Perché non possiamo non dirci italiani

di Ruggiero Romano

Mario Mancini
28 min readSep 10, 2020

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [Settembre 2020]

Vai agli altri saggi della serie “Think | Tank

Il titolo di questo mio intervento allude chiaramente alle pagine del 1942 di Benedetto Croce. La Chiesa aveva incominciato a prendere le distanze dal regime fascista e quest’ultimo aveva reagito con furiosi attacchi della sua stampa.

Croce era sceso in campo con un testo intitolato Perché non possiamo non dirci cristiani. Rispose a Croce l’uomo certo più intelligente dell’apparato fascista, Bottai, con un articolo che portava un titolo divertente ma nulla più: Benedetto Croce rincristianito per dispetto.

Ora, Croce non era «rincristianito» per niente. Molto più semplicemente, egli aveva voluto ricordare che si ha un bel dichiararsi (o financo essere) laici, atei, libertini: non per questo ci si toglie di dosso venti secoli di cristianesimo.

Io vorrei, oggi, indicare come anche in questo difficile momento di «lacerazioni e contrasti» (per riprendere una bella espressione dell’amico Corrado Vivanti) il punto di partenza per ogni qualsivoglia riflessione sul da fare non possa partire che da questa considerazione previa: perché non possiamo non dirci italiani.

Ma che significa, esattamente, essere italiani? Avere in tasca un certo passaporto? Mi sembra veramente poco. E le risposte che si possono dare a questo e ad altri interrogativi del genere (la lingua, la religione, la geografia…) costituiscono, certo, elementi importanti ma — forse perché più volte ripetuti — sembrano aver perso reale forza di convinzione.

Essere italiani, invece, significa innanzitutto riconoscersi in una certa memoria collettiva, nazionale. Ma credo che proprio intorno alla parola «nazionale» si creino pericolosi equivoci.

Che l’Italia non esista come stato-nazione prima del 1860 è cosa certa. Ma è egualmente certo che anche la Germania, come stato-nazione, non esiste prima del 1866.

In altre occasioni, ho parlato dell’esistenza di nazionalismi soddisfatti (Francia, Inghilterra, Spagna) e di nazionalismi complessati (Italia, Germania, Grecia, Polonia, Ungheria, Belgio…). Soddisfatti, i primi, perché grazie ad una distorta visione della propria storia dovuta alla storiografia, soprattutto ottocentesca, si è creata una forte confusione tra formazione di uno stato unitario e assoluto (ma più assoluto che unitario e, in ogni modo, relativamente assoluto se si pensa alle lunghe — fuorché in Inghilterra — persistenze feudali) e formazione dell’unità nazionale, cioè nascita della nazione.

Confesso di invidiare la bella sicurezza con cui Georges Duby ci dice che la nazione francese è stata fondata nel 987, al momento dell’incoronazione di Ugo Capeto a re di Francia. Vorrei ricordare a Duby che la nazione, l’idea di nazione (nel senso moderno della parola), è ben più tarda, del secolo XVIII. E non è per caso se l’idea di nazione — come ha mostrato Federico Chabod — si è affermata in quel secolo proprio in Svizzera, cioè in un paese che meno di tanti altri sembrava rispondere ai caratteri di questi fantomatici stati-nazione, assoluti e unitari.

Il nazionalismo complessato di Italia, Grecia, Germania e altri paesi ancora non ha dunque — a mio sommesso avviso — alcuna ragione d’essere. Ma tant’è, esso esiste: più forte in Grecia, Italia, Polonia ma non per questo assente in Germania (tanto da chiedersi se almeno una parte dell’aggressività nazionalistica tedesca non sia proprio dovuta al complesso d’inferiorità di una nazione giovane nei copfronti delle altre nazioni «vecchie»).

Insomma, ripeto, intorno alla parola nazione si sono create non poche confusioni, con i conseguenti complessi di inferiorità e/o di superiorità.

Ma, si dirà, prima del secolo XVIII la parola in questione esisteva già. Certo, ma dal Medioevo al secolo XVIII, essa ha ben deboli significati (almeno in rapporto al senso che prenderà dal Settecento). Ripeto: fino al secolo XVIII il concetto resta debole e lontanissimo dalla forza che assumerà in seguito.

Vorrei, ora, precisare le linee maggiori lungo le quali si svilupperà questo mio intervento.

1. In primo luogo, penso sia necessario presentare una sorta di rapido schema — uno dei possibili schemi — della storia d’Italia.

2. In seguito, penso sia opportuno trattare una serie di elementi abitualmente considerati «minori»: il mangiare e il bere, le forme di religiosità e di superstizione, le carte da gioco, le arti dette minori… Tutti questi elementi non presentano — come vedremo — segni di assoluta unitarietà, ma ciò nonostante sono pur sempre importanti perché ci indicano cosa sia il paese Italia alle spalle della nazione Italia. In ogni modo, mi sforzerò di mostrare come in questi elementi che costituiscono il nostro paese vi sia stato negli ultimi centocinquanta anni un forte movimento cospirante verso una uniformazione che possiamo ben chiamare «nazionale».

Insomma, vorrei presentare le ragioni calde, le ragioni, per così dire, dei sentimenti che formano il sostrato dell’essere del nostro paese Italia.

3. Seguiranno le ragioni della volontà, più della testa che del cuore, più della riflessione che dei sentimenti e, in primo luogo, le ragioni dell’interesse collettivo ad essere italiani e del rifiuto necessario di situazioni degenerative che si sono venute manifestando.

1. Uno schema possibile di una storia d’Italia

Come è possibile mettere insieme i tanti frammenti contenuti in trenta secoli di storia d’Italia? Da principio sono culture, civiltà, locali: siculi ed etruschi, veneti e liguri, galli e lucani, latini e campani.

Sopravviene da un minuscolo centro una forza con una capacità di rottura incredibile: Roma, che schiaccia le culture, le civiltà, le lingue degli itali. Il toro italico sarà abbattuto dall’aquila romana.

Confesso che al liceo tifavo più per gli itali che per i romani, che vedevo solo nelle vesti di bruti sanguinari. E, certo, bruti sanguinari erano. Ma dei bruti che seppero imporre all’Italia e poi a una buona parte del mondo un modello romano (e, in un certo modo, si può ben dire italico, poiché in quello romano confluirono non pochi elementi delle varie culture: sicula e sannita, etnisca e magno-greca…).

Un modello costituito dal diritto, dalla lingua, da un certo senso della vita di relazione (teatri, terme, arene…). Non vorrei si equivocasse. Io non sto sostenendo non so quale primato romano di cui noi italiani saremmo, tutti, gli eredi diretti.

Molto più semplicemente suggerisco il ricordo dell’esistenza di un certo modello (non primato) romano, di cui ancora oggi sussistono non poche tracce (il diritto romano, taluni paesi con lingue neolatine, resti archeologici ancora «vivi»…).

Tuttavia, questa persistenza non deve farci dimenticare che nel corso dei secoli tra il III e il X d.C. quel modello si disfece. Dopo il X secolo appare un nuovo modello italiano: economico, sociale, politico, culturale.

È un certo modo di fare politica, di fare economia, di imbandire la tavola, di cucinare, di vestire, di pettinarsi che si impone. Un buon mercante inglese invierà i suoi figlioli a fare il suo apprendistato in Italia; una piazza mercantile fiamminga sarà veramente importante quando vi si installeranno fattori di case commerciali italiane; libri di cucina italiana saranno tradotti in più lingue; parrucchieri e marmisti, setaioli e scalpellini di tutta Italia porteranno il loro «saper fare» un po’ dappertutto; l’italiano sarà tra il Quattro e il Cinquecento (e ancora agli inizi del Seicento) lingua transglottica in tutta Europa.

Ma questo modello anch’esso terminerà, e se nel 1515 Francesco I di Francia fa chiedere a Beatrice d’Este, duchessa di Ferrara, di mandargli una «puva», una bambola, con gli abiti e i sottabiti delle dame della sua corte ferrarese perché vuole farli riprodurre per le dame della sua corte parigina, alla fine del secolo XVIII si aprirà, invece, in piazza San Marco a Venezia, un magazzino di moda femminile dal nome ben significativo: «la piavola de Franza» (il magazzino, del resto, è sopravvissuto con lo stesso nome fino alla metà del nostro secolo).

Allo stesso modo, se nel secolo XV o XVI erano cuochi italiani che emigravano verso le cucine di principi e favorite di tutta Europa, nel 1766 si pubblicava in Torino un anonimo trattato dal titolo emblematico: Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi, e negli stessi anni incominciava la grande calata dei cuochi francesi (i «monsù») verso le cucine dei nobili napoletani, francesizzando il vocabolario della cucina partenopea (ragù, sartù, besciamella…) e italiana.

Il modello, insomma, era finito (ma, a dire il vero, un pezzo del modello — particolarmente quello musicale — doveva sopravvivere fino alla fine del secolo XIX). E va ricordato che alla formazione di quel modello tutta l’Italia aveva contribuito, e come «italiano» quel modello era percepito all’estero.

Mi sembra dunque di poter dire che tutto il movimento della storia italiana — di una certa storia d’Italia — possa essere rappresentato con una forma sinusoidale, con i due momenti magici in cui l’Italia impone i suoi due modelli.

Ma un movimento sinusoidale, ovviamente, presenta anche momenti bassi, il ventre delle onde… Cerchiamo, dunque, di vedere quale è il rapporto tra vertici e ventri, zenith e nadir… Per questo esercizio, preferisco lasciare da canto il modello romano e guardare invece al secondo.

E ciò per due ragioni: la prima è che io conosco male il mondo romano (allorquando scrissi diffusamente di questo, potevo far ricorso alla competenza amichevole del rimpianto Ettore Lepore) e la seconda è che il modello romano si impone con la forza delle armi (senza che ciò tolga qualcosa al suo intrinseco merito) e cade anch’esso sotto la pressione armata (anche se, in realtà, già intrinsecamente esaurito).

Il secondo, invece, mi sembra tanto più interessante in quanto esso si costruisce e si afferma in un momento in cui certo non si può parlare di preponderanza militare italiana (al contrario). La sua affermazione non avviene sulla punta delle spade ma semplicemente per una sua forza interna.

Non crolla davanti a nessuna invasione (spagnoli ed altri stranieri erano già presenti da tempo nella penisola allorquando esso giunge al suo zenith). Cosa è dunque che lo mina?

Le dominazioni straniere hanno certo avuto il loro peso ma, ripeto, in casi del genere non si deve mai credere in cause esogene e bisogna invece insistere nell’esame delle cause endogene. Ed anche in quel che v’è di dialetticamente negativo nello stesso mirabile modello.

E proprio di questo vorrei dare un primo esempio. Non v’è dubbio che è in Italia che dal secolo XIV si afferma il valore della retorica. Ma cos’è la retorica? Cosa può essere la retorica? Uno strumento per sostenere, difendere, far trionfare la verità. O, anche, un mezzo per far trionfare qualsiasi principio, buono o cattivo, giusto o ingiusto, morale o immorale.

Seguiamo, allora, l’uso della retorica in Italia e in Francia. Lionello Sozzi ne ha tracciato le linee evolutive in un quadro superbo. Dapprima la retorica umanistica come «scienza civile», vale a dire come intreccio tra forma e contenuto, bellezza del dire e validità del pensiero, splendore della parola e forte rigore della logica.

Vi è coscienza, nei primi umanisti, dell’ambiguità intrinseca alla retorica; si sa che essa è un’arma a doppio taglio, che può servire per il trionfo della verità come anche per il trionfo della menzogna.

Ma, se è un’arma, dice Coluccio Salutati, dobbiamo servircene anche noi che ci battiamo per il vero: non possiamo rinunciare a quello che è uno «strumento della vita cittadina».

Per un certo periodo (diciamo il Quattrocento) questa idea, forse (mi si consenta d’avere alcuni dubbi) sarà prevalente. Quel che è certo è che la retorica si trasforma a un certo punto in «arazzeria» (e questa è la seconda fase indicata da Sozzi), vale a dire che ormai «non rinvia ad un reale da investigare e mutare, ma si esaurisce nel cerchio delle cortesi parole».

In Francia, la diffidenza si manifesterà ben presto: già nel 1510 Longueil denunciava che gli italiani sono «eloquentiae magis quam veritatis studiosi». Non si tratta di una semplice polemica tra eruditi, ma piuttosto di un vero e proprio rifiuto di ordine morale.

Il che è straordinario, poiché mentre si accetta — come ho detto prima — tutto un modello (letterario, sociale, culturale, artistico, architettonico, di vita quotidiana…) italiano se ne rifiuta il modo d’uso della retorica, dell’eloquenza, dell’uso della parola.

Si pensi a Margherita di Navarra, che si può certo definire come la migliore alunna di Boccaccio e tanto più straordinaria in quanto lo segue in un genere — la novella — che è estranea alla tradizione letteraria francese.

Bene: nel suo Heptameron Margherita dichiara con tutta franchezza che si allontanerà da Boccaccio in un punto: lui ha curato «la beauté de la rhétorique»; lei si atterrà alla «verité de l’histoire». Bellezza, dunque, contro verità. Dove questa opposizione si manifesterà in modo non si può più chiaro è in Montaigne per il quale il peggior nemico sembra essere l’italica «escrivaillerie». Il distacco dell’umanista francese dal mondo italiano, per quel che è della retorica, è totale:

gli italiani, che si vantano, e a ragione, di avere in generale l’ingegno più sveglio e il giudizio più sano degli altri popoli della loro epoca, ne hanno ora gratificato l’Aretino, nel quale, salvo una maniera di parlare gonfia e ridondante di arguzie, in verità ingegnose, ma troppo ricercate e fantastiche, e salvo infine l’eloquenza, quale che sia, non vedo niente che superi i comuni autori del suo secolo; tanto è lontano da quella divinità antica (libro I, capitolo LI).

Ma ritorniamo in Italia. Lionello Sozzi sottolinea con giustezza come, dopo essere diventata «arazzeria», la retorica si trasformi in qualcosa di peggiore, in «instrumentum regni», «tramite del dogmatismo, utile tecnica nelle mani del potere dispotico, sia religioso, sia politico».

Resto ancora su questa pista dell’ambiguità — per taluni aspetti — del modello italiano. E passo a un libro famoso: Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione. È ben noto che esso è stato il manuale del perfetto cortigiano non solo italiano ma anche spagnolo, francese, germanico, inglese.

Su questa diffusione dell’opera del Castiglione sono state scritte pagine numerose; giuste alcune, francamente vuote altre. E si è detto a proposito della sua fortuna in Inghilterra che quel libro è servito alla formazione del gentleman inglese e al suo successivo ruolo di dominatore del mondo.

Ora, si tratta di una semiverità, poiché, se è vero che durante il Cinquecento Il Cortegiano fu veramente opera fondamentale nella cultura inglese, quel che è certo è che non se ne trova più alcuna nuova traduzione o riedizione dopo il 1619.

Ed è naturale che fosse così: non è con l’arte del «porgere» parole che si va alla conquista del dominio del mondo. Il vero manuale del gentleman inglese conquistatore non fu Il Cortegiano bensì l’opera di Locke: Some Thoughts concerning Education del 1693, che proprio in contrasto col Castiglione affermava fin dall’inizio: «res, non verba».

Per Locke, «le parole non hanno importanza o valore se non in quanto sono i segni delle cose; quando non significano nulla valgono ancor meno dello zero, perché invece di accrescere, come questo, il valore delle cifre a cui è affiancato, lo diminuiscono e lo riducono a nulla».

Un grido del genere era stato lanciato già nel secolo XIV in Italia da Giovanni Domenico nella sua Lucula Noctis in piena opposizione alla «moderna rhetorica»:

«Confesso in piena coscienza — diceva — che non soltanto non sono un retore, ma che non ho mai neppur studiato la grammatica. E tuttavia venero la verità e preferisco alle parole le cose».

Il dire del domenicano non sarà ascoltato in Italia.

Un ultimo (tra tanti) esempi di come il modello si corruppe dal suo interno: il Galateo di Monsignor Della Casa. Questa operetta costituisce senza alcun dubbio la codificazione perfetta di tutta una serie di norme: usare il fazzoletto e non le dita per soffiarsi il naso; servirsi della forchetta e non delle mani; lavarsele prima di passare a tavola.

Tutto ciò (ed altro ancora) è bello e santo (anche se non si deve dimenticare che Della Casa non inventa nulla ma si limita a codificare norme che sono già più o meno correnti).

Ma il punto vero è che il Galateo non si riferisce solo a qualche punto del ben tenersi a tavola o del comportamento urbano. Esso è, vuol essere, qualcosa di più: insegnamento del «saper vivere».

La regola fondamentale è che l’individuo quasi non deve esistere in se stesso ma deve essere simile agli «altri». Qualche citazione?

L’uomo dai buoni costumi è colui che sa «temperare e ordinare i suoi modi non secondo il suo arbitrio, ma secondo il piacere di coloro co’ quali egli usa».

Nei rapporti con gli altri bisogna accettarli «non per quello che essi veramente vagliono, ma, come si fa delle monete, per quello che corrono».

Non si deve parlare di cose «di dolorosa materia», «maninconose», ma piuttosto essere «graziosi», «domestici». Si tratta, insomma, di una quantità di temi (più ampiamente sviluppati in un’altra opera del monsignore, il Trattato degli uffici comuni) i quali non si riferiscono né alla convivialità né alle norme d’igiene, bensì alle regole di uno stretto controllo sociale.

E per controllo sociale Della Casa intende qualcosa di duro, di veramente selettivo; per comprenderne la severità, basterà ricordare che il dolce monsignore fu l’autore della prima lista di libri proibiti, sulla quale si inserirà VIndex lihrorum prohibitorum.

I tre esempi dello sfaldarsi interno del modello italiano indicano bene uno dei tratti maggiori della storia del paese: l’affermarsi corrotto e corruttore (in senso morale e anche economico) di una certa forma d’esercizio del potere, dell’arroganza impunita e del carattere fragile (per non dire fradicio) di una certa classe dirigente, perpetuatasi in varie forme fino ad oggi, dappertutto in Italia.

Tutto si gioca nel corso del secolo XV: per far fronte agli strascichi della crisi (morale, politica, sociale, economica) del secolo XIV, l’Italia — sia quella della tradizione comunale del Centro-Nord sia quella degli stati centralizzati del Centro e del Sud — non ricorre a nessuna operazione chirurgica, a nessun taglio netto, a nessun cambiamento di rotta. Insisto nel credere, come ho affermato più volte, che non si fece altro che imbiancare sepolcri, riparare facciate.

L’unica struttura politico-sociale che ancora fino alla fine del secolo XVI ebbe un certo corpo fu Venezia. Il resto fu cadavere imbellettato, ricoperto dall’«aulica facundia» della retorica cortigiana e dell’ipocrisia che Della Casa aveva così ben configurato.

Si era venuta creando insomma — all’interno dell’Italia che aveva costruito, inventato, il grande modello accettato in tutta Europa — una distorsione tra talune realtà di effettiva creazione e creatività e una ben miserabile situazione.

Così, per esempio, la politica aveva un bell’essere teorizzata da Machiavelli: lo stato nuovo (lasciamo perdere lo stato moderno, che è altra cosa e che non vide i suoi natali teorici in Italia) lo stato nuovo, dico, del segretario fiorentino fu pianta che non fiorì mai in Italia, ma nelle antimachiavelliche (a parole) Inghilterra e Francia: la più bella eredità del pensiero machiavelliano non è certo nei signori e sovrani italiani, ma nel Testament di Richelieu.

È chiaro che in tal modo abbiamo alle nostre spalle due storie d’Italia. Il coraggio che si deve avere è quello dello scegliere, del dire chiaramente in cosa vogliamo riconoscerci.

Se è vero, come è certamente vero, che non possiamo non dirci italiani, è anche vero che l’essere italiani (o francesi o inglesi o che altro sia) è innanzitutto riconoscersi in una certa memoria.

Ma la memoria generalmente è selettiva. Anche la memoria storica è selettiva. In essa, la selezione non è fatta dai singoli individui, ma imposta dall’alto: politici e poeti, pittori e storici, programmi ministeriali e università costruiscono la memoria della quale siamo portatori.

Ora, dal Risorgimento in poi si è venuta costruendo una memoria storica che, a mio avviso, è fortemente discutibile. Per esempio, si è cercato — Cattaneo promotore — un principio unitario, un filo conduttore di tutta la storia d’Italia, nella città.

Sostenere, di contro, che la popolazione urbana nel passato della nostra storia non raggiunse mai più del 15 per cento (per i centri di più di 5000 abitanti) e toccò il 19 per cento solo nel 1850, è stata considerata un’eresia.

Ricordare che il motore dell’economia italiana è stato fino a ieri il settore agricolo (come è statisticamente dimostrato) è stata ugualmente considerata un’eresia.

Dalle città si è passati — il passo era brevissimo — all’apologia dei Comuni dell’Italia centro-settentrionale. Indicare (come ha fatto Philip Jones con pagine sulle quali dovremmo tutti meditare) i limiti di quella organizzazione politica, le sue contraddizioni, le sue ambiguità, costituisce anche questo un grave atto d’eresia.

Ricordare egualmente che, in ogni modo e in ogni caso, questi famosi Comuni non sono mai stati più di due-trecento alla fine del secolo XII, nel momento di massimo splendore (e ancora una volta siamo di fronte a numeri, non opinioni) costituisce un esempio di quello che non si deve dire poiché la vulgata vuole che si parli delle meraviglie delle «cento» città d’Italia. Ma, naturalmente, tutto questo conduce ad una visione distorta del nostro passato.

«Italiani, io vi esorto alle istorie», fu il grido di Ugo Foscolo. Non è che non vi fossero storici e storie ma egli voleva che la storia — la ricerca storica, diremmo oggi — si indirizzasse a un fine ben preciso: giustificare la necessità dell’unità italiana.

Ciò fu fatto (come si fece del pari in Germania e in altri paesi): nacquero riviste (come non ricordare l’«Archivio Storico Italiano»?); nacquero le «Società di storia patria» che svolsero (e talune ancora oggi svolgono) opera meritoria.

Vennero alla luce opere storiche di straordinario vigore (come non ricordare la grandiosa Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis che resta ancor oggi modello difficilmente superabile non dirò di storia letteraria — altri possono parlare di questo aspetto con maggiore competenza — ma certamente di storia civile).

Ma vennero anche veri e propri deformatori della storia d’Italia. Un Carducci, in primo luogo. Ancora una volta la peggiore retorica trionfava.

Perché nelle scuole si insegnarono le poesie di Carducci e non la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis.

Perché si insegnò come bella pagina quella di Manzoni e non quella di Machiavelli.

Perché si preferì Cesare a Bruto.

Perché la storia antica fu vista essenzialmente come storia del trionfo di Roma e non anche come schiacciamento dei popoli italici.

Non è che siano mancati appelli, richiami. Un solo esempio: Vincenzo Cuoco nel suo Platone in Italia insiste su questo essere civile degli itali prima di Roma e contro Roma. Una lezione inascoltata.

Ma tante lezioni inascoltate potrei indicare. Che la reazione laica contro il prevalere della Chiesa fosse (e sia ancora) più che giustificata non v’è dubbio. Ma non v’è egualmente dubbio che il modo di quella reazione fu (ed è ancora) assolutamente triviale, e si travolse un grande patrimonio di pensiero senza il quale difficilmente si può intendere la storia d’Italia (e d’Europa e dell’America detta latina) fino al secolo XVIII: alludo al pensiero scolastico e alla sua massima espressione, Tommaso d’Aquino.

Si credette (e si crede ancora) che il pensiero dell’Aquinate fosse solo pura teologia, laddove la sua Summa costituisce una chiave per la comprensione storica di qualsivoglia società cattolica dal medioevo fino a ieri (per le società protestanti, ovviamente, il discorso cambia dal secolo XVI).

Con ciò voglio dire che per uno storico che abbia l’occhio un po’ sveglio non è difficile cogliere una continuità di stile tra il discorso politico del secolo XVI e il discorso contemporaneo: gli stessi topoi, gli stessi stereotipi. Non ne darò che un esempio: l’immagine della storia di Roma come è stata costruita negli ultimi cinque secoli.

Una continua oscillazione tra le «virtù» repubblicane e/o la «gloria» imperiale. Ma sempre con la stessa retorica: l’Italia — quale che essa sia (pontificia, risorgimentale, fascista) — ha dei diritti per queste «virtù» o per queste «glorie».

Non voglio, certo, eliminare la storia di Roma dalla nostra memoria storica ma, dico, più Virgilio delle Georgiche e meno Virgilio dell’Eneide, più Tacito (soprattutto quello della Germania) e meno Cicerone (almeno il Cicerone della Retorica).

Ed eccoci giunti al nocciolo di questa prima parte: la nostra memoria storica è dicotomica. Vale a dire che portiamo con noi due dimensioni storiche.

Una: aulica, trionfale e, in realtà, nulla più che accademica. Che è quella che viene insegnata nelle scuole e che sopravvive in una o nell’altra forma nel discorso politico (come dimenticare, per esempio, le lotte furiose del 1982, tra diverse forze politiche, per accaparrarsi le spoglie di Giuseppe Garibaldi?).

Un’altra, di cui non vi sono manifestazioni esplicite, segni evidenti. Essa appare, per esempio, nell’enorme contraddizione che si è manifestata a proposito dell’Europa.

Gli italiani (insieme ai tedeschi) — forse più che ogni altra nazionalità — hanno manifestato una schietta adesione ai principi e agli ideali dell’Europa.

Su questo entusiasmo ha inciso con ogni probabilità la sconfitta della seconda guerra mondiale; ha inciso un’inconscia tradizione cattolica di universalità; ha pesato, infine, anche una tradizione storica che ha fatto degli italiani (per gusto o per forza che sia) degli intellettuali cosmopoliti e dei muratori migranti, dei pittori suscettibili di aver successo a Vienna come a Londra o dei contadini capaci di «arrangiarsi» in Brasile o in Australia.

In ogni modo, gli italiani si sono sentiti fortemente europei. E questa mi sembra bella e santa cosa.

Ma, nello stesso tempo, questi stessi italiani si sono sentiti sempre più localisti quasi che, per essere europei, trovassero che le radici nazionali erano insufficienti e si sentissero costretti a inserirsi in un suolo più limitato, quello della regione e, ancor meglio, del paesello natio.

E non è certo per caso che proprio nelle regioni che si affermano (per certi aspetti, pretestuosamente) come più europee, si sono manifestate più evidenti forze centrifughe.

Questi sono alcuni degli aspetti — almeno i più evidenti — della dicotomia alla quale facevo riferimento. Si parla tanto di federazione, confederazione, in opposizione a centralismo.

Io, per mia natura, non ho niente in favore del centralismo, ma sono veramente sorpreso nel constatare come si sia creata una sorta d’identità tra federazione (o confederazione) e assenza, negazione, di nazione.

Forse che nord-americani e messicani, svizzeri e argentini per la loro organizzazione politica non hanno un senso nazionale? E questi nuovi teorici (che hanno anche loro bisogno di crearsi miti storici: carrocci e battaglie e spadoni…) credono davvero che uno svizzero francese sia più «francese» che svizzero?

Sarà forse perché da cinquant’anni vivo fuori d’Italia (anche se con frequentissime puntate nel mio paese), ma so che dalla Francia alla Polonia, dall’Argentina al Messico gli insulti rivolti agli italiani non fanno discriminazioni regionali.

E almeno in uno di quegli insulti mi riconosco pienamente come italiano: «macaroni», che mi conferma che sono italiano come gli altri cinquanta- sei milioni di italiani (del resto, il «macaroni» fu rivolto a tutti gli italiani — particolarmente fiorentini — che accompagnarono in Francia Caterina e poi Maria de’ Medici…).

In questo abbozzo di un modello di storia d’Italia, delle sue distorsioni, delle dicotomie che si sono venute creando, sono già presenti molte delle ragioni per cui non possiamo non dirci italiani. Ma penso valga ora la pena d’analizzarle partitamente.

2. Le ragioni calde

Le ragioni calde, dei sentimenti, del cuore, sono quelle — ripeto — che ci conducono ad individuare il paese alle spalle del nostro essere nazione.

È nel paese Italia che dobbiamo in primo luogo riconoscerci. Esso è un insieme di elementi forse più «modesti» di quelli (molto spesso immaginari) che si attribuiscono alla nazione ma di certo più concreti: il mangiare e il bere; il credere religioso e/o magico; la lingua e i dialetti; le costumanze; i giochi. È in questo — ed altro ancora — che consiste un paese.

Si può certo opporre che fenomeni del genere non sono unitari nella storia del paese Italia e che, per esempio, vi è una bella differenza tradizionale nell’uso dei fondi di cucina: olio e strutto nel Centro e nel Sud della penisola; burro essenzialmente (e sia pure con alcune isole di olio: Garda, Riviera ligure) nel Nord.

D’accordo. Ma questa frattura, in primo luogo, si è venuta saldando nell’ultimo secolo. E, in ogni modo, la tripartizione francese (grassi vegetali, grassi animali da latte e di maiale, infine grassi da volatili) non impedisce l’esistenza di un paese culinario che si chiama Francia.

La religiosità italiana è ben italiana: voglio dire che essa è infiltrata da taluni elementi magici e questo in modo ben unitario (a meno che non si voglia credere — come pur si fa — che la fattucchiera lucana sia un esempio di superstizione laddove messe nere e maghi di Parma o di Torino siano espressione della partecipazione di queste — ed altre — città ad una supposta cultura europea).

Si può certo sorridere nel vedere che cerco in elementi «irrazionali» le tracce di una certa unitarietà del paese Italia. Ma non v’è di che stupirsi: se gli italiani — tutti — sono superstiziosi (in modo cosciente o incosciente), gli inglesi sono quelli che credono nei fantasmi (esistono dozzine di istituzioni in Inghilterra che si interessano a queste strane creature); tedeschi e scandinavi sono incapaci di passeggiare in un bosco senza incontrare gnomi, silfidi e non so cos’altro; i francesi sono i soli, in Europa, a credere nell’«envoùtement» (malefizio): credo sia solo in Francia che gli avvocati portino a scusante del crimine del loro assistito l’argomento dell’«envoùtement».

Il bestemmiare. La bestemmia in Italia presenta caratteri unitari: l’oggetto della nostra bestemmia è, in genere, la Sacra Famiglia, con varietà regionali per cui si bestemmia più il nome di Dio in un certo spazio e quello del Cristo o della Vergine in altro. Varietà locali (come anche il bestemmiare i morti altrui — soprattutto a Napoli e in Campania) che tuttavia non rompono questa specificità italiana.

Ma esiste — al di là di fattucchiere, superstizioni e bestemmie — anche una forma di religiosità molto italiana: il culto dei santi. Se ho seri dubbi sul nostro essere un popolo di eroi e di navigatori, non ho alcun dubbio invece sul fatto che l’Italia sia un paese in cui il culto dei santi riveste — dal Nord al Sud — un carattere ben preciso e importante (anche se esso si va dappertutto affievolendo).

E ancora: i giochi delle carte. Mi si dirà che la grafica delle carte presenta differenze importanti da regione a regione. Lo so e, a volte, ne ho pagato il prezzo poiché non mi abituo rapidamente all’uso delle piacentine in luogo delle napoletane (e viceversa).

Ma questo non impedisce che molti dei giochi delle carte (scopa, scopone, tressette) presentino una struttura unitaria italiana. Italiani nello scopone? E perché no?

È certo più serio e più concreto che riconoscersi lombardo o veneto o non so cos’altro in simboli che vengono impiegati senza conoscerne né il senso né il contenuto…

Potrei, naturalmente, continuare. Ma credo che gli esempi che ho fornito indichino bene questi elementi comuni del paese Italia. Certo, mi si può dire che essi non sono rigidamente unitari, totalizzanti.

Lasciamo pure da parte il fatto che nessun paese (nazione) al mondo presenta i caratteri globali di una sua identità storica e culturale, ma vorrei far notare che negli ultimi centocinquanta anni anche in taluni di questi aspetti che ho qui presentato e che mostrano segni di divisione si sono manifestati chiari sintomi di unificazione.

Ho raccolto per molti anni manuali di cucina di differenti paesi del mondo e di diverse regioni d’Italia. Ai fondi di cucina ho già accennato.

È certo che le cucine regionali italiane sono differenti le une dalle altre. Ma è ugualmente certo che da un secolo in qua assistiamo ad una fusione assai interessante per cui le liste dei ristoranti del nostro paese presentano ormai sostanziale unità: salse a base di panna a Palermo e spaghetti «aglio, olio e peperoncino» a Milano…

Questa unificazione culinaria italiana si è fatta lentamente e se ne può seguire assai bene il cammino. Mi riferisco a La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi. La prima edizione, del 1891, contiene 475 ricette; la seconda (1895) 579; la tredicesima (1909) 790…

Se già la prima edizione presentava una geografia culinaria abbastanza italiana, il suo nucleo era incontestabilmente tosco-emiliano (e lombardo).

Ma nelle successive il panorama italiano si rinforza sempre più fino ai «maccheroni con le sarde alla siciliana». Un fatto limitato? Molto meno di quello che si può credere se è vero (come è vero) che tra la prima edizione del 1891 e il 1970 dell’Artusi sono state vendute 640000 copie (di cui 282.000 tra il 1948 e il 1970).

Una enorme diffusione, tanto più grande se si considera che si tratta di un libro per famiglie, di un libro che spesso passa da madre a figlia (rilegato, aggiungendovi pagine bianche per scrivervi ricette di inventiva casalinga) e, soprattutto, se si pensa che è stato un libro che ha ispirato dozzine di talismani più o meno felici, cucchiai d’oro e di stagno, re e regine dei cuochi.

Ancora una volta: un fatto modesto? Se si vuole. Ma mi si concederà di dire con Piero Camporesi che «la Scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto siano riusciti a fare i Promessi sposi; i gustemi artusiani sono riusciti a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani».

So che malgrado il bel passaggio dell’amico Camporesi si continuerà a considerare questo della cucina e gli altri esempi da me indicati, come «minori», di scarso impatto nella formazione di una coscienza non dirò nazionale, ma di appartenenza a un paese. E tuttavia, penso che valga la pena di insistervi.

Un altro aspetto che mostra chiaramente come nell’ultimo secolo e mezzo talune forme di unificazione si siano manifestate con vigore ci viene dalla diffusione dell’italiano. Ne parlerò brevemente poiché il fenomeno è noto grazie al giustamente fortunato libro di Tullio De Mauro.

La stima alla quale egli è pervenuto dà 600.000 italofoni (di cui 400.000 in Toscana) nel 1860, il che non rappresenta più che il 2,5 per cento del totale della popolazione italiana. I calcoli di A. Castellani conducono, invece, a una stima di un 9 o 10 per cento.

In uno o altro modo, siamo a livelli veramente bassi. Lo sviluppo di una pratica italofona generalizzata fu lento; tuttavia, la scolarizzazione (con tutti i suoi limiti), la diffusione della stampa (in particolare quella sindacale) e, successivamente, radio, cinema, televisione, l’intensificarsi delle comunicazioni, le migrazioni interne… hanno condotto alla generalizzazione di una lingua «italiana», tra virgolette, se si vuole.

Ad essere più precisi, diremo con Giulio Lepschy che se «l’italiano scritto (almeno quello che compare a stampa in libri e giornali) è ormai largamente standardizzato e si presenta come fondamentalmente unitario, a parte certi tratti lessicali e sintattici, il parlato, invece, consiste di varietà regionali».

Le quali ultime, come avverte lo stesso Lepschy, «sono, ovviamente, cosa ben diversa dai dialetti». Insomma, quelle che erano vere e proprie barriere di incomprensione tra i vari dialetti delle varie regioni d’Italia, sono cadute.

Rimangono le «varietà regionali» e gli accenti, a proposito dei quali ultimi confesso di non capire perché gli «agudi» di un ex presidente del Consiglio avellinese (che non stimo e non rispetto) sarebbero più buffi del «miagolio» di un ex presidente del Consiglio astigiano (che, del pari, non stimo e non rispetto).

In Francia, che io sappia, per non parlare dell’accento còrso di Charles Pasqua non credo che Georges Marchais parli con lo stesso accento di Mitterrand.

Ecco dunque che anche nella storia calda del paese le linee di frattura — poche — che era dato rilevare, si sono venute saldando in questi ultimi tempi.

Il che conferma che la «storia matria», per usare la bella espressione di Luis Gonzalez y Gonzàlez, non è soltanto la storia di piccoli sentimenti di campanile, microstoria anemica, ma chiave fondamentale per ritrovare le nostre radici.

Ma è tempo ormai di passare alle ragioni della volontà.

3. Le ragioni della volontà

Sono quelle dettate dalla mente, dalla ragione e che ci indicano l’interesse dell’ineluttabilità di essere italiani e il modo migliore per cercare di esserlo.

La nazione, ripeto, non è un fatto: né per l’Italia né per alcun altro paese. La nazione è un’idea e in tal senso essa va quotidianamente vissuta. Un fatto s’impone. Un’idea chiede che essa sia costantemente pensata e in tal senso Ernest Renan aveva perfettamente ragione nell’affermare che «la nazione è un plebiscito di tutti i giorni».

Ma, per praticare un plebiscito del genere, bisogna pur sapere di cosa si sta parlando. E poiché il nucleo dell’attuale messa in discussione dell’Italia si fonda — in modo assai confuso — sulle regioni, parliamo delle regioni.

E parliamone storicamente. Storicamente perché le regioni evolvono, mutano. Sarà opportuno risalire a Flavio Biondo e alla sua Italia illustrata della metà del Quattrocento.

In quell’opera, Biondo «si attenne, con i necessari adattamenti nella nomenclatura, all’unica struttura autorizzata dalla tradizione romana. Esiste dunque anzitutto l’Italia, entro di essa esistono diciotto regioni, escluse le isole, e finalmente entro ciascuna regione innumerevoli città e borghi» (Dionisotti).

Un secolo più tardi Leandro Alberti proponeva nella sua Descrittone di Italia la stessa problematica del Biondo e aveva — proprio forse grazie ai suoi intenti dichiaratamente divulgativi e all’uso della lingua italiana — il successo che era mancato al Biondo.

La vulgata albertiana è persistita a lungo. Ma dimenticando una lezione fondamentale che Leandro Alberti aveva avuto cura di offrire: le regioni — egli dice — mutano «seconda le occorrentie de’ tempi». Ancora una lezione — e che lezione! — andata persa e che è fondamentale recuperare.

Sono dunque le «occorrentie de’ tempi» attuali, quelle che si sono venute formando nei secoli ma soprattutto quelle degli ultimi quarant’anni, che dobbiamo prendere in esame se vogliamo parlare del problema delle regioni con un minimo di concretezza.

Che sia certamente necessario riaccorpare le regioni d’Italia non v’è dubbio. Io confesso di non sapere quante e come organizzate debbano essere domani le varie regioni d’Italia, ma per decidere mi sembra si debbano prendere in esame le reali «occorrentie de’ tempi». Tra queste la più importante è di certo quella che ci presenta l’esistenza di un mercato nazionale italiano.

A metà dello scorso secolo il Piemonte, certo, era economicamente più integrato alla Francia che alla Sicilia.

E quest’ultima era integrata più all’Inghilterra che alla Lombardia. Insomma, i vincoli che univano le differenti parti d’Italia fra di loro erano molto labili.

Una certa Italia economica si è venuta formando lentamente, più lentamente ancora di quanto credette Emilio Sereni nei suoi pioneristici studi sulla formazione del mercato nazionale.

Tuttavia i coefficienti di integrazione sono divenuti abbastanza buoni nell’ultimo mezzo secolo.

Oggi, in modo totalmente incosciente, si rischia di spaccare tutto quello che si è venuto faticosamente costruendo. «Piccolo è bello» si dice.

E si fanno calcoli pretesamente scientifici per dimostrare che talune regioni italiane, senza il «peso» dell’arretratezza di altre regioni, costituirebbero lo spazio economico più ricco d Europa. Il che è insieme vero e sciocco.

E ciò perché economia e statistica sono scienze più complesse che semplici divisioni, addizioni, sottrazioni. Infatti, si dimentica che calcoli del genere si possono fare per tanti altri paesi: se dalla Francia si isolasse la Corsica e la parte mediterranea del paese, avremmo di certo una Francia più ricca. Stesso discorso se, per esempio, si separasse l’Olanda dalla Zelanda.

Sprechi economici in talune regioni d’Italia? E come negarlo? Ma non ci si può limitare a questa considerazione così semplicistica.

Perché non va mai dimenticato che l’economia è un fatto di circolazione e di circolarità. Potrei qui introdurre l’apologo di Menenio Agrippa sull’utilità di tutte le parti del corpo per il funzionamento della macchina uomo: ma non mi sembra tempo di apologhi.

Sarà però utile ricordare che nel secolo XVIII (ed ancora nel secolo XIX), nel forgiarsi dell’idea stessa di nazione interveniva con frequenza (per esempio in Robertson) l’espressione «corpo di nazione» proprio a ricordare che la nazione non era un uno indivisibile, ma un corpo articolato, di distinte proporzioni.

Ritorniamo, dunque, al problema delle regioni poiché è certo che intorno a questo si risolverà (o non si risolverà) l’avvenire d’Italia.

Un utile punto di partenza può essere un documento proposto dalla Fondazione Agnelli, Nuove regioni e riforma dello stato. Un documento fondamentale per più ragioni:

a) in forma concreta rompe taluni schemi tradizionali di interpretazione delle lacerazioni del nostro paese: solo quattro delle attuali regioni (Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna) ricevono dallo stato meno di quel che danno. E ciò pone il problema seguente:

b) come mai Piemonte e Valle d’Aosta, così vicini l’uno all’altro, presentano andamenti così diversi: +1.100–000 per il primo; -8.217.000 per la seconda (il record italiano)?

c) una domanda del genere mette in movimento un primo approccio di soluzione su quella che può, deve essere la taglia (demografica e territoriale) delle nuove regioni (ne vengono proposte dodici).

Io riassumo male l’estrema e concentrata ricchezza di questo documento. Esso mi sembra veramente persuasivo anche perché, pur essendo molto «italiano», non perde mai di vista i termini di una concreta (e sottolineo concreta) preoccupazione in rapporto all’integrazione economica europea.

Tuttavia vorrei esprimere una riserva che non intacca in nessun modo la struttura stessa del documento e delle sue proposte.

È noto l’episodio del mugnaio di Potsdam che chiede all’imperatore in persona: «ci sarà pure un giudice, una legge a Berlino?».

Questo aneddoto è portato spesso ad illustrazione della monarchia illuminata, della sua disponibilità ad ascoltare le lamentele dei sudditi. Ma debbo dire che non mi ha mai convinto, e ciò perché le sole leggi — per quanto perfette — significano poco senza i giudici che le applichino.

Così, l’Italia — notoriamente «culla del diritto» — è, non meno notoriamente, «tomba della giustizia». E mi sembra che l’aneddoto del mugnaio di Potsdam vada completato con quello che si riferisce ad un cittadino svizzero, Hans Conrad Enche von der Linth, che al suo rientro in patria da Roma diceva: «da noi non occorre lasciarsi intorpidire dalle delizie delle Belle Arti.

Da noi, il filantropo si sente sempre a suo agio ammirando in tutta libertà l’uomo e il cittadino nel suo spazio reale; e un giudice onesto [corsivo mio] vale più di un Raffaello».

Questa frase costituisce uno dei paradigmi del dibattito che ha impegnato gli intellettuali svizzeri, da Hans von Greyerz a Marc Debrit, a Max Frisch, sul Discorso estetico dello stato nazionale, come recita il titolo di un bell’articolo di Hans Ulrich Jost. Ma mi sembra che essa contenga una sua forte lezione: non si tratta solo di leggi e di giudici ma, al fine e al capo, dell’onestà del giudice.

Il documento della Fondazione Agnelli indica bene, nelle parole introduttive di Marcello Pacini, che siamo di fronte «a tre grandi emergenze nazionali, quella economica, quella politico-giudiziaria, quella dell’ordine pubblico». E non si può non essere d’accordo.

Ma, a mio avviso, resta un’altra crisi: quella morale. Dove sono i «giudici onesti» per gestire nei fatti le nuove proposte, quali che esse siano?

Quando dico giudici intendo non i soli magistrati (i quali, forse, nello sfascio generale, sono i più onesti in circolazione).

Parlo di tutta la classe dirigente italiana e per l’ennesima volta dico, ripeto e confermo che essa è putrefatta da cinque secoli. Il nodo di tutte le questioni è lì, non altrove. La mia angoscia è la seguente: lo schema proposto delle dodici regioni sarà anche eccellente. Bene, ma chi lo fa funzionare?

Nel riaccorpamento delle nuove regioni riaccorperemo anche il vecchio personale politico-amministrativo delle vecchie regioni?

In tal caso, non credo che le cose muteranno molto e avremo una semplice clonazione del passato. Persiste dunque il vecchio, vecchissimo, problema della selezione di un nuovo personale dirigente italiano.

Personalmente, sono convinto che la materia prima esista in Italia. Ma confesso di non vedere quale sia il meccanismo di selezione che ne consenta l’emergere. Chiedo scusa per questo mio pessimismo. E mi domando se anche in esso non sia possibile riscontrare una ragione supplementare per cui non possiamo non dirci italiani, tutti.

Testo di una conferenza tenuta alla Fondazione Agnelli il 15 dicembre 1993, in Ruggiero Romano, Paese Italia. Venti anni di identità, Donzelli, Roma, 1997, pp. 4–19

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet