Progresso tecnico e universo di vita sociale
di Jürgen Habermas
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [aprile 2020]
Da quando C.P. Snow ha pubblicato nel 1959 un libro dal titolo Le due culture[1] si è riaccesa, e non solo in Inghilterra, la discussione sul rapporto tra scienza e letteratura. Dagli inglesi scienza viene intesa restrittivamente nel senso di Science, cioè di scienza empirica rigorosa, mentre letteratura è intesa in senso lato, comprendendo anche in certo modo quel che nelle scienze dello spirito noi chiamiamo interpretazione. Il saggio, dal titolo Literature and Science[2], con il quale Aldous Huxley è intervenuto nel dibattito, si limita però a un confronto tra le scienze naturali e la letteratura in senso proprio.
Huxley distingue dapprima le due culture dal punto di vista delle esperienze specifiche che in esse vengono elaborate: la letteratura formula asserzioni prevalentemente su esperienze private, le scienze invece su esperienze accessibili intersoggettivamente. Queste ultime possono essere espresse in un linguaggio forma- lizzato, reso vincolante per ognuno in base a definizioni universali. Per contro, il linguaggio della letteratura deve verbalizzare l’irripetibile e istituire caso per caso l’intersoggettività dell’intendersi. Questa distinzione tra esperienze private e pubbliche permette però solo una prima approssimazione al problema.
L’elemento di ineffabilità, che deve essere superato dall’espressione letteraria, non risale tanto al fatto che alla sua base sta un vissuto privato, incarcerato nella soggettività, quanto piuttosto al fatto che queste esperienze si costituiscono nell’orizzonte di un ambiente biografico. Gli eventi, al cui contesto si riferiscono le leggi ipotizzate delle scienze, possono sì essere descritti in un sistema di coordinate spazio-temporali, ma non sono elementi di un universo:
«Il mondo con cui la letteratura ha a che fare è il mondo dove uomini nascono e vivono e alla fine muoiono; è il mondo dove amano e odiano, conoscono trionfi e umiliazioni, speranza e disperazione; il mondo delle sofferenze e dei godimenti, della pazzia e del buon senso, della stupidità, della furberia e della saggezza; il mondo delle pressioni sociali e degli impulsi individuali, della ragione contro la passione, degli istinti e delle convenzioni, del linguaggio di scambio e del sentimento e della sensazione non comunicabile.»[3]
Invece la scienza non si occupa dei contenuti di un tale universo di vita, costruito prospettivamente, centrato su e legato all’Io, preinterpretato nel linguaggio colloquiale di gruppi sociali e di individui socializzati:
«Ma nella sua professione di chimico, o poniamo di fisico oppure di fisiologo, egli abita un universo radicalmente differente; non l’universo delle apparenze date, ma un mondo di sottili strutture dedotte, non il mondo sperimentato di avvenimenti eccezionali e di attributi svariatissimi, ma un mondo di regolarità calcolate».
Huxley contrappone all’universo di vita sociale, l’universo caotico dei fatti. Egli vede anche esattamente in che modo le scienze traducono le loro informazioni su questo universo senza senso nell’universo di vita di gruppi sociali:
«La conoscenza è potenza e, con un paradosso soltanto apparente, proprio attraverso la loro conoscenza di quanto accade nel mondo non sperimentato, fatto di astrazioni e di deduzioni, scienziati e tecnologi hanno raggiunto la loro enorme e sempre crescente potenza per controllare, dirigere e modificare quel mondo dalle tante apparenze in cui gli esseri umani hanno il privilegio e la condanna di vivere»[4].
Tuttavia Huxley non affronta il problema del rapporto tra le due culture al livello di questa cesura in cui le scienze penetrano nell’universo di vita sociale con la valorizzazione tecnica delle loro informazioni, bensì postula una relazione immediata: la letteratura deve assimilare le asserzioni scientifiche come tali, in modo che la scienza possa assumere «una figura di sangue e carne». Deve esserci un poeta che ci dica
«Come dovrebbero essere poeticamente purificate le confuse parole della tribù e quelle troppo precise dei libri di testo, così da renderle idonee ad armonizzare le nostre esperienze individuali e incomunicabili con le ipotesi scientifiche nei termini delle quali ci vengono spiegate»[5].
A mio parere, questo postulato si basa su un malinteso. Le informazioni prodotte dalle scienze empiriche rigorose possono penetrare nell’universo di vita sociale solo tramite la loro valorizzazione tecnica, come sapere tecnologico; qui esse sono al servizio dell’estensione del nostro potere di disposizione tecnico. Quindi non si trovano sullo stesso piano dell’autocomprensione di gruppi sociali che orienta l’azione.
Perciò il contenuto informativo delle scienze non può essere immediatamente rilevante per il sapere pratico di tali gruppi, che si esprime nella letteratura; può acquistare significato solo una volta mediato dalle conseguenze pratiche del progresso tecnico. Prese in sé, le scoperte della fisica atomica restano senza conseguenze per l’interpretazione del nostro universo di vita sociale: in questo senso è inevitabile la distanza tra le due culture.
Solo quando eseguiamo scissioni atomiche con l’aiuto delle teorie fisiche, soltanto quando le informazioni vengono valorizzate per il dispiegamento di forze produttive o distruttive, le loro conseguenze pratiche rivoluzionanti possono penetrare nella coscienza letteraria dell’universo di vita. Insomma, nascono poesie di fronte allo spettacolo di Hiroshima e non elaborando ipotesi sulla trasformazione della massa in energia.
L’idea di un componimento poetico sull’atomo che elabori ipotesi scientifiche parte da presupposti sbagliati. Piuttosto si vede che il rapporto problematico tra letteratura e scienza in fondo non è che un frammento di un problema molto più ampio, il problema cioè di come sia possibile una traduzione del sapere valorizzarle tecnicamente nella coscienza pratica di un universo di vita sociale.
Questo problema pone evidentemente non solo la letteratura — anzi neppure in prima linea essa — davanti a un nuovo compito. Quel rapporto inadeguato tra le due culture è inquietante solo perché nel conflitto apparente di due tradizioni spirituali concorrenti si profila in verità un problema vitale della civiltà scientificizzata. E precisamente, come si possa riflettere e mettere sotto il controllo di un dibattito razionale la relazione, oggi ancora spontanea e incontrollata, tra progresso tecnico e universo di vita sociale.
In certo modo anche nel passato si dovevano risolvere questioni della guida dello stato, della strategia e dell’amministrazione utilizzando il sapere tecnico. Tuttavia oggi il problema di una trasposizione del sapere tecnico in coscienza pratica si è modificato e non solo in senso quantitativo. L’insieme del sapere tecnico non si limita più alle tecniche dei mestieri classici, acquisite pragmaticamente, ma ha assunto la forma di informazioni scientifiche, valorizzatali per elaborare tecnologie.
D’altra parte, le tradizioni che guidano il comportamento non determinano più ingenuamente l’autocomprensione delle società moderne. Lo storicismo ha spezzato la validità quasi-naturale dei sistemi di valori orientanti l’azione. L’autocomprensione dei gruppi sociali e la loro immagine del mondo articolata nel linguaggio colloquiale sono mediate oggi da un’acquisizione ermeneutica di tradizioni in quanto tali.
In questa situazione i problemi della prassi vitale esigono una discussione razionale, che non si riferisca soltanto ai mezzi tecnici o all’applicazione di norme di comportamento tramandate, ciascuno preso per sé. La riflessione oggi richiesta va oltre la produzione di sapere tecnico e il chiarimento ermeneutico di tradizioni; si estende all’impiego di mezzi tecnici in situazioni storiche, le cui condizioni oggettive (potenziali, istituzioni, interessi) vengono interpretate di volta in volta nel quadro di un’autocomprensione definita dalla tradizione.
Questa problematica è diventata consapevole da una generazione o due. Nel XIX secolo si poteva pensare che le scienze penetrassero nella prassi sociale attraverso due canali distinti: in primo luogo, tramite la valorizzazione tecnica di informazioni scientifiche e in secondo luogo tramite i processi individuali di formazione dello studio scientifico. Anzi, nel sistema universitario tedesco — che risale alla riforma di Humboldt — ci si basa ancora sulla finzione che le scienze dispieghino la loro forza di orientamento dell’agire a processi di formazione interni alla biografia del singolo studente.
