Pickpocket nella critica del tempo

Mario Mancini
39 min readMay 16, 2021

--

film di Robert Bresson nella critica italiana del tempo
Aller à la serie “Bresson par Bresson”

Il nodo di aridità e di rancore si scioglie, nel bellissimo finale, in un bacio impetuoso e casto, i volti e le mani si cercano e si sfiorano con dolce violenza.

Michel: “Lei crede che verrremo gudicati?”
Jaeanne: “Sì”

Michel: “O Jeanne, che cammino ho dovuto percorrere per arrivare sino a te.”

Quinto film di Bresson (in 15 anni), salutato dai critici con grandi elogi e considerato la sua opera più compatta e raffinata sul piano formale. Il regista Louis Malle dopo averlo visto dichiarò: “ Pickpocket è da considerarsi il primo film di Bresson. I suoi precedenti lavori appaiono a confronto semplici abbozzi”.

Narra la storia di un giovane studente che, prima per necessità poi per vocazione, pratica l’arte del borsaiolo fin quando Jeanne cambia la sua vita e gli indica la via del travagliato riscatto. Bresson raffigura con un forte distacco dal giovane protagonista, anche se compie atti molto discutibili. Lo stesso regista definisce la sua opera un film di “mani, oggetti e sguardi”.

Questo distacco quasi documentaristico, accompagnato dalla sospensione di ogni giudizio morale, accentua l’evidenziazione dei temi ossessivi di Bresson. I suoi personaggi vivono ai margini della vita entro un magma di inquietudine, angoscia e solitudine. Il travaglio interiore del borsaiolo Michel è scandito da una voce fuori campo che legge il diario del giovane, una soluzione che accentua il lirismo dell’insieme. Il montaggio attraverso tagli brevi e brevissimi dà il ritmo alla vicenda.

A differenza degli altri personaggi bressoniani, Michel si riappacifica con se stesso, acquista fiducia nel futuro e trova la sua pace spirituale grazie allo splendido personaggio femminile di Marika Green.

Claude Beylie

Nella folla di Longchamp, un giovane infila una mano esitante nella borsetta di una donna, e si allontana con un magno bottino e un gran batticuore. La polizia lo acciuffa, poi lo rilascia per mancanza di prove. Quest’essere solitario, convinto della propria superiorità intellettuale e morale, vivrà ormai solo per soddisfare la malsana passione del furto.

Un «pickpocket» (borsaiolo) professionista, che ha notato i suoi maneggi, lo inizia ai riti dell’arte, e insieme ruberanno portafogli, orologi e altri oggetti, in strada, nelle stazioni, sul metrò. Il cuore arido di Michel si apre penò all’amore di Jeanne, una ragazza madre. Arrestato, la ragazza lo va a trovare in prigione, e sa spezzare la corazza del suo egoismo. Attraverso le sbarre del parlatorio, egli la bacia, il volto bagnato di lacrime.

È difficile applicare a quest’opera insolita, grave, in cui l’autore rifiuta volontariamente ogni alibi psicologico e ogni deriva spettacolare, una griglia interpretativa tradizionale: i personaggi esistono appena, parlano poco, si gestiscono poco, hanno lo sguardo sfuggente, hanno l’andatura esitante; su uno sfondo talmente banale da diventare opaco (un ippodromo, delle scale, dei corridoi), sembrano muoversi come sonnambuli; la loro anima viene alla luce alla fine di un errare lungo e doloroso.

In questo modo l’autore di Perfidia e di Un condannato a morte è fuggito approfondisce la propria ricerca di una verità interiore, trascendendo i risibili simulacri del mondo visibile. Il suo «sistema» è ormai perfetto, e non cambierà più, fino al suo ultimo film L’argent (1983).

Questo cinema — o piuttosto questo «cinematografo»: Bresson insiste nel chiamarlo così perché questo gli permette di liberarsi da tutta un’estetica rumorosa, ancora schiava per lui del «teatro filmato» — non ha solo sostenitori, tutt’altro. Molti vi vedono un malsano processo di introversione, una visione aberrante perché troppo asettica della realtà.

Non è giusto. Bresson è un caso a sé nell’industria dello spettacolo, una specie di asceta chiuso in una sua torre d’avorio. Ma è un vero artista, del tipo alla Giacometti. Pickpocket è, con L’argent, il suo film più compiuto: sotto una scorza aridamente fredda cova infatti, depurata, caricata di senso, la vera ricchezza umana.

Da I capolavori del cinema, Vallardi, Milano, 1990

Louis Malle

Bresson si spinge più lontano. Trova una soluzione geniale quella che gli appariva la contraddizione insolubile del cinema, la presenza irritante, privilegiata, troppo abile della macchina presa nell’azione: le assegna il ruolo di “occhio del creatore”. Che esso sia sempre al posto giusto, che ostenti un improbabile virtuosismo, che preveda e controlli tutto ciò che accade non ci stupisce più ma mostra ancor meglio le intenzioni di Bresson.

Se guardate bene questo film vedrete che i personaggi sono dominati dalla macchina da presa, tirati, spinti, trattenuti. Osservate queste mirabili carrellate all’indietro che aspirano i personaggi, li guidano per mano.

In questo film tutto è bello perché tutto è necessario. La scena della Gare de Lyon è un pezzo di bravura.., essa illustra perfettamente questa specie di frenesia che il peccato crea. Lo sguardo freddo, Ie labbra serrate di Martin Lassalle e dei suoi complici evocano il Don Giovanni e il Marchese de Sade: La macchina da presa, più presente qui che in altra parte del film, precede e dirige i gesti e gli sguardi. La mano di Dio è qui una morsa. (…)

Per le relazioni semplici e definitive che stabilisce fra il contenuto e l’espressione, Pickpocket è un film di una novità folgorante.

Quando lo si vede per la prima volta si rischia di bruciarsi gli occhi.

E allora fate come me: rivederlo e rivederlo…”.

Da Arts, 30 dicembre-5gennaio 1960

Georges Sadoul

Un giovanotto (Martin Lassalle) diventa tagliaborse quasi senza volerlo e nonostante gli avvertimenti datigli da un commissario (Jean Pelegri). S’innamora d’una ragazza (Marika Green) fugge a Londra e si fa arrestare.

Il film parafrasa senza dubbio la trama di Delitto e castigo. All’inizio il regista non aveva pensato a Dostoevskij, ma quando se ne rese conto, continuò il suo lavoro accentuandone i riferimenti. Non ci dice nulla dei motivi che hanno spinto il protagonista alla sua “vocazione”. Ruba, ma non si serve mai né del denaro né degli orologi che ha rubato e continua a portare gli stessi abiti laceri. E non ha neppure il gusto delI’”atto gratuito” o del “vivere pericolosamente”. Cede alla sua passione come a un vizio, come alla tentazione, come al peccato …
Bresson ha forse pensato, per antitesi, alla grazia che coglie il peccatore, “come un ladro”? Film disincantato, film di coscienze e idee, come sempre in Bresson, con un forte contenuto religioso.

Sequenze celebri: le corse a Longchamp (all’inizio e alla conclusione); i primi timidi tentativi nel metrò; i furti, in serie, in un treno alla Gare de Lyon; l’incontro con la ragazza; il colloquio col commissario in un caffè del Quartier Latino; la povera stanza solitaria circondata dal frastuono della città; la fuga prima dell’arresto; il colloquio in prigione con la donna amata.

Un film fatto di oggetti e di rumori accuratamente registrati e orchestrati. Jean Pelegri, interprete non professionista del film di Bresson, ci ha dato questo ritratto del regista sul lavoro: “Sa quello che vuole, ma non sa il perché. Nulla di meno dogmatico, ma nessuno più testardo di lui. S’abbandona al proprio istinto. Un artista minuzioso; compie un lavoro da sfaccettatore di diamanti con un enorme macchinario da fabbrica”.

