accento della rilettura bressoniana che fin dalle prime immagini — l’incontro sul Pont Neuf, il modo in cui Jacques si accosta a Marthe e la “salva”, la macchina della polizia che si ferma, il silenzio notturno — mostra di non perseguire una attualizzazione esterna del racconto e tende a ritrovarne, nel presente e nella quotidianità, il fondamentale nucleo lirico. Il taglio evocativo e memoriale, altre volte innestato dal regista nei testi letterari su cui si ispirava, scompare significativamente dalla rilettura di un’opera che sembrava invece porgersi naturalmente a tale possibilità.
Nel trasporre la vicenda del protagonista-narratore e di Nàstjenka, divenuti Jacques e Marthe, dalla Pietroburgo che prelude ai simbolisti, l’«assurda città, ingarbugliata nel fumo d’una selva di camini» evocata da Majakovskij, alla Parigi riconciliata con la propria rumorosa distrazione, dopo il trauma degli ultimi anni Sessanta, Bresson ripercorre l’itinerario delle “notti” dostoevskiane, e dei due flashback delle storie del giovane e della ragazza, con poche ma sostanziose varianti. Tra queste, la sostituzione della nonna di Nàstjenka con la madre di Marthe, la cui sottile ambiguità nei confronti della figlia richiama il personaggio, per qualche verso omologo, di Perfidia, e del generico conoscente che faceva una rapida visita al “sognatore” con l’amico pittore la cui presenza, come vedremo, assume ben altro rilievo.
Ancora più significativa, e carica di reticenti implicazioni, anche auto- biografiche, la trasformazione del protagonista, modesto rentier succube di tentazioni oblomoviane, in un pittore, e il peso che questa connotazione assume nella struttura e nello stile del racconto cinematografico: «Una vita di pittore è essenzialmente una vita di solitudine e di ripiegamento su se stesso» (intervista a Sémolué).
E anche il “sognatore” di Bresson ha una vita segreta di vagabondaggi, passeggiate solitarie, corse e capriole nei campi, e, soprattutto, di amori e di esaltazioni: «amore puro, innocente», dice e ripete di un suo fuggevole incontro con una donna vista in strada e legata per sempre ai ritmi della immaginazione e della memoria. Intravisti dietro la vetrina di un negozio di mode o su un autobus, inseguiti e perduti in mezzo alla gente, i volti delle ragazze che incontra diventano occasione di avventure del sentimento, pretesto di sogni raccontati a se stesso e fissati sul nastro di un magnetofono, per riascoltarli nella solitudine della propria camera. La pittura è la continuazione e lo sviluppo di questa vita dell’immaginazione. Ma anche il tentativo di darle ordine e stabilità.
Jacques predilige i colori vividi e caldi (predominano il verde, il giallo e il rosso) che distribuisce su figure dai contorni netti e rilevati ma senza volto. Il dialogo con l’amico, o piuttosto, il monologo di questi gli ripropone l’idea della pittura come astrazione assoluta. L’amico rifiuta le esplosioni a contatto della natura e privilegia l’incontro dell’arte con un’idea; gli interessano l’oggetto e il pittore in astratto, il gesto che smaterializza l’oggetto e inventa e delimita spazi inediti: ama e insegue «ciò che non si vede».
Jacques lo sente senza ascoltarlo, guarda le foto che quello gli mostra senza vederle. Attraverso le proposizioni del pittore e il silenzio di Jacques, Bresson riapre il discorso per interposta persona, sulla propria poetica, sulla dialettica dell’astratto e del concreto. Principio di astrazione e principio di realtà attraversano l’esistenza di Jacques come correnti impetuose che il racconto esaspera per intensificazione, trattenendole al di qua di ogni esteriore ricomposizione drammatica.
L’astrazione, esaltata dall’amico, affascina l’intelligenza di Jacques ma non ne completa la vita interiore che ha bisogno, per ritrovarsi, di continue surrogazioni “rubate” alle immagini e ai suoni dell’esistenza («cacciatore di sguardi», lo definisce Sémolué: «una lunga scala congiunge la strada, luogo della cattura, con la stanza, luogo del nascondiglio»).
Raccontata a Marthe, la storia di Jacques è una dispersiva sequenza di volti femminili inseguiti tra la gente e ritrovati nella solitudine del proprio studio; posseduti, infine, a patto di ridurli, sulla tela e sul nastro del registratore, a suoni e immagini astratte. L’incontro con Marthe sembra preludere a una possibile “riconciliazione”: «Sapesse quante volte sono stato innamorato! Di nessuno, di un ideale». «È stupido», commenta la ragazza. «Lo so. E Dio mi invia il suo angelo per dirmelo, per provarmelo; per riconciliarmi con me stesso».
Raccontata a Jacques, la storia di Marthe è una frantumata iterazione di ritorni in una casa troppo ordinata, di sguardi e parole sfuggenti, di porte che si chiudono per nascondere il turbamento del volto e i battiti del cuore, di ascensori bloccati per confessare impetuosamente il desiderio. Sappiamo, fin dagli anni di Perfidia, che, per Bresson, la tragedia preme tra le quinte della più dimessa quotidianità, si affida a dettagli “irrilevanti”, si accorda agli oggetti e ai loro rapporti.
E qui, se non di tragedia, si tratta certamente della possibilità di una passione, di una realizzazione esistenziale insperata che si adombra nella storia d’amore di Marthe e dell’inquilino, una storia dove, più dei fatti, contano i silenzi e le poche parole scambiate, e nascoste, dietro una porta. Anche a Marthe, pur così diversa da Nanà si addice l’imperativo di Montaigne, che Godard premetteva a Vivre sa vie: «Bisogna prestarsi agli altri e darsi a se stessi». Non capiremmo, altrimenti, la determinazione con cui Marthe va dall’inquilino e chiede di poterlo seguire, l’ansia dell’attesa, la luminosa felicità dell’incontro finale.
Per Jacques è il ritorno alla solitudine: potrà riascoltare la propria voce registrata che grida il nome di Marthe, immaginarne pentimenti e ritorni. «Credo soltanto nell’amore. L’amore aiuta a comprendere», ha detto una volta Bresson, rovesciando la banale domanda di un intervistatore in una risposta imbarazzante e assoluta.
Mai forse, come nelle Quattro notti di un sognatore, egli ha avvertito con tanta forza questo tema dell’amore come bisogno non sostituibile di realizzazione, e ne ha descritto la sconfitta. Lo sguardo escluso di Jacques che spia in giardino, come un ladro, i gesti e i trasalimenti dell’amore in una coppia di ragazzi o registra gli approcci amorosi dei piccioni su un prato, il nome di Marthe che torna a sorprenderlo dalla vetrina di un negozio o dalla prua di una chiatta e lo riporta alla propria ferita, non rimandano alla timidezza e impotenza sessuale superficialmente ipotizzata da qualche critico, ma parlano il linguaggio del desiderio che attende il proprio compimento.
Un nodo di solitudine e di tristezza, una sproporzione permanente tra esistenza e possibilità, che si scioglie troppo in fretta in un illusorio amplesso dei corpi, in una stretta affannosa di mani che si cercano e si stringono sotto il tavolo di un caffè. Aveva ragione Bresson di replicare a Sémolué: «Per me la conclusione è pessimista: di un pessimismo non triste, e tuttavia più amaro».
In questo senso, le Notti possono sembrare una sorta di Pickpocket ribaltato: il volto di Jacques, le sue passeggiate solitarie, il movimento della vita interiore che traspare nei gesti e nelle apparenze, ricordano Michel; ma Marthe non è Jeanne e mentre rimprovera, come quella, al suo giovane compagno di vivere fuori della “realtà”, lo risospinge verso la fuga nel sogno e nel desiderio. La “riconciliazione” non avviene: l’ultima immagine è una macchia di colore rosso che Jacques sparge sulla tela mentre il magnetofono riprende a raccontare l’impossibile.
Quindici anni prima Visconti aveva costruito intorno ai due personaggi di Dostoevskij una città di raggelate scenografie, percorse da bagliori evocati con troppa sapienza; Bresson gira il racconto d’amore di Jacques e di Marthe quasi esclusivamente in esterni.
Ripellino diceva, del personaggio dostoevskiano, che «la disperata timidezza di questo sognatore (…) sembra trasferirsi a tutto il paesaggio, a tutto il tessuto verbale del racconto». In Bresson si verifica, in un certo senso, il contrario: il paesaggio viene “selezionato” secondo l’ottica dei protagonisti, adattato alla loro misura. La così detta “realtà” diventa irrealtà quotidiana, casuale andirivieni di passi e di facce tra la casa e la strada; coltre notturna di cerchi luminosi di semafori, di suoni di auto in corsa. Non diremmo, dunque, che la prigione è scoppiata, come vuole Sémolué, ma, se mai, che essa si è enormemente dilatata, spazio libero dove si agitano e sovrappongono solo apparenze di libertà.
Anche qui i tempi morti e le pause si caricano di echi imprevedibili, il silenzio parla il linguaggio dell’angoscia e del desiderio: la maniglia di una porta sfiorata da una mano, l’attesa dietro una porta chiusa. I “fatti” vengono svuotati di spessore, si sottraggono alle schiavitù della rappresentazione: una fila di bottoni slacciata, una fila di bagagli sulla scala scorrevole di Orly evocano, chiudendoli nel giro distaccato e concluso di una figura di stile, la pienezza di un amplesso e il vuoto di uno distacco.
Suono e voce diventano richiami e presenze irrinunciabili, ridestano e anticipano il passato e il futuro del sentimento; Jacques in autobus, seduto davanti a due donne che lo guardano inquiete, ascolta il magnetofono, nascosto dentro la giacca, ripetere il nome di Marthe, che egli invocherà con lo stesso timbro nella quarta e più dolorosa delle sue notti.
All’interno del Bateau-mouche l’orchestrina brasiliana rimanda immagini e ritmi accattivanti, ma quando il battello si allontana, è al dileguarsi dell’“Atalante” che si pensa, e i suoni e i riflessi di luce che lambiscono il parapetto della Senna, sfiorando la coppia lungamente ripresa di spalle, acquistano una risonanza diversa, uno struggimento doloroso. Lo stesso che prende i due protagonisti nell’osservare i piccoli gruppi di hippy che, dopo essersi fermati a suonare, scompaiono nella notte. Anche qui, tranne che all’inizio, nessuna musica di accompagnamento: è soltanto la presenza e la visibilità degli strumenti che fa esistere la musica.
Lo stesso rigore di scelte e di esclusioni a proposito dell’“attore”: «È stupefacente vedere quel che una camera può strappare a degli esseri giovani, che né gli studi né la vita hanno deformato» (intervista a J. Sémolué). Se Marthe richiama a volte l’“assenza” imbronciata della “femme douce”, Jacques evoca, ma con maggiore e più disarmata dolcezza, il Martin Lassalle di Pickpocket.
Bresson sembra avere mutuato dalla Nouvelle Vague, e in particolare dal Godard di Vivre sa vie, che gli devono molto, l’attenzione ossessiva al volto inseguito senza tregua da una camera indiscreta e reticente a un tempo, che cerca la trasparenza della vita interiore. «La modernità colpisce, in Quattro notti di un sognatore — osserva Sémolué -, a tal punto che l’atmosfera globale del film si avvicina più a Baci rubati di Truffaut o a Masculin-Féminin di Godard, che alle Notti bianche di Visconti, a onta della comune fonte letteraria» («Téléciné», n. 173, 1971).
Sotto tale profilo, Quattro notti, ritenuto ingiustamente un film “minore”, e certo meno ricco di altri di questa felice stagione bressoniana, è poi uno dei risultati più esemplari, nella sua perfezione conchiusa e toccante, del “cinematografo” di Bresson. Una perfezione che viene, anche, dal minor “rigorismo”, da una più confidente apertura di racconto, turbato come pochi altri del regista senza, per questo, perdere in severità e tensione.
Da Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro Cinema n. 25, Editrice Il Castoro, 2004, pp. 109–116
Giorgio Tinazzi
A un anno, o poco più, da Così bella, così dolce Bresson torna a Dostoevskij traendo un film da Le notti bianche.Testimonianza ulteriore di una non casuale interferenza di interessi, anche se il regista ha dichiarato che non sono mancati motivi contingenti a spingerlo a una scelta che pur trova radici sostanziali.
Il film ha avuto in generale un’accoglienza complessivamente positiva ma fredda, anche da parte della critica francese, vicina all’omaggio tiepido che rischia di non toccare l’opera; a suo tempo (1957) si discusse molto di più del film tratto da Visconti dalla stessa novella, anche se mi pare fosse, al di là della resa, un adattamento meno “originale”.
Quello delle Notti bianche è un Dostoevskij giovane, nel quale non c’è ancora la corposità delle grandi creazioni che — come si sa — affascinano Bresson; ma alcuni temi tipici vengono alla luce, e inoltre la schematicità dell’impianto letterario permette ancora quel lavoro all’interno di una struttura portante che già conosciamo: “la novella tratta di amore e gioventù. Questo amore e questa gioventù di Dostoevskij mi sembrano prodigiosamente attuali”.
Eppure, il regista doveva partire da tonalità che sembrano lontane dal suo mondo, quali la letterarietà dello scrittore, se non altro nei dialoghi, e la sua teatralità, in senso bressoniano; ciò comportava anche un lavoro di “liberazione” (che lascia traccia della sua difficoltà), dallo psicologismo verso la descrizione di situazioni. E in questo passaggio non mancano incertezze, poiché il primo aspetto sembra ancora imbrigliare.
Comunque, è proprio il cambio di tonalità che in buona parte caratterizza il film, anche se talune cadenze rimangono, e che lo differenzia, ad esempio, da quello di Visconti. Nessuna intenzione di instaurare paragoni infruttuosi, solo un’osservazione per intendere meglio Bresson; quella del regista italiano mi sembra nel complesso una infedeltà a Dostoevskij che si risolve in “falsificazione”, nella quale la teatralità dello scrittore (nel senso che dicevamo) è buttata in enfasi, come possono testimoniare la scenografia, la recitazione, la musica, anche taluni inserti (il ballo, ad esempio); la ricostruzione sa spesso di artificio.
Bresson cerca più l’originalità, la quale conosce anche l’adesione fedele, secondo un’apparente contraddizione di cui si è già parlato; è un’operazione più rischiosa, dovendo passare attraverso il partito preso dalla spogliazione. Lo schema dostoevskiano serve perché, in un certo senso, “riduce” alcuni temi, di cui Bresson ha dichiarato l’attualità (la “complessità di un amore di gioventù oggi”).
Sotto il traliccio — la storia “a tre” — troviamo il rapporto tra amore e “mito” (quasi delle anticipazioni rispetto a Lancillotto), e l’analisi dell’uscita da un amore minato. Una storia governabile da altri, l’Inquilino come Hélène tengono (come è stato notato) le fila di eventi che si ripercuotono altrove: due incontri che si intersecano, caso e destino con continue interferenze.
Ci avviciniamo ancor più a temi bressoniani quando osserviamo che la “felicità” (lei) è poi lesione dell’altro, infine (come in Une femme douce) il mutamento è anche impossibilità (il finale).
Questa volta il personaggio più complesso sembra quello maschile (Jacques). La sua recettività sta nella non azione, è capacità di visione, le strade le vetrine le ragazze che passano i colori i rumori, tutto diventa comportamento. Ma la passività “inattuale” è anche complicità al distacco, spinta alla diversità; Bresson dice che il suo distacco dal mondo è in fondo una visione mistica. La contemplatività si unisce all’apertura, ascolta e vede, registra, il magnetofono sostituisce il diario di Pickpocket.
L’immaginazione trova il suo ruolo, come anticipazione e più ancora come sostituzione, come romantica — e letteraria — contrapposizione: “Sapessi quante volte sono stato innamorato. — E di chi? — Di nessuno, di un ideale, della donna che vedo in sogno. — È un’idiozia”. Il registratore è lo strumento della realtà immaginata-sostituita (“che tu sia benedetta per la felicità che mi dai”); si potrebbe pensare che, bressonianamente, l’orecchio è strumento dell’interno?
La “fantasia” diventa magari impotenza, perché alla fine si rivela estraneità al mondo. O forse, come taluno vuole, l’immaginazione-creazione del finale si rivela la fine del “sogno”, e in questo senso quasi gli si contrappone?
La solitudine è nel film la nota di Jacques (“io non ho una storia”), ma Bresson preferisce darci prima i dati della giovinezza (anteriormente alla prima notte), che non quelli relativi alla assenza di rapporti, la disponibilità viene prima della “storia”.
Questa caratteristica l’unisce a Marta, personaggio per alcuni versi reso più “reale” rispetto a quello corrispondente di Dostoevskij. L’elemento in più, “femminile” come sempre in Bresson, è la consapevolezza, o la lucidità, molto più presenti che nella novella, nella quale più emergeva invece la matrice del “sogno”: dobbiamo essere intelligenti, dice a un certo momento, e più tardi aggiunge: perché gli uomini hanno sempre qualcosa da nascondere?
La disponibilità conosce anche le corde dell’erotismo, il suo offrirsi non evidente, il suo guardarsi allo specchio (e la scena è stata tagliata nell’edizione italiana trasmessa per televisione). Il mito dell’evasione è presente in lei (“Mi porti via — È impossibile”), si nota l’apertura al caso.
Dietro ai due perni del racconto c’è il “mito”, l’Inquilino, e poi la madre, assai diversa dalla nonna che compare nella novella: strumento, testimone, intrusa.
Su questo tessuto di “incontri” ideologici si svolge, preminente come al solito, la messa in stile. Le situazioni originarie sono mantenute, ma troviamo anche significative interpolazioni; per esempio, la storia del protagonista appare tutta nella seconda notte, mentre in Dostoevskij comincia nella prima.
Alcuni dialoghi sono mantenuti, ma vengono ridotti, troncati, talora uniti: del lungo sfogo all’inizio della quarta notte restano solo due frasi, “Che cosa avete? Ma io vi amo”, il resto è ridotto a gesto, a carezze. Altre volte Bresson copre col silenzio alcune battute più intensamente “teatrali”, oppure sintetizza, come avviene per il racconto di Jacques a Marta nella seconda notte (che è riportato al registratore). Il “taglio” è dunque il procedimento più apparente, anche se non mancano aggiunte, per esempio il recapito della lettera (fine della seconda giornata) o la conclusione della terza giornata.
Anche alcune componenti del carattere vengono “abbassate”; quello che qualche critico ha definito la componente narcisistico-masochista dei protagonisti mi pare si attenui, perlomeno si distenda. Vi contribuiscono anche i procedimenti caratteristici di dilatazone, che mirano ad allentare i momenti di tensione interna; penso alla sequenza a Orly, oppure alla scansione di gesti “inutili” (la doccia o la colazione), ai molti esterni insistiti (quando c’è il recapito della lettera, ad esempio); l’incontro finale è volutamente preceduto da una inquadratura, estranea all’andamento, di alcune persone che suonano.
“Analizzando sempre più il solo comportamento, Bresson lo trascende, per tracciare un ritratto”: è una tendenza generale che si ravvisa sin dall’inizio, una sorta di radiografia del gesto; d’altronde il regista riduce la prima notte a una sorta di breve prologo, messo in contrasto agli esterni che compaiono prima dei titoli di testa.
Il movimento dei personaggi è talora l’unica manifestazione, e si può portare ad esempio l’inizio della quarta notte, quando la delusione di lei è tutta scandita da corse, da camminate sul ponte, seguite da un’inquadratura statica puramente compositiva (Marta seduta, il quadro tagliato a metà dal ponte). D’altronde tutto il gioco di entrate e uscite di campo è sottolineato quasi geometricamente. Come si è già notato, talora i gesti sostituiscono momenti di dialogo, come nel colloquio prima della fine della quarta giornata (le mani che si stringono, al bar).
In questa dimensione lo sfondo, la città, la collocazione dei personaggi assume un particolare rilievo: non è più la Pietroburgo personificata di Dostoevskij, ma la Parigi d’oggi, per scorci, e Bresson anzi gioca sui due piani, l’“inattualità” della storia e l’“oggi” calcato, reso tutto manifesto. Perciò l’ambiente conta più che in altri film, sia come luogo di “ritorni”, cioè di iterazioni narrative, sia come “presenza”, la gente che cammina, insistentemente ripresa nei particolari, le strade, i rumori, il casuale ampliato. Certo, si intravede il calcolo dell’’operazione, come preoccupazione costante.
Non è infatti, come nello scrittore, una città al limite dell’astrazione per eccesso di soggettivismo, la descrizione vuole essere in un certo senso oggettiva, ma al tempo stesso (perciò, si direbbe, con tipica contraddizione bressoniana) sfondo di una storia che tende alla parabola: il gioco tra. apertura “mitologica” dei fatti e scenografia è sempre pregnante.
La divisione in blocchi accentua lo svolgimento temporale; la storia dei protagonisti si unisce all’iterazione di fatti, di gesti, in un rapporto fluido. Prevale il presente, che Bresson sempre privilegia: su immagini del presente comincia la storia, senza soluzione di continuità, e il narratage finisce — ancora — su immagini “dirette”.
Le iterazioni, si diceva: la città, il movimento dei battelli, gli interni, la musica; quest’ultima è sempre esterna, cioè non di commento ma inerente ai fatti o alle persone rappresentate, sono volutamente tutti brani da dischi “di consumo”, sì che essa “guadagna in urto momentaneo ciò che perde in profondità, in presenza epidermica ciò che perde in potenza essenziale” (Sémolué). Pieni e vuoti si alternano, silenzi e rumori, e colori, con un dosaggio tutto calcolato di tinte calde e fredde, con insistenze ricercate (i vestiti nella vetrina ecc.).
Anche alcuni inserti dentro la storia sono tipicamente bressoniani; da un lato troviamo l’espediente (che già avevamo visto in Une femme douce) del contrappunto fornito dalla rappresentazione di un film, tutto volutamente sovratono (i rantoli, il sangue sparso, la pistola), e ironizzato.
Dall’altro, come in Balthazar (ma con reminiscenze in Così bella, così dolce), vi è la parentesi “didascalica”, l’arte, l’amico che espone le sue teorie: “Mi interessa l’incontro del pittore con un’idea… L’importante è il gesto che smaterializza l’oggetto, non l’oggetto e il pittore in senso reale, ma l’oggetto e il pittore astratto”; l’interpretazione più facile consiste nel considerare tali digressioni come se fossero quasi una dichiarazione bressoniana di poetica, ma l’ingenuità mi parrebbe evidente.
Il tono volutamente sentenzioso e “innaturale” può allora far pensare a un “humor freddo” del regista, ma allora conviene anche constatare che questa corda non gli appartiene. Forse sono rischiosi sovra toni di sentenziosità, posti ad acuire il distacco, a frapporre un diaframma intellettualistico che raggeli i possibili slittamenti sentimentali. Ma sono anche indubbie cadute stilistiche.
Chi vuole, d’altronde, ha modo di trovare anche in questo film un inventario formale bressoniano assai ricco, nel quale l’invenzione, cioè la ripresa originale, si accompagna a ripetizioni più stereotipate; si va dall’ossessione delle mani (nelle scene d’amore), alle citazioni interne: ad esempio l’inquadratura che segue Marta in ascensore è ripresa chiaramente da quella famosa di Les dames du Bois de Boulogne.
Ritroviamo il gusto compositivo degli interni, il gioco vivo dei colori (il blu, il giallo, il bianco), che esplode in alcuni esterni (i verdi, quando passa sotto il ponte il battello con l’orchestra, ecc.). Alcuni raccordi richiamano ellissi «classiche», e contemporaneamente ci sono composizioni nel quadro che Bresson sembra prediligere: il campo-controcampo con uno dei personaggi “di quinta” in taluni momenti-chiave (Marta: «Perché non è come lei? lei è più intelligente e più buono di lui. Ma è lui che amo”). Si arriva a “trovate” che stridono: il nome “Marthe” su una vetrina, o scritto sul battello, i rumori dei piccioni registrati da Jacques al giardino pubblico, mentre osserva le coppie.
Sono scorie che appesantiscono, ma che complessivamente non incidono troppo nella struttura, rispetto alla quale le “invenzioni” bressoniane hanno una precisa funzionalità. Il regista ad esempio alza il tono del “gesto” iniziale, che in Dostoevskij è più sommesso, perché la protagonista piange, non tenta il suicidio: questo andare sopra le righe prelude poi, anziché a un ampliamento degli eventi, a uno svolgimento appianato, ancora tendenzialmente sdrammatizzato.
L’oggettività prende il posto della partecipazione, superando l’io narrante dello scrittore, lasciando pochissimo spazio al narratage, contrariamente a quanto avviene in Così bella, così dolce. L’obiettività si traduce, più complessamente, in atteggiamento nei confronti dell’opera, il film è visto anche come costruzione oggettuale, dalla “storia” di sentimenti alla geometrizzazione, dalla materia di base al disegno; i colori stessi ne sono una manifestazione, assumono un valore in sé, elemento autonomo di ritmo, di composizione: le stoffe, gli accostamenti, alcune inquadrature statiche, di stampo ritrattistico (Marta di spalle, alla finestra, per esempio).
In linea generale è proprio questa oggettività ad accentuare la chiusura finale. Questa volta essa può forse assumere anche l’aspetto di una contemplazione in qualche modo consolatoria, la solitudine è ripiegamento, l’arte sostituisce “immaginativamente” la vita. Ma nonostante questa tentazione (che comunque non costituirebbe che un’apertura parziale o “sostitutiva”) viene infine a prevalere il peso del distacco, l’incapacità del progetto, l’ambivalenza di una sublimazione che si svela chiusura; torna il “sogno”, lo scacco sembra produrre (l’arte), ma non distoglie dalla sconfitta.
Da: Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, Venezia, 1976, pp. 121-126