Io vorrei mostrare che oggi quell’intenzione — Fichte parlava di «trasformazione del sapere in opera» — può essere realizzata non più nella sfera privata della formazione, ma soltanto sul piano politicamente rilevante della traduzione del sapere valorizzabile tecnicamente nel contesto del nostro universo di vita. A tale fine collabora certo anche la letteratura, ma questo problema riguarda in prima linea le scienze stesse.
Al passaggio dal XVIII al XIX secolo, cioè ai tempi di Humboldt, in un orizzonte limitato alla Germania non ci si poteva fare alcuna idea di una possibile scientificizzazione degli affari pratici. Perciò i riformatori dell’università non avevano bisogno di rompere seriamente con la tradizione della filosofia pratica.
Le strutture di un mondo del lavoro preindustriale, conservate malgrado tutte le profonde rivoluzioni dell’ordinamento politico, permettono allora in certo senso per l’ultima volta la concezione classica del rapporto tra teoria e prassi: le abilità tecniche utilizzabili nella sfera del lavoro sociale non possono essere fornite immediatamente su base teorica, ma vengono esercitate ed acquisite pragmaticamente secondo modelli tramandati di destrezza.
La teoria, che si riferisce all’essenza immutabile delle cose al di là dell’ambito mutevole delle faccende umane, acquista validità nella prassi soltanto quando segna il contegno pratico degli uomini che si occupano della teoria, schiudendo loro a partire dalla comprensione del cosmo nel suo insieme anche norme per il proprio comportamento, assumendo così forma positiva tramite le azioni dei soggetti filosoficamente colti.
L’idea tramandata della formazione universitaria non ha accolto altra relazione fra teoria e prassi; perfino quando Schelling tenta di dare una base scientifica alla prassi del medico con la filosofia della natura, il mestiere del medico gli si trasforma senza volere in una dottrina dell’azione medica. Il medico dovrebbe cioè orientarsi sulle idee derivate dalla filosofia naturale così come il soggetto che agisce eticamente si orienta alle idee della ragione pratica.
Nel frattempo è ben noto che la scientificizzazione della medicina riesce solo nella misura in cui la dottrina tecnica pragmatica del mestiere di medico può essere trasformata in una disposizione su processi naturali isolati, controllata sulla base delle scienze naturali. Ciò vale ugualmente per altri ambiti del lavoro sociale; si tratti di razionalizzare la produzione di beni, la gestione aziendale e l’amministrazione o la costruzione di macchine utensili, di strade e aeroporti, oppure l’influsso sul comportamento elettorale, nel consumo o nel tempo libero, in ogni caso la prassi professionale corrispondente dovrà assumere la forma di una disposizione tecnica su processi oggettivati.
Ai tempi di Humboldt la massima secondo la quale scienza è formatrice ha richiesto una netta separazione tra università e scuola di specializzazione già per il fatto che le forme preindustriali di prassi professionale si opponevano a una fondazione e acquisizione teorica. Oggi i processi di ricerca sono accoppiati con la trasposizione tecnica e la valorizzazione economica, la scienza è accoppiata alla produzione e all’amministrazione nel sistema del lavoro delle società industriali: applicazione della scienza nella tecnica e applicazione retroattiva dei progressi tecnici nella ricerca sono diventati sostanza del mondo del lavoro.
Un rifiuto rigido, immodificato, della dispersione dell’università in scuole specialistiche in queste condizioni non può più rifarsi al vecchio argomento. Oggi la forma universitaria dello studio non deve certo offrire un riparo rispetto alla sfera professionale perché questa sarebbe ancora estranea alla scienza, ma al contrario perché la scienza, nella misura in cui ha compenetrato la prassi professionale, si è alienata a sua volta dalla formazione. La convinzione filosofica dell’Idealismo tedesco che la scienza sia formatrice non vale più per le scienze empiriche rigorose.
Un tempo la teoria poteva diventare potere pratico tramite la formazione; oggi abbiamo a che fare con teorie che possono dispiegarsi a potere tecnico in modo non pratico, cioè senza essere riferite esplicitamente all’agire reciproco di uomini conviventi. Certo ora le scienze forniscono un poter fare specifico, ma il poter disporre che esse insegnano non è quel saper vivere e agire che un tempo ci si aspettava da persone fornite di cultura scientifica.
L’uomo colto disponeva di un orientamento nell’agire. Questa formazione era universale solo nel senso dell’universalità di un orizzonte del mondo contratto prospettivamente, nel quale le esperienze scientifiche potevano essere interpretate e tradotte in capacità pratiche, cioè in una coscienza riflessa del praticamente necessario. Ora però il tipo di esperienza che secondo i criteri positivistici è l’unica ammessa scientificamente, non è più in grado di fornire questa traduzione nella prassi.
Il poter disporre, reso possibile dalle scienze empiriche, non deve essere scambiato con la potenza dell’agire illuminato. Ma allora la scienza è davvero dispensata del tutto da questo compito di un orientamento nell’agire, oppure oggi la questione della formazione universitaria nel quadro di una civiltà trasformata con mezzi scientifici si ripropone di nuovo come un problema delle scienze stesse?
Dapprima sono stati rivoluzionati da metodi scientifici i processi produttivi; poi le aspettative del funzionamento tecnicamente giusto sono state trasposte anche ad ambiti sociali, che in seguito all’industrializzazione del lavoro si erano ipostatizzati e così favorivano un’organizzazione programmata.
Il potere di disposizione tecnica reso possibile dalla scienza viene oggi esteso direttamente anche alla società; per ogni sistema sociale isolabile, per ogni ambito culturale resosi autonomo, le cui relazioni possano essere analizzate immanentemente nell’ambito di uno scopo sistemico presupposto, concresce in certo modo una nuova disciplina delle scienze sociali.
Nella stessa misura però i problemi della disposizione tecnica risolti scientificamente si trasformano in altrettanti problemi di vita pratica; infatti il controllo scientifico di processi naturali e sociali, insomma, le tecnologie, non svincolano l’uomo dall’agire. Oggi come ieri si devono decidere conflitti, affermare interessi, trovare interpretazioni — con azioni e trattative legate al linguaggio colloquiale. Solo che oggi queste questioni pratiche sono determinate esse stesse profondamente dal sistema delle nostre prestazioni tecniche.
Ma se la tecnica deriva dalla scienza, e intendo sia la tecnica dell’influsso sul comportamento umano sia il dominio della natura, il recupero di questa tecnica nell’universo della vita pratica, la reintroduzione della disposizione tecnica su ambiti particolari nella comunicazione di uomini agenti, esige veramente la riflessione scientifica. L’orizzonte prescientifico dell’esperienza diventa infantile, se l’avere a che fare con i prodotti della razionalità più estrema deve esservi inserito in modo ingenuo.
Certo, allora, la formazione non può più essere limitata alla dimensione etica dell’atteggiamento personale; invece l’orientamento teorico all’agire deve avvenire nella dimensione politica, di cui appunto si tratta, a partire da una comprensione del mondo esplicitata scientificamente.
Il rapporto tra progresso tecnico e universo di vita sociale e la traduzione delle informazioni scientifiche nella coscienza pratica non è una faccenda della formazione privata.
Al contrario, vorrei riformulare ancora una volta questo problema nel sistema di riferimento della formazione della volontà politica. Nelle pagine seguenti intenderemo con «tecnica» la disposizione scientificamente razionalizzata su processi oggettivati; ci si riferisce quindi al sistema in cui ricerca e tecnica sono accoppiate all’economia e all’amministrazione.
Inoltre con «democrazia» ci riferiamo alle forme garantite istituzionalmente di una comunicazione generale e pubblica che si occupa della questione pratica: come gli uomini vogliono e possono convivere nelle condizioni oggettive del loro potere di disposizione enormemente ampliato. Allora il nostro problema può essere posto come una questione circa il rapporto fra tecnica e democrazia: come può essere recuperato nel consenso di cittadini agenti e contrattanti il potere di disposizione tecnica?
Vorrei discutere dapprima due risposte contrapposte. La prima risposta possiamo derivarla nelle linee generali dalla teoria marxiana. Marx critica appunto il sistema della produzione capitalista in quanto potere che si è ipostatizzato rispetto alla libertà producente, di fronte ai producenti. A causa della forma privata dell’appropriazione di beni prodotti socialmente il processo tecnico di produzione di valori d’uso cade sotto la legge estranea del processo economico di produzione di valori di scambio.
Appena riconduciamo questo funzionamento, secondo leggi proprie dell’accumulazione del capitale alla sua origine, dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, il genere umano può afferrare che la coazione economica è opera alienata della sua libertà producente e quindi anche abolirla. Infine la riproduzione della vita sociale può essere pianificata razionalmente come processo di produzione di valori d’uso: la società lo pone tecnica- mente sotto controllo.
Il controllo viene esercitato democraticamente secondo la volontà e la consapevolezza degli individui associati. Così Marx equipara la consapevolezza pratica di un pubblico politico con una disposizione tecnica riuscita. Nel frattempo sappiamo che perfino una burocrazia programmatrice che funzioni bene (e il controllo scientifico della produzione di beni e servizi) non è una condizione sufficiente per la realizzazione delle forze produttive unite materiali e ideali nel godimento e nella libertà di una società emancipata.
Infatti Marx non aveva mai previsto che potesse sorgere una discrepanza tra il controllo scientifico sulle condizioni di vita materiali e una formazione democratica della volontà a tutti i livelli. Questo è il motivo filosofico per cui i socialisti non hanno mai previsto lo stato di benessere autoritario, cioè una relativa garanzia della ricchezza sociale con esclusione della libertà politica.
Anche quando la disposizione tecnica sulle condizioni fisiche e sociali della conservazione della vita e della sua facilitazione avesse raggiunto un grado come quello assunto per esempio da Marx per lo stadio comunista dello sviluppo, non vi sarebbe già connessa automaticamente anche un’emancipazione della società nel senso degli illuministi del XVIII secolo e dei giovani hegeliani del XIX secolo.
Infatti le tecniche con le quali sarebbe possibile controllare lo sviluppo di una società industriale sviluppata non possono più essere interpretate secondo il modello dello strumento, cioè come se venissero organizzati mezzi adeguati per fini presupposti senza discussione o magari chiariti in una comunicazione.
Freyer e Schelsky hanno sviluppato un contro-modello, in cui si riconosce l’ipostatizzazione della tecnica. Oggi, rispetto allo stato primitivo dello sviluppo tecnico, il rapporto tra organizzazione dei mezzi per scopi dati o progettati in anticipo sembra rovesciarsi. Da un processo, che ubbidisce a leggi immanenti, di ricerca e di sviluppo tecnico provengono, in certo modo senza volerlo, i nuovi metodi, per i quali poi vengono trovate le utilizzazioni.
Aumenta con spinte continue di fronte a noi un saper fare astratto, risultante da un progresso diventato automatico — così afferma la tesi di Freyer — : soltanto a posteriori se ne impadroniscono interessi pratici e una fantasia che fondi il senso, impiegandolo a fini concreti. Schelsky semplifica e spinge oltre questa tesi, sostenendo che il progresso tecnico insieme ai metodi imprevisti produce addirittura gli stessi scopi non programmati per cui quelli possono essere utilizzati. Insomma le possibilità tecniche impongono anche la loro valorizzazione pratica.
Egli sostiene questa tesi specialmente tenendo presenti quelle costrizioni oggettive estremamente complesse, che prescrivono nel caso di compiti politici soluzioni apparentemente senza alternative: «al posto delle norme e leggi politiche (appaiono) imperativi oggettivi della civiltà tecnico-scientifica, che si possono porre come decisioni politiche e comprendere come norme di natura etica o ideologica.
Così anche l’idea di democrazia perde la sua sostanza classica: al posto di una volontà politica popolare si presenta l’imperativo oggettivo, che l’uomo stesso produce come scienza e lavoro». Di fronte al sistema, ormai autonomo, costituito da ricerca, tecnica, economia e amministrazione, la questione di una possibile sovranità della società sulle condizioni tecniche della vita — ispirata dal programma della cultura neoumanistica — cioè la questione della loro integrazione nella prassi dell’universo di vita sociale sembra senza speranza invecchiata. Nello stato tecnico idee del genere al massimo possono servire per «manipolazioni dei motivi nell’interesse di ciò che accade comunque in base a criteri oggettivamente necessari».
È evidente che questa tesi secondo la quale il progresso tecnico è mosso da leggi sue proprie non corrisponde alla realtà. La direzione del progresso tecnico dipende oggi in forte misura da investimenti pubblici: negli USA il ministero della difesa e la NASA sono i due maggiori committenti della ricerca. Suppongo che nell’Unione Sovietica la situazione sia la stessa.
