Pasolini e la questione della lingua
Introduzione di Gian Carlo Ferretti al dibattito del 1964
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Intuizioni illuminanti
Il saggio del 1964 sulle Nuove questioni linguistiche fu ampiamente e vivacemente discusso al suo primo apparire perché contiene una serie di intuizioni illuminanti e per l’implicito valore di personale dichiarazione di poetica e di lunga prospettiva di ricerca (esplicitato in parte dallo stesso Pasolini nella nota di accompagnamento). Questo aspetto infatti va colto anzitutto nel saggio, al di là di forzature e approssimazioni, contraddizioni e ambiguità, talora corrette e talora confermate con scritti in varie sedi, e riguardanti anche gli sviluppi meno convincenti della originale metodologia pasoliniana, fondata fin dagli anni cinquanta anche sul nesso tra problemi della lingua e problemi della società.
Pasolini parte dalla diagnosi della crisi di un’intera fase di ricerca della letteratura italiana contemporanea (quella degli anni cinquanta, in particolare), che si manifesta tra l’altro nella incapacità a creare «i presupposti di una lingua nazionale». I profondi mutamenti della società che hanno determinato questa crisi, hanno altresì determinato secondo Pasolini un nuovo panorama sociolinguistico: e precisamente un’accentuata tecnicizzazione e strumentalizzazione del linguaggio, che trova esempi nel giornalismo scritto, nella televisione, nei discorsi politici ufficiali, oltre che ovviamente nella pubblicità, e che vede «la prevalenza assoluta della comunicazione» sull’espressione.
L’omologazione del linguaggio
Pasolini riconduce il fenomeno a un fondamentale «principio unico, regolamentatore e omologante di tutti i linguaggi nazionali», che emanerebbe dal processo di trasformazione tecnologica e industriale capitalistica, e che sottintenderebbe l’avvento di una nuova borghesia egemone. L’unificazione linguistica operata da quel principio omologatore, sottintenderebbe insomma l’unificazione sociale operata da questa classe.
Nella replica del Diario linguistico Pasolini accentua le implicazioni ideologiche e politiche del suo discorso, ipotizzando tra l’altro una situazione conflittuale ancora aperta tra forze neoborghesi e forze marxiste, per il «possesso» e «futuro» del linguaggio tecnologico: «segnaletico», «inespressivo», «ciecamente pragmatico», o «umanistico, espressivo», liberatorio.
Molte e spesso pertinenti le obiezioni mosse a Pasolini negli scritti successivi di “Rinascita”, che sono comunque interessanti nella loro autonomia (discutano essi, o meno, le tesi pasoliniane): dall’articolo introduttivo sulle implicazioni storiche, sociali, politiche, educative del problema, al saggio di Calvino sulla comunicazione come «traducibilità»; dalle riflessioni di Sereni sulla sua esperienza di poeta, a quelle di Vittorini sulla «lingua internazionale»; dalle due note «senza virgole» di Fortini, allo scritto di Spinazzola su lingua e film, agli interventi, rispettivamente sociologico e linguistico, ai Spinella e Rosiello, a quelli non riprodotti qui.
La crisi della cultura degli anni ’50
Ma più che riprendere i termini specifici delle Nuove questioni linguistiche e del dibattito relativo, merita attenzione la lucida presa di coscienza, da parte di Pasolini, di una irreversibile crisi della cultura, letteratura e linguaggi degli anni cinquanta, e alcuni spunti che, al di là di un certo difensivismo umanistico-tradizionale e letterario-espressivo, si presentano come chiarimenti della sua ricerca presente e anticipazioni di quella futura.
Un suo scritto ai questi mesi sul “Giorno”, s’intitola significativamente: Lo ripeto, io sono in piena ricerca.
Di particolare interesse, nel saggio del 1964, la sottolineatura di un’istanza agonistica, e per così dire competitiva dentro la nuova situazione e condizione linguistica, sociale e politica. «Per un letterato italiano», conclude infatti Pasolini, «la questione si pone in modo più radicale: l’imparare l’abc di una lingua, con tutto ciò che questo implica: prima di tutto il non temere la concorrenza del linguaggio tecnologico, ma l’impararlo, l’appropriarsene».
E ancora: «In seno a questa nuova realtà linguistica, il fine della lotta del letterato sarà l’espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell’uomo rispetto alla sua meccanizzazione». Un possesso e una lotta che presuppongono la piena conoscenza e chiara coscienza della «realtà nazionale che produce» quel linguaggio.
L’azione distruttrice del capitalismo
Sono dichiarazioni che non vanno intese soltanto nel loro significato letterale, ma che prendono luce anzitutto da altre interviste e scritti del 1965 (apparsi sulla “Fiera letteraria”, sul “Giorno” e altre sedi), nelle quali Pasolini parte dalla «dolorosa» presa di coscienza dell’«orrendo futuro tecnologico» preparato da quel processo di trasformazione capitalistica, per riaffermare la necessità di misurarsi con la nuova realtà.
In particolare Pasolini sembra voler portare la cupa ironia e il disperato sarcasmo che in Poesia in forma di prosa aveva rivolto contro il capitalismo corruttore degli anni sessanta, sullo stesso specifico terreno linguistico; come può far pensare il riconfermato progetto (in versi e scritti e interviste che vanno dal 1963 al ’65) di un rifacimento della Commedia dantesca in cui il Paradiso del cosiddetto neocapitalismo venga ironicamente esposto «in una lingua italiana futura: puramente comunicativa, col suo principio unificatore e omologatore tecnologico». Dovranno passare comunque dieci anni prima che quell’opera, o meglio i ««frammenti infernali» di essa, vedano la luce in un’edizione postuma, La Divina Mimesis (1975).
La lotta al linguaggio tecnologico
Ma la metafora della «lotta» dentro il linguaggio tecnologico (in quegli scritti), e il Pasolini-Dante che nel 1963 immagina di trovarsi nella «selva oscura» della degradazione neocapitalistica (nella Divina Mimesis), prendono luce l’una dall’altro, e sembrano anticipare qualcosa d’altro e di più: non pochi tratti cioè del Pasolini «corsaro», con le sue «scandalose» requisitorie contro i guasti del capitalismo maturo, tra nostalgia regressiva e acuta diagnosi (e in parte anche del Pasolini della Nuova gioventù e di Salò, 1975).
In questo senso, è molto significativo l’intervento al Festival dell’Unità di Milano nel 1974 [in questa serie], dove Pasolini mette in stretto rapporto la «discesa agli inferi» della Divina Mimesis (cui è tornato a lavorare) e la denuncia del «genocidio» (che è il tema di fondo dei suoi contemporanei interventi giornalistici), e dove toma a parlare anche di un’omologazione linguistica intesa ormai come sinonimo di distruzione.
Da: Dialoghi con Pasolini. Scritti 1957-1984, a cura di Alberto Cadioli, Roma, Editrice «l’Unità», 1985 pp. 6-9