Proust: La musica come la vita

Richiede tempo e ascolto per capirla

Mario Mancini
6 min readDec 27, 2022

Passo da All’ombra delle fanciulle in fiore

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Proprio uno di quei giorni le capitò di suonarmi la parte della Sonata di Vinteuil ove si trova la piccola frase che Swann aveva tanto amato. Ma spesso, quando si tratta di una musica un po’ complicata che si ascolta per la prima volta, non si sente niente. Eppure, quando in seguito ebbi udito quella sonata due o tre volte, mi accorsi di conoscerla perfettamente.

Così non a torto si dice: «sentire per la prima volta». Se veramente come si è creduto non si fosse afferrato niente alla prima audizione, la seconda, la terza sarebbero altrettante prime volte, e non ci sarebbe ragione che se ne capisse qualcosa di più alla decima.

Probabilmente ciò che fa difetto la prima volta, non è la comprensione, ma la memoria. Perché la nostra memoria, rispetto alla complessità delle impressioni che deve affrontare mentre ascoltiamo, è estremamente esigua, corta come la memoria di un uomo che dormendo pensi a mille cose che dimentica subito, o di un uomo regredito all’infanzia che dopo un momento non ricorda ciò che gli è stato appena detto. La memoria non è in grado di fornirci il ricordo di queste molteplici impressioni.

Ma il ricordo si forma in essa a poco a poco, e, nei confronti di opere che si sono ascoltate due o tre volte, ci si trova ad essere come il collegiale che ha riletto a più riprese, prima di addormentarsi, una lezione che credeva di non sapere mentre, il mattino dopo, la recita a memoria.

Ma io fino a quel giorno non avevo udito una sola nota di quella Sonata e là, dove Swann e sua moglie vedevano una frase distinta, questa era così lontana dall’essere chiara alla mia percezione, come un nome che si cerca di ricordare e in sua vece non si trova che il nulla, un nulla dal quale un’ora dopo, senza che ci si pensi, spontaneamente, di colpo, balzeranno fuori le sillabe prima vanamente sollecitate.

E non soltanto non si colgono subito le opere veramente rare, ma di ognuna di esse, come mi accadde per la Sonata di Vinteuil, si afferrano per prima le parti meno preziose. Di modo che mi ingannavo pensando che l’opera non dovesse riservarmi più niente (ragione per cui restai a lungo senza cercare di ascoltarla) dal momento che Madame Swann me ne aveva suonato la frase più famosa (stupido in questo come coloro che ritengono che non proveranno più sorpresa davanti a San Marco a Venezia, perché la fotografia ha già rivelato loro la forma delle sue cupole).

Ma per di più, quando ebbi ascoltato la Sonata dal principio alla fine, essa mi restò quasi completamente invisibile, come un monumento di cui la distanza o la nebbia non lascino intravedere che parti scarse e confuse. Da qui la malinconia connessa alla conoscenza di tali opere, come di tutto ciò che si realizza nel tempo.

Quando mi si rivelò il significato più nascosto della Sonata di Vinteuil, già sottratto dall’abitudine all’influsso della mia sensibilità, ciò che avevo colto, e a tutta prima preferito, cominciava a svanire e a sfuggirmi. Per non essere riuscito ad amare se non in tempi successivi tutto ciò che quella Sonata mi offriva, non riuscii mai a possederla interamente.

Era come la vita. Ma meno ingannevoli della vita, questi grandi capolavori non cominciano col darci ciò che hanno di meglio. Nella Sonata di Vinteuil, le bellezze che si scoprono per prime sono anche quelle di cui ci si stanca più presto, e probabilmente, per la stessa ragione, vale a dire perché differiscono meno da ciò che già conoscevamo.

Ma quando queste bellezze sono svanite, ci resta da amare quella tal frase che il suo genere, troppo nuovo per non recar confusione al nostro spirito, ce l’aveva resa impercettibile e serbata intatta; allora essa, davanti alla quale passavamo ogni giorno senza saperlo, e che si era tenuta nascosta, essa che per il potere della sua sola bellezza era diventata invisibile e rimasta sconosciuta, ci si rivela per ultima. Ma sarà anche l’ultima che abbandoneremo. E l’ameremo più a lungo delle altre, perché avremo impiegato più tempo ad amarla.

Quel tempo, del resto, necessario a un individuo, — come fu necessario a me nei confronti della Sonata — per penetrare un’opera un po’ profonda, non è che la sintesi e come il simbolo degli anni, dei secoli, a volte, che devon trascorrere prima che il pubblico riesca ad apprezzare un capolavoro veramente nuovo.

Così l’uomo di genio, per risparmiarsi le incomprensioni della folla, dice a se stesso che forse mancando ai contemporanei la prospettiva necessaria, le opere scritte per i posteri non dovrebbero esser lette che da loro, come certi dipinti che non si possono giudicare bene se osservati troppo da vicino.

Ma in realtà ogni vile precauzione per evitare gli errori di giudizio è inutile; essi sono inevitabili. La ragione per cui un’opera di genio viene difficilmente apprezzata subito sta nel fatto che colui che l’ha scritta è un essere straordinario e pochi si identificano con lui. Sarà la sua stessa opera che, fecondando i rari ingegni capaci di comprenderla, li farà crescere e moltiplicarsi.

I quartetti di Beethoven (i quartetti XII, XIII, XIV, e XV) hanno impiegato cinquant’anni a dar vita e allargare il pubblico dei quartetti di Beethoven, realizzando così come tutti i capolavori, un progresso, se non nel valore degli artisti, almeno nel mondo intellettuale largamente costituito, oggi, da elementi inesistenti quando il capolavoro apparve, vale a dire di esseri capaci di apprezzarlo.

Quella che noi chiamiamo posterità, è la posterità dell’opera. Bisogna che l’opera (non tenendo conto, per semplificare, dei genî che in una stessa epoca possono parallelamente preparare per l’avvenire un pubblico migliore di cui, non loro, ma altri genî si avvantaggeranno) crei essa stessa la propria posterità.

Se dunque l’opera non venisse divulgata, ma venisse conosciuta soltanto dalla posterità, quest’ultima, per l’opera, non sarebbe la posterità ma un insieme di contemporanei vissuti semplicemente cinquant’anni più tardi.

Perciò bisogna che l’artista — e questo è ciò che aveva fatto Vinteuil — se vuole che la propria opera possa seguire la sua strada, la lanci là ove vi sia abbastanza profondità, in pieno e lontano avvenire. E tuttavia, se il non tener conto di questo futuro, unica prospettiva del capolavoro, è il difetto dei giudici incompetenti, tenerne conto è, talvolta, il pericoloso scrupolo dei competenti.

Certo è facile immaginare, in un’illusione analoga a quella che rende uniformi tutte le cose all’orizzonte, che ogni rivoluzione che si è attuata fino ad oggi nella pittura o nella musica abbia rispettato non di meno certe regole, mentre ciò che ci sta immediatamente dinanzi: impressionismo, ricerca della dissonanza, uso esclusivo della gamma cinese, cubismo, futurismo, differisce oltraggiosamente da ciò che l’ha preceduto.

Ma ciò che l’ha preceduto lo consideriamo senza tener conto che una lunga assimilazione l’ha convertito per noi in una materia, varia sì, ma tutto sommato omogenea, dove Victor Hugo si trova accanto a Molière.

Pensiamo un istante alle sconvolgenti contraddizioni che presenterebbe, se non tenessimo conto dell’avvenire e dei cambiamenti che esso comporta, un oroscopo della nostra età matura pronosticatoci durante l’adolescenza. Solo che non tutti gli oroscopi sono veri, e l’esser costretti per un’opera d’arte a far entrare nel complesso della sua bellezza il fattore tempo aggiunge al nostro giudizio qualcosa di così azzardato, e di conseguenza privo di ogni autentico interesse, al pari di qualsiasi profezia, la cui mancata attuazione non implica la mediocrità di spirito del profeta, perché ciò che fa esistere i possibili o li esclude non è necessariamente di competenza del genio; si può essere stati dei genî e non aver creduto all’avvento della ferrovia o degli aereoplani, o, pur essendo grandi psicologi, alla falsità di un amante o di un amico, di cui persone molto più mediocri avrebbero previsto i tradimenti.

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Milano, Rizzoli, Edizione del Kindle, pp. 742–746

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Mario Mancini
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Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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