L’affermazione che le decisioni politicamente rilevanti si dissolvano nell’esecuzione della necessità oggettiva immanente delle tecniche disponibili e che esse quindi non possano più essere oggetto di considerazioni pratiche alla fine serve semplicemente a mascherare interessi incontrollati e decisioni prescientifiche. Come non corrisponde alla realtà l’assunto ottimistico di una convergenza di tecnica e democrazia, così non vale neppure l’affermazione pessimistica che la democrazia sia esclusa tramite la tecnica.
Le due risposte alla questione, come si possa recuperare il potere di disposizione tecnica, al consenso di cittadini agenti e contrattanti sono insoddisfacenti. Nessuna delle due risposte è in grado di risolvere adeguatamente il problema che ci si pone oggettivamente in Occidente e in Oriente, il problema di come si possa tentare di porre sotto controllo le relazioni finora incontrollate tra progresso tecnico e universo di vita sociale.
Le tensioni — già diagnosticate da Marx — tra forze produttive e istituzioni sociali, la cui esplosività nell’epoca delle armi termo-nucleari è cresciuta in un modo imprevedibile, derivano da un rapporto paradossale fra tecnica e prassi. La direzione del progresso tecnico è oggi ancora in gran parte determinata da interessi sociali che derivano spontaneamente e senza controllo dalla necessità di riprodurre la vita sociale, senza essere riflessi come tali ed essere confrontati con l’autocomprensione politica dichiarata dei gruppi sociali; di conseguenza, un nuovo poter fare tecnico penetra senza preparazione in forme già esistenti di prassi sociali.
Così nuovi potenziali di un potere ampliato di disposizione tecnica rendono palese la discrepanza tra i risultati della razionalità più estrema e fini irriflessi, sistemi di valori fossilizzati e ideologie ormai superate.
Nei sistemi industrialmente più avanzati si deve oggi tentare energicamente di assumere il controllo cosciente di una mediazione — realizzantesi finora nelle forme di una storia naturale — tra il progresso tecnico e la prassi sociale di grandi società industriali. Non è questa la sede per discutere le condizioni sociali, economiche e politiche da cui dovrebbe dipendere una politica della ricerca diretta dal centro e di lungo periodo.
Non è sufficiente che un sistema sociale soddisfi condizioni di razionalità tecnica. Anche se fosse realizzabile il sogno cibernetico di un’autostabilizzazione quasi-istintiva, il sistema di valori sarebbe nel frattempo ridotto a regole di massimizzazione del potere e del benessere e all’equivalente del valore biologico di base della sopravvivenza ad ogni costo, a ultrastabilità.
Il genere umano, con le conseguenze socioculturali non programmate, del progresso tecnico, ha sfidato se stesso non solo ad apprendere a esorcizzare il proprio destino, ma anche a dominarlo. Questa sfida della tecnica non è affrontabile con la sola tecnica. Si tratta piuttosto di mettere in moto una discussione politicamente efficace, che ponga in modo razionalmente vincolante il potenziale sociale di poter fare tecnico in relazione con il nostro sapere e volere pratico.
Una simile discussione potrebbe da un lato illuminare gli attori politici, in rapporto al tecnicamente possibile e fattibile, sull’autocomprensione dei loro interessi determinata dalla tradizione. Alla luce dei bisogni così articolati e reinterpretati gli attori politici potrebbero, d’altra parte, valutare praticamente in che direzione e misura vogliamo sviluppare in futuro il sapere tecnico.
Questa dialettica di potere e volere si compie oggi secondo interessi per i quali non è richiesta né permessa una giustificazione pubblica. Soltanto se riuscissimo a sviluppare questa dialettica con consapevolezza politica, potremmo assumere il controllo di una mediazione tra progresso tecnico e prassi della vita sociale, che finora si realizza in modo quasi-naturale. Poiché si tratta di una questione di riflessione, non è più di competenza ancora una volta di specialisti. La sostanza del dominio non si dissolve soltanto davanti al potere di disposizione tecnica; al più vi si può barricare dietro. L’irrazionalità del dominio, che oggi è diventata un pericolo mortale collettivo, potrebbe essere soggiogata solo da una formazione della volontà politica, legata al principio della discussione generale e libera dal dominio. Possiamo aspettarci una razionalizzazione del dominio solo da rapporti che favoriscano il potere politico di un pensiero connesso al dialogo. La forza liberatrice della riflessione non può essere sostituita dalla diffusione ed espansione di un sapere valorizzabile tecnicamente.