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

Mino Argentieri

Pickpocket (’59) è la storia di un intellettuale ladro, che ruba convinto di essere talmente libero dalle norme che soprassiedono alla convivenza umana, da sottrarsi a qualsiasi censura.

Nel modello preso a prestito da Bresson le analogie con il Raskolnikov di Delitto e castigo sono palesi, addirittura palmari. I due personaggi hanno in comune la povertà, una filosofia superomistica, la dedizione all’atto gratuito, la sfida lanciata al consorzio sociale, tratti questi acuiti da non poche consonanze ricorrenti nel testo filmico, la cameretta in cui alloggia Michel somiglia all’angusta stanza dell’eroe dostoevskiano, così come richiamano alla mente le pagine del grande scrittore russo i colloqui tra il boscaiolo e il commissario e l’improvviso emergere del sentimento amoroso nel fuorilegge, sula via della redenzione.

Similitudini e analogie, tuttavia, nuocciono alla coerenza e all’asse logico dell’opera, se non altro perché fra l’ideologia di Michel e la banalità delle sue vicende si apre un fossato incolmabile.

Asportare portafogli nel metrò è cosa ben diversa che brandire un’ascia e uccidere una vecchia usuraia: la sproposizione tra i presupposti del crimine e l’entità del crimine ridimensiona la portata del dramma morale narrato.

Né è questo l’unico aspetto che non ci persuade nel film di Bresson, proteso verso una interiorizzazione dei conflitti, invocante continuamente il sussidio esteriore e meccanico di una colonna sonora monologante, che infonde ad alcune immagini un carattere illustrativo.

Nondimeno Pickpocket è un film di alta classe. La maestria di Bresson non vi traspare solamente dall’austerità figurativa e da un costruzione frammentata ma mai dispersiva, bensì rifulge nel saggio di analisi comportamentistica applicato alle imprese di Michel.

Più che dalla tecnica raffinata e spericolata del furto, il regista è preso dal gioco di mani tramite il quale borse, orologi e valigie cambiano di proprietà, obbligando Michel a un incessante superamento di se stesso.

Un gioco di mani che ha la cadenza di un balletto virtuosistico, ma che non confonderemo con il puro amore dell’abilità al servizio del male, giacché in Pickpocket la minuziosa descrizione dei furti — sempre più difficili — e l’insistenza con cui l’obiettivo si posa sugli oggetti, sul materiale plastico, sui dettagli dell’azione ha l’unico scopo di percepire moti dell’animo, colti nella trasparenza degli avvenimenti raffigurati.

Si riconferma pertanto in Bresson un bisogno di concretezza e di materializzazione, che è connaturato al cinematografo e al suo linguaggio e che egli soddisfa chiudendo il pericolo di insabbiarsi in una riproduzione naturalistica e documentaria del reale.

Nel ritorno alla priorità dell’immagine, che si accompagna al tentativo di penetrare in una profonda dimensione umana e introspettiva (tentativo pienamente riuscito in Un condannato a morte è fuggito) sta il merito impagabile di un artista solitario, il cui insegnamento dischiude al cinema territori inesplorati e occasioni inaccettabili, se non conseguendo la più assoluta autonomia di creazione.

Da Rinascita, 19 luglio 1965, p. 20

Adelio Ferrero e Nuccio Lodato

Non si trattava di. un momento di “grazia” isolato e irripetibile. La conferma che la ricerca di Bresson aveva ormai trovato il terreno e i modi più congeniali di espressione venne, tre anni dopo, da Pickpocket. e anche chi non condivida l’affermazione di Malle, secondo il quale «Pickpocket è il primo film di Robert Bresson» (L. Malle, «Arts», 30 dicembre 1960), dovrà riconoscere che la poetica bressoniana tocca qui il punto forse più alto di concentrazione, ma anche di incandescenza e di radicalità.

Autore della sceneggiatura e dei dialoghi, il regista, che già nel Condannato sembrava poter rinunciare infine al supporto di una mediazione letteraria “forte” si trattasse di Diderot o di Bernanos, di Giraudoux o di Cocteau, può perseguire con maggiore intransigenza il progetto di cinema “interiore avviato risolutamente con Un condannato a morte è fuggito, primo tempo di una trilogia che proseguirà con Pickpocket e Processo a Giovanna d’Arco.

Muovendo da un netto rifiuto della nozione di “intreccio” («cerco sempre più, nei miei film, di sopprimere ciò che si chiama intreccio. Esso è un espediente da romanzieri», citato da Estève), rifiuto che investe ormai le stesse strutture istituzionali del racconto, Bresson persegue, rispetto alle opere precedenti, una più spedita dissoluzione della trama e dell’impianto psicologico dei personaggi (ridotta l’una a mera fenomenologia di accadimenti, apparentemente immotivati gli altri), riassorbiti e trasvalutati in una scrittura di estrema mobilità lirica: montaggio di pezzi brevi e brevissimi, rapide dissolvenze della monocorde esistenza del protagonista, pochi e scarni i dialoghi, una figura centrale molto intensa (un volto, un viso scuro e affilato di “ossesso”, più che un personaggio) e alcune altre di “commento” e di “provocazione”.

Michel annota sul diario riflessioni relative alla propria scelta di borseggiare il prossimo. All’ippodromo di Longchamp, alleggerisce una signora: intercettato dalla polizia, viene rilasciato per l’impossibilità di provare che quei soldi non fossero i suoi. Li consegna a una ragazza, Jeanne, perché li dia alla propria madre, che non ha il coraggio di salire a visitare.

Michel frequenta un bar dove incontra l’amico Jacques e illustra allo stesso commissario di polizia, che l’ascolta interdetto, la propria teoria sull’esistenza di uomini superiori autorizzati alla trasgressione senza punibilità.

Lascia cadere le possibilità di lavorare fattegli intravedere da Jacques e sistematizza il borseggio.

Studia sul metrò un professionista al lavoro, si allena in camera sua e riesce a imitarlo con successo. Solo una volta fallisce, e umiliato dalla mancata vittima, si rinchiude nella sua stamberga. Trascura l’informazione di Jeanne sull’aggravarsi della salute materna ed entra in contatto con uno sperimentato “collega” che gli tiene una sorta di corso presso il bar abituale.

La madre muore. Michel partecipa alle esequie con Jeanne e Jacques. Torna al “lavoro”, stavolta con il suo istruttore e un altro complice. Viene a conoscenza del libro del grande borsaiolo inglese Barrington, del quale si infervora al punto da proporne la lettura al commissario. Questi lo convoca per effettuare nel frattempo una perquisizione del suo domicilio, che peraltro non lascia nell’immediato tracce e resta senza conseguenze.

Non presta più attenzione né a Jeanne né a Jacques. Adesso è come ipnotizzato dagli orologi: sottrarne uno approfittando del momentaneo allontanarsi dei due amici, mentre è in loro compagnia, gli frutta una rovinosa caduta durante la fuga, ma non attenua il senso di euforia per il colpo andato a segno.

La sua sempre più superba tecnica si esplica ora alla Gare de Lyon. Il livello di collaborazione con i due complici attinge vette da balletto. Ha l’impressione di conoscere già un uomo lì presente, ma non riesce a identificarlo. Si tratta di un funzionario di polizia che arresta entrambi i suoi colleghi. Apprende da Jacques di una convocazione di Jeanne alla polizia, in conseguenza di un altro suo furto già distante nel tempo, che l’aveva indirettamente danneggiata. Fugge salendo su di un treno internazionale, e lo perdiamo di vista per un biennio di attività consumata nelle metropoli europee, senza peraltro migliorare la propria posizione economica. Rivede Jeanne, che nel frattempo ha avuto una figlia da Jacques prima di essere da lui lasciata. La cosa gli causa un trasporto emotivo momentaneo: trova un lavoro precario per sostenere finanziariamente la donna.

Ma la spinta è più forte di lui. Riprende l’attività a Longchamps, senza avvedersi che la polizia l’ha attirato in una sorta di trappola. Colto in flagrante e incarcerato, esaspera Jeanne venuta a colloquio. La successiva sparizione della ragazza lo getta nella disperazione: ma dopo qualche settimana ella si ripresenta, chiarendo che la causa dell’assenza era stata solo una malattia della bambina. Stavolta le loro effusioni sono, divisorio permettendo, assai più dirette ed esplicite.

Anche qui, come nel Journal e nel Condannato, la struttura si piega al procedimento e alla scansione del diario: un’autobiografia e una confessione che si porgono, senza indugi e abbandoni, come proposta e decifrazione di un’esperienza morale.

Fin dalla prima immagine la vita interiore di Michel lascia trasparire il triste orgoglio della disperazione, che gli si accompagna come una condanna o un destino: il suo volto esangue e scavato testimonia, in mezzo agli altri, il privilegio e l’angoscia di questa “malattia”. La solitudine è il carcere in cui egli, per libera scelta (diversamente da Fontaine), si è murato spontaneamente: non frigido paradosso di “una vita alla rovescia” ma esperienza vissuta e sofferta come una vocazione.

Di qui un rapporto, con il mondo, di estraneazione e di sfida a un tempo. E si è parlato, infatti, di Delitto e castigo e di Lo straniero (ma non si dovrebbe dimenticare, almeno a un livello così generale di riferimenti, il Genêt di Diario del ladro).

Suggestioni certo presenti ma spogliate di qualsiasi referenzialità ideologica e culturale troppo precisa. E, in ogni caso, più Dostoevskij che Camus: l’«alacrità sorda, passiva, apparentemente sprovveduta di ogni scopo, senso e finalità, incapace di qualsiasi progetto e programma» di cui Giacomo Debenedetti (Il romanzo del Novecento, Garzanti, 1971) parlava a proposito di Meursault, è altra cosa dalla tensione e inquietudine di Michel, e anche da quella «forza eiaculatrice dell’occhio» di cui ha parlato una volta Bresson (Notes sur le cinématographe, p. 19).

Mentre la suggestione di un libro come Delitto e castigo non investe soltanto la problematica, schiettamente bressoniana, dello «sforzo che l’uomo ha fatto, che l’uomo fa per determinare in libertà il senso e il valore del proprio destino» (Vittorio Strada, Tradizione e rivoluzione nella letteratura russa, Einaudi, 1969), ma si ritrova spesso fusa e riassorbita nelle immagini stesse del film: dostoevskiana, ad esempio, è la camera di Michel: una soffitta, un letto sgangherato, un misero lavabo, libri coperti di polvere.

Lo spazio, ristretto e soffocante, mai ripreso nella sua totalità, esaspera e dilata per contrasto, nel protagonista, l’orgoglio della “diversità”. E si veda, ancora, il continuo andirivieni di Michel dalla camera alla ossessiva delle entrate e delle uscite, il “tema” ricorrente della scala e della porta socchiusa. La casa è la tana dove il protagonista si rifugia e l’altra nella foresta della città. Ma, come accadeva a Raskol’nikov, essa «non offre valori di protezione e di resistenza, di isolamento e di privatezza» (V. Strada).

Il sentimento di estraneazione è suggerito attraverso scorci e frammenti di pura visualità: la “camera” fìssa, implacabile, il volto di Michel, quasi a spiarne reazioni e trasalimenti. Ma l’occhio di Michel diventa, a sua volta, una penetrante, implacata, “camera” interiore: la città, le persone, i gesti, guardati da lui, stingono nella piattezza e ripetizione, scoprono un movimento puramente meccanico.

Anche qui suoni e rumori, registrati in presa diretta ma riorganizzati poi secondo un montaggio contrappuntistico che sembra voler confermare un’antica persuasione di Merleau-Ponty («il vero antenato del suono cinematografico non è il fonografo, ma il montaggio radiofonico»; M. Merleau Ponty, Senso e non senso, Il Saggiatore, 1962), assumono un peso continuo e ossessivo sul quale si stacca, ad accompagnare la vertigine delle avventure interiori di Michel, la musica di Lulli.

In tale contesto, il furto interviene come violazione di un ordine automatizzato, rottura e lacerazione nel continuum dell’esistenza irrelata. Inesistente sul piano delle ragioni e degli affetti, la vita di relazione viene ritrovata attraverso un rapporto rischioso e violento: in questo senso, si può capire perché Malle parlasse di Pickpocket come di un film “erotico”.

E può anche tornare il riferimento a Genêt, per il quale «se non di santità, certo si può parlare di ascesi» (Franco Fortini, Verifica dei poteri. Il Saggiatore, 1965). Ma in Genêt il furto, inscindibile dalla omosessualità e dal tradimento, è soltanto una, e non la più “scandalosa”, delle tre nuove “virtù teologali” indispensabili a celebrare i “fasti dell’abiezione” e le miserie sontuose sulle quali lo scrittore costruisce, con il rigoglioso lirismo che gli è stato e gli va riconosciuto, il mito della propria “unicità”: «la mia vita deve essere una leggenda. Io non sono nulla. Solo un pretesto» (Jean Genêt, Diario del ladro, Mondadori, 1959). Michel è più umile, ma anche più intransigente: certo, la “poesia” non gli basta.

«La straordinaria abilità delle mani, la loro intelligenza!

Mi sembra di ricordare di aver letto una frase di Pascal (…) che cominciava così: “L’anima ama la mano”.

L’anima di un borsaiolo, la mano di un borsaiolo. C’è qualcosa di meraviglioso in questa destrezza. Non avete mai colto il turbamento che crea nell’aria la presenza di un ladro? È inspiegabile. Ma il cinema è appunto il dominio dell’inesplicabile».

E ancora: «Vorrei fare un film di mani, di sguardi, di oggetti, eliminando tutto ciò che è teatro» (cit. da Estève).

Se l’intelligenza delle mani diventava, per Fontaine, la via di una liberazione totale («l’anima ama la mano»), essa resta, in Michel, possibilità di negazione, rifiuto nichilistico della norma e dell’ordine che essa sanziona: si veda il rapporto con l’ispettore di polizia, la sorda impenetrabilità dello sguardo che il protagonista oppone agli avvertimenti e alla perorazione paternalistica dell’altro. «L’avventura esteriore è l’avventura delle mani del ladro. Esse lo sospingono verso l’avventura interiore»

(Doniol-Valcroze e Godard, Entretien avec Robert Bresson, «Cahiers du cinéma», n. 104, 1960). I “colpi” di Michel a Longchamps, sulla metropolitana e, soprattutto, nella straordinaria sequenza della Gare de Lyon e del “balletto” dei ladri che, paradossalmente, rimanda più a Bernanos che ad Anouilh — diventano le prove di un “virtuosismo” che dovrebbe, illusoriamente, riempire i vuoti dell’esistenza; o anche, se si vuole, una beffa continua ma dolorosa, un’amara partita giocata, sul suo stesso terreno, con una società efficiente e distratta.

Le esemplificazioni di quel “virtuosismo” (una borsa sfilata dal braccio di una donna e sostituita con un pacco di giornali, un fascio di soldi sottratti dolcemente alla mano che li stringe, i portafogli rubati dalle tasche e rimessi a posto dopo averli vuotati, l’orologio sfilato dal polso di un passante simulando una caduta, ecc,) puntano sulla direzione dello sguardo e del movimento, sulla dimessa funzionalità degli “strumenti” (le mani, l’impermeabile, un giornale) e sulla intensità della esaltazione che accompagna la riuscita, e compensa la solitudine e la paura: «io non avevo più i piedi per terra, dominavo il mondo»; «l’orologio era bello!».

Nei movimenti automatici della folla, all’ippodromo o in una biglietteria di stazione, il volto affilato di Michel e i rapidi gesti dei suoi complici (alcuni borsaio li autentici, ma il regista li definiva “consiglieri tecnici”) si insinuano, svelti e inattesi, come la presenza dell’“altro”: minaccia tanto più inquietante perché (in Michel, almeno) “disinteressata”, defraudazione silenziosa e sicura di ciò che quegli uomini e quelle donne hanno di più caro e rassicurante, l’oro, il denaro.

Meno esaltato e impetuoso del suo modello, il Raskol’nikov di Bresson si dibatte fra disperazione e apatia, solitudine e ostentazione di virtuosismo asociale: «ho tentato di filmare, nello stesso tempo diceva l’autore , i gesti di un cinico e la sua lotta con se stesso» («Filmcritica», n. 93, 1960). Gli altri la madre, l’amico Jacques, l’ispettore — sono soltanto “occasioni” allo svolgersi di un destino: apparentemente inessenziali, si riveleranno, alla distanza, necessarie e chiarificatrici.

In questo senso, se anche per Michel, come per Genêt secondo Bataille, «la bellezza che suscita il canto è l’infrazione della legge, è l’infrazione dell’interdetto, ciò che è pure l’essenza della sovranità», non si potrà poi estendere al personaggio bressoniano il limite che Bataille ravvisava nello scrittore: «ciò che sminuisce Genêt deriva dalla solitudine in cui egli si richiude, in cui ciò che sussiste degli altri è sempre vago, indifferente» (G. Bataille, La letteratura e il male, Rizzoli, 1973).

E infatti, al termine del proprio itinerario, con i suoi incontri e temi dominanti, il rischio, la solitudine, la rivelazione della morte e il sentimento desolato di assenza che le si accompagna («che cosa resta? — si chiede il giovane dopo la morte della madre lettere, fotografìe… è finito tutto»), Michel ritrova il senso e il calore del rapporto attraverso la commovente fedeltà e la sofferta capacità di amore di Jeanne: un altro volto “puro” e malinconico, in armonia con la coerenza figurativa di uno dei film più ispirati di Bresson.

Muovendo da una condizione di solitudine che dà il sentimento lacerante della propria inutilità, quando cadano la maschera dell’orgoglio e il breve slancio dell’esaltazione («Tu non vivi nella vita reale», gli aveva detto Jeanne), Michel percorre, per una sorta di paradosso disperato dell’intelligenza, tutto l’itinerario di una sperimentazione negativa (il furto come estraneazione di sé in una meccanica abilità asociale, ma sul filo del rischio e dell’avventura e delle esaltazioni che essa largisce), senza mai aderirvi del tutto.

Quanto l’attesa e l’esecuzione dei “colpi” sono concentrate sino allo spasimo («il mio cuore batteva sino a spezzarsi»), altrettanto brusca e rapidamente cancellata è la risoluzione, il “poi”: il distacco di Michel dai risultati delle proprie azioni è sottolineato dalla “camera” con significativi e puntigliosi passaggi dal movimento delle mani all’“assenza” del volto.

Ma è proprio lungo questa strada tortuosa e paradossale che egli troverà infine se stesso e il senso della propria esistenza nel rapporto. Il nodo di aridità e di rancore si scioglie, nel bellissimo finale, in un bacio impetuoso e casto, i volti e le mani si cercano e si sfiorano con dolce violenza.

E la voce, fuori campo, del protagonista, suggellando la propria esperienza e assumendone integralmente il senso: «Oh, Jeanne, quale buffo cammino ho dovuto percorrere per giungere sino a te!». Anche qui «il vento soffia dove vuole»: Jacques, con la sua faccia di bravo ragazzo sollecito, abbandona Jeanne e si perde; Michel si ritrova ma, in questo «dramma spirituale del mondo secolare» (Daniel Millar), l’accento cade sull’esperienza, sul cammino di un’anima, sulla sua tortuosa e sgraziata peripezia, non sulla “illuminazione”.

Scelta e predestinazione, necessità e libertà, automatismo e rivolta, le antinomie laceranti che sottendono ed esaltano la scrittura apparentemente piana e immota di Bresson, si compendiano in raggiunta unità, che non esclude alcun momento del processo ma tutti li riassorbe con una consapevolezza del dramma e del conflitto sempre, potenzialmente, aperta.

Che Pickpocket sia la prova forse più vertiginosa del cinema bressoniano, come vogliono i suoi estimatori, una conferma esemplare del «piacere che dà la perfezione», come dice il regista («Filmcritica», cit.), è molto probabile: ne fa fede il perfetto equilibrio tra la freddezza “oggettiva”, da “cinéma vérité” della ambientazione e delle riprese e l’ossessiva iterazione delle “apparizioni” e dei primi piani di Michel, o la sobrietà della mediazione, discreta ma insostituibile, della voce fuori campo che accompagna e orienta il ripensamento dei fatti nel protagonista.

Il “rischio” è, ancora una volta e più che in altre occasioni, la rarefazione del discorso che, in una sorta di ascetica sfida al cinema “narrativo”, contrae e riassorbe instancabilmente le proprie implicazioni, ricchissime, nelle apparenze più disadorne e sfuggenti.

Si veda come un “capitolo” particolarmente complesso quale il rapporto con la madre venga risolto attraverso una successione di brevi frammenti che impegnano lo spettatore a riempire i vuoti narrativi e psicologici e a stabilire nuovi e più profondi collegamenti: ad esempio, tra l’apparente indifferenza di Michel di fronte alla malattia della madre e il desolato sentimento di solitudine del ritorno a casa.

Anche qui il risvolto doloroso dell’orgoglio che spinge il protagonista a separarsi da quanti lo amano viene suggerito con una persuasione tanto più intensa quanto meno esplicitata. L’isolamento di Michel ispira anche il bellissimo piano-sequenza di Neuilly: seduto davanti al caffè, il giovane non partecipa ai discorsi di Jeanne e di Jacques; gli occhi, che sembrano fissare il movimento della giostra che vediamo rispecchiato nel vetro alle sue spalle, sono perduti in una privata, chiusa ossessione; allontanatisi i due amici, lo sguardo sino allora assente di Michel è attratto irresistibilmente dall’orologio al polso di un cliente.

Quando Jeanne e Jacques tornano al tavolo, Michel è sparito. Fuori campo, il rumore dell’incidente d’auto il cui senso ci verrà chiarito in seguito. L’avvenimento, il movimento esteriore, viene riassorbito, letteralmente, nel movimento interiore, che lo precede (la trasparenza della determinazione “morale” sul volto assente di Michel: assente agli altri, appunto) e lo commenta («l’orologio era bello!»). La “sproporzione” morale che ispira gesti e pensieri del protagonista viene scritta, senza mediazioni, nella sproporzione, narrativa e metrica, dei tempi e raccordi della sequenza.

E si pensi, anche, ai brani della cerimonia funebre e del ritorno di Michel a Parigi: nel primo, la rivelazione della morte, acuita da una condizione di solitudine dolorosa, viene suggerita dalle figure del giovane, di Jeanne e dell’amico chiusi nella loro impossibilità di parlarsi, un silenzio sul quale si stacca, e sovrasta violentissimo, il canto del Dies irae nel secondo, una lunga parentesi di spreco e dissipazione dell’esistenza è compendiata nella sintesi ellittica e amara che ne fa Michel. L’avventura esteriore è relegata, ancora una volta, nell’inesistenza, le sue potenzialità narrative soffocate sul nascere. Ma nulla va perduto, nell’esperienza del protagonista e nei modi, impliciti e sfuggenti, con i quali essa si offre a una lettura attiva dello spettatore: quella “parentesi’’ deve essere stata, anche, un modo di uscire dall’ossessivo.

Qualcosa è cambiato, anche se all’autore, coerentemente, non importa dirne il perché e rappresentarne il come ma sfiorare, e far sfiorare, la risonanza attuale di quel mutamento nell’esistenza esteriore-interiore del personaggio. Michel adesso lavora (ma torna a rubare anche) per Jeanne e per la bambina: il furto come atto gratuito, oltraggioso alla coscienza comune perché “disinteressato” all’oggetto (si ricordi, tra l’altro, il libro di Barrington, The Prince of Pickpockets, che Michel possiede e ostenta davanti all’ispettore), pura tensione della soggettività, ha mutato accento e collocazione nella sintassi morale del comportamento. Ma la via per arrivarci era quella.

La tensione lirica, che sostiene e riscalda, pur nella vigile smorzatura di ogni possibile effetto, l’avara drammaturgia di Pickpocket implica, rispetto al Condannato, un certo “impoverimento” del discorso bressoniano, tanto più evidente quanto più esso tende, tagliandosi definitivamente alle spalle il dato “storico” (e i successivi film “storici” di Bresson, da Giovanna d’Arco a Lancillotto e Ginevra, ne daranno luminosa conferma), a generalizzarsi.

Anche per questo aspetto, e non solo per le tecniche dell’“inchiesta” applicate ai movimenti interiori e al loro riflesso nei comportamenti esterni, Pickpocket anticipa e implica il Godard di Le petit soldat e di Questa è la mia vita, il Malle di Fuoco fatuo e il primo Chabrol.

Mentre, con l’eccezione del caso Godard che ha una sua autonomia e problematicità sorprendenti, quello che pone Bresson su un piano diverso, e più alto, è il timbro religioso, la misura inconfondibile di severo contemplatore di esperienze interiori e di avventure vertiginose dello spirito. Non a caso, alla peripezia del borsaiolo subentrerà il processo e martirio di Giovanna d’Arco.

Da Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro Cinema n. 25, Editrice Il Castoro, 2004, pp. 65–73

Alice Autelitano, Sara Martin

Le storie, per Bresson, sebbene interconnesse da un filo rosso — “angeli caduti” condannati ad una tensione insanabile tra volontà e destino, annichilimento e ribellione, rassegnazione e speranza — non sono che un espediente drammaturgico: così, anche nel diario di Michel, borseggiatore inesperto ma tenace, disposto a perdere tutto tranne la “professione”: per questa parte, viaggia, ritorna, per questa accetta la reclusione e la condanna, per questa rinuncia alla donna che scoprirà di amare.

Inutile dirlo, il senso è fuori, stemperato nella cornice, raggrumato nelle dissolvenze che dividono le sequenze: è il buio, il silenzio, quel “troppo vuoto” insostenibile che ammalia e spaventa. Questa è la genialità bressoniana, il tentativo di far convergere personaggio e sguardo registico sul ritmo stesso della vita, che procede per dilatazioni (inquadrature inquietantemente lunghe), contrazioni (riprese velocissime, successione sincopata di dettagli), illuminazioni.

Come spiega Giorgio Tinazzi, “la messa in forma è dunque l’aspetto più rilevante e l’interesse primario di Bresson” (Il cinema di Robert Bresson, Venezia, Marsilio, 1979). Michel è dunque il vetro opaco nel quale specchiarsi (di qui l’inespressività di La Salle), la metafora corporea che permette di entrare nel movimento imprevedibile dell’esistenza.

Quello che rimane sono solo visioni parziali e tronche: ecco allora gli ambienti mai ripresi in totale, le ellissi temporali improvvise, i dettagli strettissimi, i carrelli inattesi; lo stesso stile dunque, sembra descrivere il movimento di una coscienza in balìa di eventi incontrollabili. Così, anche la parola (inadeguata, insufficiente, precaria), preferisce spogliarsi, fino a diventare una lapide marmorea, asettica, priva di contatto autentico: “Jeanne, lei crede che verremo giudicati?”, “Sì, ma non temo per lei. Era perfetta”.

In questo quadro persino la morte e la nascita sono fenomeni alla stregua degli altri: Michel si inginocchia ma non piange la morte della madre, e la figlia di Jeanne non è che “caduta” tra le altre “cadute”. In Pickpocket Bresson officia la sua messa con massimo rigore, con uno stile che Paul Schrader definisce “trascendentale”: si tratta di quella cifra limpida e filtrata, di quel linguaggio talmente asciutto e dedrammatizzato da rovesciarsi in una compartecipazione sofferta.

Così l’individuo è costretto a sostenere reiteratamente le contraddizioni dell’esistenza che investono il piano personale (il bene e il male come unità ontologicamente inscindibili), morale (il peccato come agìto necessario), religioso (la tensione a un’entità unificante) e istituzionale (la legittimità di giudizio e condanna). È a quel punto che la realtà sembra riproporre la condizione del disordine onirico: “Lei sogna, non è nella vita reale” dice Jeanne.

È su questo rovesciamento continuo di segno, che l’autore approda a quel nichilismo raggelante non privo di pietas, destinato ad una depurazione sempre più dura e spietata nelle opere successive. Il treno dell’esistenza (quello che conduce Michel da Parigi a Milano, da Milano a Roma e infine a Londra) percorre binari tanto necessari quanto sconosciuti (egli torna addirittura da dove è partito): sospinto dal vento della predestinazione di stampo calvinista (qui, il furto come vocazione), l’uomo soffre nel tentativo, regolarmente fallito, di autoaffermazione (“Questi muri, queste sbarre, tutto mi è uguale”) che contrasta con il tentativo di “credere” (“tutto — dice Jeanne — ha forse una ragione”).

E tuttavia dentro questa circolarità insignificante, s’insinua la speranza di una Grazia, che però — quasi come una beffa — può presentarsi, come sa Dostoevskij, nel momento stesso della condanna. Ma allora qual è la conclusione di questa filosofia del pessimismo bressoniano? L’attesa della rivelazione, quella che il regista segnala con l’insorgenza, anch’essa improvvisa, del momento musicale, l’unico, come diceva Nietzsche, in grado di “ingabbiare” la volontà: in quella estemporanea epifania, miserevolmente, l’esistenza brilla (“C’era qualcosa che illuminava il suo viso”).

Jeanne allora è l’essenza a lungo negata, che si offre bruciante a un’umanità inquieta e devota. Michel, dietro le sbarre, bacia castamente Jeanne sulla fronte, che, a sua volta, poggia le labbra sulla sua mano. Ma cos’è quel bagliore innaturale che si intravede sul suo viso? quel “lirismo” potente e misterioso? Dio? la Grazia? il Perdono? o forse solo lo squillo che sancisce il passaggio tra la condanna della vita e la condanna della morte? Non lo sappiamo, il finale è aperto, ma — dice Michel estraniato e commosso — “che strana strada ho dovuto percorrere per arrivare fino a te”.

Da Catalogo del XXVIII Premio Internazionale alla migliore sceneggiatura Sergio Amidei, Gorizia, Transmedia, 2009: “Pickpocket”, pp. 42–43.

Giorgio Tinazzi

Pickpocket è il primo film di Robert Bresson. Quelli che ha fatto prima non erano che brutte copie. Come dire, se si sa il valore di questo cineasta, che l’uscita di Pickpocket è una delle quattro o cinque grandi date della storia del cinema”: così scriveva Louis Malle. Per altri invece il regista era andato troppo avanti nelle sue ricerche, si era “chiuso a doppia mandata nel suo genere” come aveva scritto sullo stesso settimanale, appena otto giorni prima, il critico R. Cortade.

Nell’un caso e nell’altro risultava comunque sottolineato soprattutto l’aspetto formale; nel film infatti c’è una chiara ripresa di elementi tematici ormai quasi tipici, anche se problematizzati (e ciò va detto nei confronti delle molte interpretazioni unidirezionali), ma soprattutto la ricerca espressiva predomina, emerge anzi come l’interesse primario.

Proprio per tornare a specificare come va intesa tale problematizzazione si può cominciare dai significati. La tensione è ancora il polo propulsore: le sue diramazioni sono suggerite dalla didascalia iniziale, sorta di emblematico “segno” col quale simmetricamente si chiude il film: “So che abitualmente quelli che hanno fatto queste cose tacciono o che quelli che ne parlano non le hanno fatte.

Tuttavia io le ho fatte. O Jeanne, per venire fino a te quale strano cammino ho dovuto compiere”; l’attuazione della volontà è sottolineata dalla prima inquadratura (le mani che aprono la borsetta); il desiderio di “affermazione” è espresso dalla prima voce fuori campo: “Non avevo più i piedi per terra, dominavo il mondo”.

L’insopportabilità dello scacco è nelle parole che Michel pronuncia durante la visita finale di Jeanne: “Questi muri, queste sbarre, tutto mi è uguale. È l’idea che non posso sopportare. — Quale idea? — Mi sono lasciato prendere. Non avrei dovuto fidarmi”.

L’itinerario di Michel si conclude su se stesso, lungo le tappe della volontà di affermazione , scoprendo le “strane vie” per arrivare all’altro. Volontà che diventa necessità, che si qualifica come bisogno di “uscita” (“Come ha potuto? gli chiede Jeanne, non c’è nulla di più sporco — Si può saperlo e tuttavia farlo — Ma perché? — Per uscire — Ma c’erano mille altri modi…”), come ristabilimento di valori (“raddrizzare il mondo”). Il rischio, allora, come privilegio.

L’intento di affermazione è anche teorizzazione dei rapporti tra individuo e apparato sociale, tra codici e giudizio. Il dialogo col commissario è quasi didascalicamente chiaro: “Non si può ammettere che delle persone capaci, intelligenti, degli uomini di talento, e anche dei geni, invece di restare delle persone insignificanti tutta la vita in certi casi si sottraggano alle leggi? Per la società sarebbe un beneficio. — E chi giudicherebbe questi uomini superiori? — Loro stessi. — Il mondo, allora, a rovescio. — È già rovescio, lo si raddrizzerebbe”.

Il percorso del protagonista conosce l’imitazione, si intravede il grande tema dell’attrazione del male, la sua dimensione ambigua: “mi trovai di fronte a un uomo dal comportamento strano” afferma Michel, e nella sequenza seguente lo si osserva mentre ne ripete i gesti; poco dopo si siede al bar vicino al ladro, “un quarto d’ora più tardi eravamo amici”.

Anche la qualità del percorso è ambivalente; l’aridità di Michel si afferma nel primo dialogo con Jeanne, che gli dà notizie della madre: “Come sta? — Non bene, si tormenta. Manca di tutto, è di lei che ha bisogno. — Le dia questo denaro. — Non entra? — Arrivederci”. Ma più tardi lo stesso Michel dirà a Jacques di amare la madre più di se stesso.

Del finale si è già discusso: è la riacquistata libertà interiore? È la rivelazione della Grazia? È l’interpretazione più lineare, quasi facile; perché — ripeto — è forse la rivelazione a sé dell’altro, nel momento in cui l’impossibilità la chiude. Tra progetto e scacco; dietro, ambivalente, il senso di attesa. Il punto di arrivo può essere allora il rapporto che si crea tra l’affermazione (la libertà) che cerchi e le costrizioni (cioè la negazione) che crei, tra l’affermazione e la solitudine, o la fuga (e su quest’ultimo aspetto taluno ha giustamente insistito); l’estraneità è anche l’effetto del Pickpocket la volontà di uscire, del “sogno”: “Lei sogna — dice Jeanne (sequenza del Lunapark). — non è nella vita reale. Non si interessa a niente di quello che interessa gli altri”.

Di fronte a questo grumo di difficili contraddizioni, l’atteggiamento di Bresson sta tra il distacco e la partecipazione; lo si coglie persino nei particolari, nella sentenziosità del parlato alternata all’anonimato e alle tonalità grigie, in quel lasciare andare il personaggio (per esempio, le inquadrature di spalle) e nel riprenderlo in rilievo (il primo piano), nella fissità della macchina da presa che fa da contraltare ad arditi movimenti (i carrelli indietro che stupirono Malle).

Ma l’andamento preminente è verso l’asetticità, meglio verso un appiattimento sdrammatizzante: incontri, successi o fallimenti, nulla li differenzia. L’intreccio delle due parabole complementari, i destini di Michel e Jeanne, è solo un segno; ed è proprio il segno il termine di mediazione, di rapporto: i gesti, le mani come rivelazione di “abilità” (la famosa sequenza-balletto alla Gare de Lyon), l’attimo di ogni rivelazione, come la morte: per tre minuti ho creduto in Dio, afferma Michel.

Il caso provoca la Grazia, o il riconoscimento di possibilità: lo “strano cammino” o “il vento soffia dove vuole”. Le intersezioni dei cammini testimoniano il segreto dei fatti, la non decifrabilità: il ricambio tra bene e male, il legame tra morte (la madre) e apertura (Jeanne), il quotidiano e le sue rivelazioni; “tutto — dice Jeanne — ha forse una ragione”.

Gli altri sono a un tempo testimoni e strumenti. L’ambiguità ha diverse gradazioni, provoca difficoltà con se stessi: “ho cercato di filmare, nello stesso tempo, i gesti di un cinico e la sua lotta con se stesso” (Bresson).

La stessa tensione si può rovesciare (nel male), l’atteggiamento verso la propria attività è di affermazione e vergogna, tra intellettualizzazione e “volgarità”, gli oggetti rubati sono “belli” e vanno nascosti.

Chi, a questo punto, ha parlato di “indigenza psicologica” a proposito del protagonista si è dimostrato evidentemente ancorato a leggi di sviluppo, alla linearità di una “coerenza interna” tutta convenzionale.

Non vi è chiarezza o unisignificanza negli incontri; anche la complicità con gli altri “pickpocket” è ambivalente, il distacco nel modo di presentarli si unisce alla loro necessaria collaborazione all’”affermazione”: “i miei due complici e io ci intendevamo a meraviglia. Questo non poteva durare” (didascalia). Ma ogni rapporto è difficile, Jeanne prima di tutto, e l’ispettore, i cui legami con Michel hanno giustamente ricordato a qualcuno il Dostoevskij di Delitto e castigo.

Per il protagonista è un testimone (passivo) e una verifica (attiva), ascolta e provoca, come un richiamo, “Voglio aprire i suoi occhi su lei stesso”; vi è lontananza e interesse: sa chi sei — dice Jacques — sei tu che gli interessi, non le tue teorie sociali.

Prima di rivelargli la denuncia per il furto alla madre, dice “Sono venuto a trovarla per l’interesse che le porto … E quanto al suo avvenire? — Di che si occupa, è un profeta? — Il suo avvenire mi riguarda”.

L’alternanza o la reversibilità riguardano anche i “testimoni” e la loro influenza. Jacques, come gli altri, si sottrae a una predisposta linearità; occasione per il “diverso” (offre gli indirizzi per trovare lavoro) è anche l’ostacolo al rapporto con Jeanne, per un verso una sorta di alter ego “positivo”, contro il quale però, sintomaticamente, non manca l’atteggiamento aggressivo: “Tu l’ami?” gli chiede in uno stringatissimo dialogo Michel “Confessa . . . Lei ti ama? . . . Falle dei regali”.

Talora il distacco di Jacques si colora di ironia, altre volte riporta l’esperienza di Michel alle sue dimensioni reali, contro la sublimazione intellettuale (il dialogo quando è sorpreso a leggere in camera di Michel il libro di Barrington) .

La madre è una figura piena, nonostante l’apparente sfocamento o la perdita nel fondo; la sua qualificazione iniziale — lo si è visto — è quella della “mancanza”, il denaro (il furto ricordato dal commissario) ha inciso nei rapporti; ma è anche la spinta: “Con la tua intelligenza …”.

Da un’apparente “lontananza” non si stacca nemmeno Jeanne, ma è invece una creazione densa, tutt’altro che un simbolo astratto; per un verso è la passività: “un padre che beve, una madre che abbandona te e tua sorella. Tu accetti tutto” le dice Michel; ma non è rassegnazione, “Tutto può avere una ragione”.

C’è una scelta: perché non l’hai sposato? le chiede ancora il protagonista andato a trovarla (nella casa c’è il figlio avuto da Jacques); “Non ho voluto; tutta la vita ingannare qualcuno … — Non l’amavi? — Non abbastanza”.

Testimone, è anche giudice, “Lei non è nella vita reale” dice a Michel; conosce il furto fatto alla madre ma non respinge il protagonista, lo abbraccia e piange. È il tramite del suo legame con gli altri, la madre e Jacques; attraverso l’elisione dei due fa scoprire a Michel il “cammino”, la morte (il tema del “sacrificio”) e il tradimento come tappa.

La rivelazione finale è una sorta di coronamento.

Questa materia drammatica è come diluita nel film; la progressione, l’accentuazione verso il finale è prodotta da dosi di cui non ci si accorge, tanto che può servire la definizione di Malle di film contemplativo. I fatti sono spogli, e pur pieni di rimandi, le possibili inclinazioni moralistiche, relative alle scelte e alle deviazioni, lasciano il posto alla registrazione.

Ogni crescendo è annullato, la morte della madre è data da uno “stacco”, i fatti e i gesti che la precedono sono volutamente scanditi, seguiti e dilatati. Basta per esempio osservare come sono articolati i “momenti” che precedono la visita alla madre: la lettera non vista, la porta che si apre, la lettera è aperta (“Venez, vite. Jeanne”), gli esterni, un autobus, i gesti, i luoghi, gli sfondi, le scale: “Il suo aspetto, era calmo, dormiva”.

Il tono della fotografia è neutro, la voce smorza (basti pensare al dialogo con Jeanne, in carcere). La sdrammatizzazione delude le nostre attese convenzionali, dove ci si aspetta la rappresentazione, la spiegazione, trovi l’ellissi (quindi la sintesi), dove ci si aspetta la sequenza che faccia da trampolino all’azione trovi i tempi morti (quindi l’analisi).

La scansione è data dai comportamenti, ai quali tutto è ridotto. In fondo la mancanza di riferimenti alle storie personali dei personaggi (di loro nulla si sa, come quasi sempre in Bresson) testimonia dell’oggettività dell’autore.

Come si diceva all’inizio, la messa in forma è dunque l’aspetto più rilevante e l’interesse primario di Bresson. La situazione-schema di base spingeva in questo senso, bisognava registrare il muoversi in un universo ostile che provocava tensione, che misurava e caricava i gesti dilatandoli.

La suspence è creata e poi allentata (il poliziotto che si vede al commissariato e poi in stazione ecc.), i contrasti attenuati, i rumori inducono ad acuire le situazioni e poi smorzano; il tipo di inquadratura distende (la lunga inquadratura all’inizio, a Longchamp — circa 680 fotogrammi — è intervallata a gesti, mentre la voce dell’altoparlante rende l’esterno, il di fuori).

Un film anche di gesti, dunque; la macchina da presa li indaga (tutto il furto che attrae Michel all’inizio, circa 1.230 fotogrammi), insiste (le prove, in camera; il primo furto di Michel, circa 3370 fotogrammi, il cliente in banca), segue creando iterazioni ossessive (i “trucchi” rivelati dall’amico, sottolineati dalla musica, la prima che si sente), coglie il prolungamento, il peso, le conseguenze ulteriori; altre volte spezza, cerca ritmi.

Conseguentemente è anche un film di cose, di oggetti. E di ambienti: la stanza (la «prigione»?) è l’interno opprimente, mai visto in totale; sono brani di muro, colori; sono sfondi, strade, rumori, personaggi anonimi. Il procedimento di prolungare l’inquadratura del personaggio rimanendo sullo sfondo prima o dopo il suo ingresso in campo trova in Pickpocket uno dei casi di applicazione più evidenti; la dilatazione produce appiattimento , cose fatti persone sullo stesso piano, l’azione si stempera.

Ma vi è anche un effetto sul personaggio, per l’oppressione che si viene a creare, quasi isolandolo in un ambiente “insignificante” per cogliere i riflessi dei gesti e dei comportamenti. Alle volte l’ambiente è il “trait d’union” di due sequenze, e il procedimento citato serve allora di collegamento, provocando un effetto di iterazione e accumulazione.

La divisione in blocchi investe talora alcune sequenze. Prendiamo il “blocco” (splendido) della morte della madre, che si può schematicamente dividere in cinque parti:

1) il dialogo che abbiamo già notato (“Con la tua intelligenza…”) in campo-contro campo, che si conclude con le parole di Michel: “Andrà meglio, tra qualche giorno ti alzerai. È vero Jeanne? Ne sono sicuro”.

2) Una dissolvenza introduce a un interno di chiesa; il Dies trae accompagna la scena; Jacques Michel e Jeanne sono ripresi di spalle, seduti, in una lunga inquadratura fissa (813 fotogrammi), sullo sfondo la bara; Michel si alza, si inginocchia, si gira e guarda Jeanne; anche Jeanne e l’amico si inginocchiano. Una dissolvenza chiude (tra le due dissolvenze 1230 fotogrammi).

3) Michel entra in casa di Jeanne, si siede sul letto; Michel: “Ecco cosa resta, della carta da lettere, delle foto. È finita”. Lungo piano medio di Jeanne.

4) Michel si muove nella stanza: “Jeanne, crede che saremo giudicati? — Sì, ma non tema, era perfetta. — Giudicato come? in base a quale codice? È assurdo”. Jeanne, in piano medio: “Non crede a nulla?”, esce di campo, entra Michel camminando: “Ho creduto in Dio, per tre minuti”. Michel esce; comincia la musica.

5) Dissolvenza su una pagina del diario (prosegue la musica): “Una settimana dopo entravo in una banca molto conosciuta e mi sedevo nell’atrio”.

Si può osservare allora la perfetta calibratura degli elementi espressivi:

a) il dialogo “gnomico” mescolato a quello “medio”; l’uso classico del campo-controcampo;

b) la dissolvenza dà la continuità-diversità, provocando l’ellissi del fatto centrale (la morte); la musica “interna” al film carica l’ellissi, viene rifiutata ogni espressività diretta (solo gli sguardi contano), e la sottolineatura è data dal tipo e dalla durata dell’inquadratura;

c) il dopo, l’onda lunga del fatto è ridotto all’osso;

d) il dialogo riprende, simmetricamente ad

e); il tono è “gnomico”. La musica non interviene a marcare il momento culminante (l’attimo, la rivelazione, il suo perdersi) ma interviene solo per il raccordo con il fatto seguente, anticipato dalla didascalia. L’appiattimento è completo, la drammaticità tutta interna, trattenuta. È una pagina esemplare del cinema di Bresson.

Il campo-controcampo è la figura classica che torna spesso a far risaltare i momenti rilevanti del dialogo (e spesso uno dei due personaggi rimane di spalle, di lato all’inquadratura); lo troviamo nel dialogo col commissario (gli uomini diversi e le regole), con la madre prima della sequenza della messa funebre, quasi sempre nei dialoghi tra Jeanne e Michel (ad esempio: quando lui confessa di essere un ladro, nell’appartamento di Jeanne ecc.).

Può tornare anche il discorso sull’uso della didascalia (le pagine di diario) e della voce fuori campo; anche se la natura diversa, di parola scritta e parlata, li pone su due piani differenti, si può riunire in un’unica analisi la tendenza che manifestano; tre mi paiono le linee direttive:

1) ritrovare una purezza di materiali, riproponendoli, al di fuori di una percezione usurata dagli schemi;

2) cercare una oggettività che sdrammatizzi: il narratage in unione dialettica col primo piano, per un film in prima persona ma registrato con occhio impassibile; gli elementi sentenziosi del dialogo sullo stesso piano dei dialoghi comuni;

3) usare il materiale per raggiungere un ritmo formale. Lungo queste linee si articola la diversa funzione che la parola può assumere: esplicativa (“Erano parecchi mesi che non vedevo mia madre. Esitavo.”), duplicativa, sostitutiva (la presentazione di Jacques), “didattica”.

Ma conta anche l’aspetto formale, come dicevo, il rapporto che viene a crearsi tra parola (scritta e parlata) e immagine, quindi anche tra pieni e vuoti. A questa alternanza contribuisce naturalmente anche la musica: puntualizza, seguendo i gesti, alle volte lega o serve di raccordo a due sequenze, “commenta” una didascalia, solo una volta sottolinea, nel finale.

Altre volte invece delude proprio le nostre attese, come nella scansione in blocchi di cui si è parlato sopra (la morte della madre): inizia dopo la scena drammatica, come riscontro del dialogo, proseguendo su una pagina di diario di semplice descrizione. Dunque, è ancora un intento formale quello che prevale.

Per questo scopo anche gli altri elementi vengono a interferire. I rumori perdono la natura di richiamo mimetico, il loro realismo (cioè l’adesione) è materiale di base per la costruzione, essi vengono ripresi dal vero e poi dosati o mescolati successivamente; quindi ancora il massimo di realismo per l’astrazione.

Creano però anche un sistema di collocazione delle azioni (nel métro o all’ippodromo o alla Gare de Lyon) o la sostituiscono (la corsa iniziale, che si sente ma non si vede).

Ma Bresson mira soprattutto al ritmo, al raporto tra percezione sonora ed evocazione, alla dialettica dei silenzi, alle concordanze o agli asincronismi, alle iterazioni; in quest’ultima direzione suoni e rumori si inseriscono nella geometria di gesti, azioni, luoghi, pagine di diario. Una scansione che trova anche simmetrie , e che può non essere esente da rischi. Il gioco degli elementi può diventare scoperto, così come il dialogo troppo pregnante .

Ma in Pickpocket sono pericoli che restano a margine, perché l’equilibrio — tra impianto e stile, fra elementi e loro rapporti — è raggiunto, difficile e sottile: come sempre nelle opere di disagio, anche estetico, dove la ricerca di un linguaggio prende sostanza da un tessuto ideologico ostico e scarno.

Da: Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, Venezia, 1976, pp. 85–92

Roger Ebert

One of the early images in Robert Bresson’s Pickpocket (1959) shows the unfocused eyes of a man obsessed by excitement and fear. The man’s name is Michel. He lives in Paris in a small room under the eaves, a garret almost filled by his cot and his books. He is about to commit a crime. He wants to steal another man’s wallet, and he wants his face to appear blank, casual. Perhaps it would, to a casual observer. But we know him and what he is about to do, and in his eyes we see the trance like ecstasy of a man who is surrendering to his compulsion.

Or do we? Bresson, one of the most thoughtful and philosophical of directors, was fearful of “performances” by his actors. He famously forced the star of “A Man Escaped” (1956) to repeat the same scene some 50 times, until it was stripped of all emotion and inflection. All Bresson wanted was physical movement. No emotion, no style, no striving for effect. What we see in the pickpocket’s face is what we bring to it. Instead of asking his actors to “show fear,” Bresson asks them to show nothing, and depends on his story and images to supply the fear.

Martin Lassalle, the star of Pickpocket, plays Michel as an unexceptional man with a commonplace face. He is not handsome or ugly or memorable. He usually wears a suit and tie, disappears in a crowd and has few friends. To one of them, in a cafe, he wonders aloud if it is all right for an “extraordinary man” to commit a crime — just to get himself started?

Michel is thinking of himself. He could probably get a job in a day if he wanted one. But he does not. He gathers his narcissism around himself like a blanket. He sits in his garret and reads his books, and treasures an image of himself as a man so special that he is privileged to steal from others. Also, of course, he gets an erotic charge out of stealing. On the Metro or at the racetrack, he stands as close as possible to his victims, sensing their breathing, their awareness of him. He waits for a moment of distraction, and then opens their purses or slips their wallets from their coats. That is his moment of release, of triumph over a lesser person — although of course his face never reflects joy.

In this story you may sense echoes of Dostoyevsky’s Crime and Punishment, another story about a lonely intellectual who lived in a garret and thought he had a license, denied to common men, to commit crimes. Bresson’s Michel, like Dostoyevsky’s hero Raskolnikov, needs money in order to realize his dreams, and sees no reason why some lackluster ordinary person should not be forced to supply it. The reasoning is immoral, but the characters claim special privileges above and beyond common morality.

Michel, like the hero of Crime and Punishment, has a good woman in his life, who trusts he will be able to redeem himself. The woman in Pickpocket is named Jeanne (Marika Green). She is a neighbor of Michel’s mother, and the lover of Michel’s friend Jacques (Pierre Leymarie). She comes to Michel with the news that his mother is dying. Michel does not want to see his mother, but gives Jeanne money for her. Why does he avoid her? Bresson never supplies motives. We can only guess. Perhaps she shames him with her simplicity. Perhaps she makes it impossible for him to think of himself as an extraordinary man, alone in the world. Does he avoid her because of arrogance, or fear?

Another character in the movie is a police inspector (Jean Pelegri) who has his eye on Michel. They play a delicate cat-and-mouse scene together in which the inspector implies that he knows Michel is a thief, and Michel more or less admits it. Together they examine an ingenious tool designed by a master pickpocket to slit open coat pockets. The inspector is on Michel’s case, and Michel, we sense, wants to be caught.

Shoplifters and pickpockets operate in different emotional weather than more brazen thieves. They do not use strength, but stealth. Their thefts are intimate violations of the property of others; to succeed, they must either remain invisible or inspire trust. There is something sexual about it. It’s no coincidence that when another pickpocket spots Michel at work and confronts him, it is in a men’s room; their liaison involves money as a substitute for sex. And later, when a police decoy at the racetrack shows Michel a pocketful of cash, Michel suspects the man is a cop (“He didn’t even bet on the winning horse!”). But he tries to pick his pocket anyway, and when the cop slaps on handcuffs, it’s as if that’s what Michel hoped for.

Bresson was born in 1907 and is still alive. He made his last film, L’Argent, in 1983, and it won a special prize at Cannes. He has been called the most Christian of filmmakers. Most of his films deal, in one way or another, with redemption. In Diary of a Country Priest (1950), a dying young priest confronts his death by focusing on the lives of others. In A Man Escaped (1956), based on a true story of the resistance, an imprisoned patriot acts as if his soul is free. In the great Mouchette (1966), a young girl — an outcast in her village and a victim of rape — finds a way to shame her enemies. In addition to Pickpocket’s parallels to Crime and Punishment, Bresson has made two films directly based on Dostoyevsky: Une Femme Douce (1969) and Four Nights of a Dreamer (1973).

Pickpocket is about a man who deliberately and self-consciously tries to operate outside morality (“Will we be judged? By what law?”). Like many criminals, he does it for two conflicting reasons: because he thinks he is better than others, and because — fearing he is worse — he seeks punishment. He avoids Jeanne because she is wholly good, and therefore a threat to him. “These bars, these walls, I don’t even see them,” he tells her. But he does, and is healed by the touch of her hand. (The famous last line: “Oh, Jeanne, what a strange way I had to take to meet you!”)

There is incredible buried passion in a Bresson film, but he doesn’t find it necessary to express it. Also great tension and excitement, tightly reined in. Consider a sequence in which a gang of pickpockets, including Michel, works on a crowded train. The camera uses closeups of hands, wallets, pockets and faces in a perfectly timed ballet of images that explain, like a documentary, how pickpockets work. How one distracts, the second takes the wallet and quickly passes it to the third, who moves away. The primary rule: The man who takes the money never holds it. The three men work the train back and forth, at one point even smoothly returning a victim’s empty wallet to his pocket. Their work has the timing, grace and precision of a ballet. They work as one person, with one mind. And there is a kind of exhibitionism in the way they show their moves to the camera but hide them from their victims.

Bresson films with a certain gravity, a directness. He wants his actors to emote as little as possible. He likes to film them straight on, so that we are looking at them as they look at his camera. Oblique shots and over-the-shoulder shots would place characters in the middle of the action; head-on shots say, “Here is a man and here is his situation; what are we to think of him?”

Da Rogerebert.com, July 06, 1997

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet