Nuovi media: parolai e vanagloriosi
Karl Kraus, il primo a capire la modernità
di Jonathan Franzen
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [luglio 2019]
Pubblichiamo di seguito la traduzione italiana a cura di Elisa Badocco dell’articolo di Jonathan Franzen pubblicato sul quotidiano “The Guardian”. Lo scrittore americano confessa di provare di fronte ai nuovi media una contrarietà totale e di rabbrividire quando un romanziere come Salman Rushdie, che dovrebbe avere un po’ più di giudizio, soccombe a Twitter. La sua profezia sui nuovi media è veramente apocalittica: mentre noi ce ne stiamo lì a twittare, a mandarci messaggini e a fare acquisti online, il mondo sta scivolando verso la catastrofe. Scrive: “Viviamo un apocalittico momento storico, saturo di media, pazzo per le tecnologie”. L’angoscia di Franzen per il nostro insaziabile tecnoconsumismo echeggia i saggi apocalittici dell’autore satirico Karl Kraus — “il Grande Odiatore”, a cui lo scrittore di New York ha dedicato il suo ultimo saggio.
Karl Kraus il grande odiatore
Karl Kraus era un autore satirico austriaco, una figura centrale della Vienna di fine secolo e della particolare ricchezza intellettuale che vi si respirava in quel periodo. Dal 1899 fino alla sua morte, avvenuta nel 1936, egli redasse e pubblicò l’autorevole rivista Die Fackel (La Torcia); dal 1911 in poi fu anche l’autore unico della rivista.
Anche se molto probabilmente Kraus avrebbe odiato i diari messi in rete, Die Fackel aveva molte delle caratteristiche di un blog e chiunque rivestisse una qualche importanza nel mondo germanofono di allora, da Freud a Kafka a Walter Benjamin, si sentiva in obbligo di leggere e di farsi un’opinione sui suoi scritti. Kraus era noto in particolare per i suoi aforismi, come ad esempio:
La psicanalisi è quella malattia della mente che ritiene di esserne invece la cura.
Nel pieno della sua notorietà, riusciva ad attirare migliaia di persone ad assistere alle sue letture in pubblico.
Il problema con Kraus è che è molto difficile da seguire a una prima lettura, volutamente difficile. Kraus era la maledizione della stampa usa-e-getta e, per i suoi fedelissimi, il suo stile denso e intricato costituiva un’utile barriera all’accesso, in grado di tenere lontani i non-iniziati. Kraus stesso, prima di attaccare il commediografo Hermann Bahr, commentò: “Se capisce una sola frase di questo saggio, ritiro tutto.”
Se leggerete le frasi di Kraus più di una volta, troverete che hanno molto da dire anche adesso, a noi che viviamo in questo apocalittico momento storico, saturo di media, pazzo per le tecnologie.
Ecco, per esempio, il primo paragrafo del suo saggio: Heine e le Conseguenze:
Due sono le varietà della volgarità intellettuale: la mancanza di difesa dal contenuto e la mancanza di difesa dalla forma. La prima vive solo il lato materiale dell’arte ed è di origine germanica. L’altra vive in modo artistico anche l’aspetto più materiale delle cose ed è di origine romanza. [Romanza qui significa “di lingua romanza” cioè francese o italiana]. Per la prima l’arte è uno strumento, per la seconda la vita è un ornamento. In quale inferno preferirebbe bruciare l’artista? Certamente preferirebbe vivere tra i germanici. Perché questi, sebbene abbiano ormai legato l’arte al letto di Procuste dei loro commerci, hanno anche reso la vita più sobria e questa sì che è una benedizione: la fantasia fiorisce e chiunque può esporre la propria luce contro un telaio di finestra vuoto. Ma risparmatemi i nastri e i fronzoli! Risparmiatemi il buon gusto che lassù e laggiù delizia l’occhio ma irrita l’immaginazione! Risparmiatemi questa melodia della vita che disturba la mia musica interiore, la quale si esprime solo nel ruggito di una giornata di lavoro tedesca. Risparmiatemi questo universale, superiore livello di raffinatezza che ci fa capire che il giornalaio di Parigi ha più fascino dell’editore prussiano.
Francia e Germania. Mac e Windows
Prima nota a pié di pagina: l’idea di Kraus della “melodia della vita” in Francia e in Italia è ancora valida. La sua contestazione — che camminare per una strada di Parigi o di Roma sia già di per sé un’esperienza estetica — è confermata dalla continua popolarità di Francia e Italia come destinazioni per le vacanze e dal tono “invidiami” dei francofili e italofili americani quando raccontano che andranno in vacanza in quei paesi. Se raccontate che state per fare un viaggio in Germania, dovrete probabilmente spiegare per quale particolare motivo pensate di andarci, altrimenti gli interlocutori potrebbero chiedersi come mai non andate in un qualche altro posto dove la vita sia bella.
Anche adesso la Germania insiste sul contenuto piuttosto che sulla forma. Se il concetto di coolness fosse già esistito ai tempi di Kraus, egli avrebbe potuto dire che la Germania non è cool. Ciò ci porta a una versione più contemporanea della dicotomia di Kraus: il Mac contro il PC. Forse che la quintessenza dei prodotti Apple non è di renderci cool solo per il fatto di possederli?
Addirittura, quello che fai sul Mac Air non ha proprio importanza. Già usare Mac Air, percepire l’elegante design del suo hardware e del suo software è di per sé un piacere, proprio come passeggiare per una strada di Parigi. Al contrario, quando lavoriamo su un PC qualunque, goffo e utilitaristico, l’unico godimento che abbiamo sta nel lavoro che stiamo facendo. Proprio come dice Kraus quando parla della vita in Germania, il PC comune “abbassa” quello che stiamo facendo; mostra se stesso senza fronzoli. Ciò era particolarmente vero nei primi anni d’introduzione dei sistemi operativi DOS e all’inizio dell’era Windows.
Uno degli sviluppi che Kraus criticava in quel saggio, la caratteristica tutta viennese di adornare la lingua e la cultura tedesche con elementi decorativi importati dalla cultura e dalle lingue romanze, presenta un correlativo nelle versioni più recenti di Windows, che riprendono alcune caratteristiche di Apple senza riuscire a nascondere la loro “Windowesità” di fondo, il loro essere uncool. Peggio ancora, nell’inseguire l’eleganza di Apple, tradiscono la bellezza primitiva e austera della funzionalità del PC. Ancora non funzionano bene come il Mac e in più sono brutti, per gli standard di tendenza così come per quelli utilitaristici.
Eppure, per citare Kraus, preferirei ancora vivere tra i PC. Ogni possibilità di passare ad Apple mi è stata negata dalla famosa e prolungata serie di messaggi pubblicitari di Apple volti a persuadere gente come me a passare al Mac [Si riferisce alla campagna pubblicitaria “Get a Mac” lanciata tra il 2006 e il 2009 negli USA, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Regno Unito e Giappone]. L’argomentazione era assolutamente ragionevole, ma era espressa da un Mac personificato (impersonato dall’attore Justin Long) di una spocchiosità talmente insopportabile da rendere, al confronto, le tristezze di Windows assolutamente attraenti.
Non vorreste mai leggere un romanzo che parli del Mac: che cos’altro ci sarebbe da dire se non che tutto è così trendy? I personaggi dei romanzi devono esibire dei desideri concreti. Ma, nella pubblicità della Apple, il personaggio che manifestava dei desideri era il PC, impersonato da John Hodgman. I suoi tentativi di difendersi e di apparire figo erano divertenti e lui soffriva, proprio come un essere umano. In giro per il mondo c’erano diverse versioni locali di questa pubblicità, in Inghilterra erano i comici David Mitchell e Robert Webb ad interpretare, rispettivamente, il PC e il Mac).
Non sarei corretto se non aggiungessi che il concetto di cool è stato cooptato a tal punto dalle industrie tecnologiche che è diventato necessario spendere delle parole in più, come per esempio hip (di moda), per descrivere i commenti online che hanno finito per detestare Long e per considerare Hodgman “quello figo”. L’irrequietezza con cui si spiega chi e che cosa è considerato hip al giorno d’oggi potrebbe essere un’eredità di ciò che Marx identificava come l’“irrequieta” natura del capitalismo. Uno degli aspetti peggiori di internet è che invoglia chiunque a essere sofisticato, a prendere posizione su quello che è hip e a prendere in considerazione, pena l’essere considerato “fuori moda”, la posizione che chiunque altro nel frattempo prende. Forse Kraus non si è mai preoccupato di “essere di moda” ma certamente godeva nel prendere posizione ed era fortemente in armonia con le posizioni di alcuni altri critici. Kraus era sofisticato, per questo e soltanto per questo.
Die Fackel ha un’aria da blog. Kraus passava molto tempo a leggere il materiale che odiava, in modo da poterlo odiare con autorità.
Credetemi, voi tutti che amate riempirvi gli occhi di colore, nelle culture in cui ogni zuccone ha una propria individualità, l’individualità diventa una cosa per zucconi.
Seconda nota a piè di pagina: Al giorno d’oggi non ci si può permettere di dire queste cose in America e non importa fino a che punto te lo chieda i miliardi (o forse ormai sono trilioni?) di pagine Facebook “personalizzate”. Ai suoi tempi Kraus era noto ai suoi nemici come “il Grande Odiatore”. Tuttavia, secondo molte testimonianze, in privato era tenero e generoso e aveva molti amici fedeli. Ma non appena si metteva a inanellare frasi di retorica polemica, sapeva toccare registri davvero aspri.
Gli “zucconi” individualizzati a cui pensava Kraus non erano l’uomo comune, il popolino. Sebbene potesse sembrare elitario, Kraus non si occupava di denigrare le masse o la cultura senza grandi pretese; la calcolata difficoltà dei suoi scritti non era una barricata contro i barbari. Al contrario, era rivolta alle autorità della cultura, illuminate e istruite, che adottavano un tipo di individualità ipocrita — gente che, secondo Kraus, avrebbe dovuto avere un po’ più di giudizio. Che il grido di Kraus, le denunce ex cathedra, fossero la maniera più efficace per cambiare il cuore e la mente delle persone non risulta poi così chiaro.
Ma confesso di provare un certo disappunto quando un romanziere che, secondo me dovrebbe essere più giudizioso, Salman Rushdie, soccombe a Twitter. Oppure, quando una rivista cartacea impegnata politicamente e che io rispetto, “N+1”, denigra le riviste cartacee definendole “maschili” mentre celebra internet in quanto “femminile”, e in qualche modo trascura di considerare la rapidissima pauperizzazione degli scrittori freelance che scrivono su internet. Oppure quando dei bravi professori di sinistra, che un tempo riuscivano a resistere all’alienazione — che criticavano il capitalismo per il suo assalto incessante alle tradizioni e a ogni comunità che volesse continuare a seguire la propria strada — cominciano a definire internet ”rivoluzionario” in quanto privatizzato.
Risparmiatemi la pittoresca fatica di scavare nella scorza del gorgonzola invece di affidarmi alla bianca monotonia di una crema di formaggio! La vita è dura da digerire sia qui sia lì, ma la dieta romanza abbellisce lo spreco; inghiotti l’esca e finisci a pancia all’aria. Il regime tedesco, invece, guasta la bellezza e ci mette alla prova: come possiamo ricrearla? La cultura romanza, al contrario, fa di ciascuno di noi un poeta. L’arte, in quei luoghi, è una fetta di torta. E il Paradiso un inferno.
La Vienna di Kraus è come l’America?
Nascosta in questo paragrafo possiamo veder baluginare l’implicazione che la Vienna di Kraus stesse esattamente nel mezzo, esattamente come Windows Vista. La lingua e l’orientamento erano tedeschi, ma Vienna era anche la co-capitale di un impero cattolico romano che si estendeva verso il sud dell’Europa ed era innamorata dell’idea stessa dell’affascinante spirito e stile di vita viennesi. (“le strade di Vienna sono pavimentate di cultura — suona un altro degli aforismi di Kraus — quelle delle altre città sono asfaltate.” )
Per Kraus, il supposto fascino culturale di Vienna era un velo di ipocrisie steso al di sopra di contraddizioni che presto si sarebbero rivelate catastrofiche, contraddizioni che egli tendeva a smascherare con la sua satira. Questo paragrafo può suonare più pesante per la cultura latina che per quella germanica, ma in realtà Kraus amava andare in vacanza in Italia, dove ebbe alcune delle sue esperienze più romantiche. Per lui il luogo con la cesura più pericolosa tra forma e contenuto era proprio l’Austria che, mentre si stava modernizzando, manteneva comunque dei modelli politici e sociali tipici dei primi anni del 19° secolo. Kraus era ossessionato dal ruolo svolto dai giornali moderni nell’occultare le contraddizioni. Come le riviste di Hearst in America, la stampa borghese di Vienna aveva un’influenza politica e finanziaria immensa, ed è stato dimostrato che era anche corrotta. Trasse grandi vantaggi dalla Prima Guerra Mondiale e fu molto utile nel sostenere i miti viennesi più affascinanti, come “la morte dell’eroe”, durante un lungo periodo di massacro meccanizzato. La Grande Guerra costituiva, per l’Austria, proprio quell’apocalisse che Kraus andava profetizzando e lui continuava a ironizzare sulla complicità della stampa in tutto questo.
Quindi, nel 1910, Vienna era un caso speciale. Eppure, si potrebbe sostenere che anche l’America è così: un altro impero indebolito che si racconta delle storie sulla sua eccezionalità mentre scivola via, alla deriva, verso un’apocalisse di qualche tipo, fiscale o epidemiologca, climatico-ambientale o nucleare. La nostra estrema sinistra può anche odiare la religione e pensare che viziamo Israele, la nostra estrema destra può anche odiare gli immigrati illegali e pensare che noi coccoliamo un po’ troppo la gente e nessuno può veramente sapere come funzioni l’economia adesso che c’è la globalizzazione dei mercati, ma l’effettiva sostanza del nostro vivere quotidiano è una totale follia. Non riusciamo ad affrontare i veri problemi; abbiamo speso un trilione di dollari per non riuscire a risolvere in Iraq un problema che non era affatto un problema; non riusciamo nemmeno a trovare un accordo su come impedire che le spese per l’assistenza sanitaria ci divorino il PIL. Tutto quello che riusciamo a fare è dedicarci anima e corpo alle nuove tecnologie e ai nuovi media, tutti ovviamente cool, a Steve Jobs e Mark Zuckerberg e Jeff Bezos, e permettere loro di guadagnare a spese nostre. La nostra situazione ha davvero molte analogie con la Vienna del 1910, a parte il fatto che la tecnologia dei giornali è stata sostituita dalla tecnologia digitale e il fascino viennese dalla coolness americana.
Consideriamo il primo paragrafo di un altro saggio di Kraus: Nestroy e la Posterità. Il saggio è evidentemente una celebrazione di Johann Nestroy, una figura chiave dell’Età d’Oro del teatro viennese, nella prima metà del XIX secolo. Al momento della pubblicazione nel 1912, Nestroy era sottostimato, scarsamente letto e sostanzialmente dimenticato e Kraus considerava quest’oblio un sintomo di quel che c’è di sbagliato nella modernità. Nel suo saggio Apocalisse, scritto pochi anni prima, diceva:
La cultura non può prendersi delle pause: alla fin fine, essa trova un’umanità morta accanto alle sue opere, la cui invenzione ci è costata una parte così grande del nostro intelletto, che non ce n’è rimasto nemmeno un po’ per poterle utilizzare. Siamo stati abbastanza complicati da saper costruire delle macchine, ma troppo primitivi per farne dei servitori.
Secondo me, la cosa più impressionante sul pensatore Kraus può essere la rapidità e la chiarezza con cui riconobbe
l’allontanamento del progresso tecnologico dal progresso morale e spirituale.
La vacuità dei progressi tecnologici
Dopo un solo secolo, un secolo di progressi scientifici che fino a poco tempo fa sarebbero sembrati miracolosi, il risultato sono dei video in alta risoluzione su smartphone con dei tizi che mettono delle Mentos dentro a delle bottiglie da un litro di Diet Pepsi esclamando “basta!”. I tecnovisionari degli anni ’90 del novecento promettevano che internet avrebbe dato il via a un mondo di pace, d’amore e di comprensione e i dirigenti di Twitter stanno ancora battendo il tamburo dell’utopia, rivendicando un merito fondativo sulla primavera araba. Ad ascoltarli, si penserebbe che sia inconcepibile che l’Europa dell’Est sia riuscita a liberarsi dai Sovietici senza ricorrere ai cellulari, o che un gruppetto di Americani si sia potuto rivoltare contro gli Inglesi e abbia potuto produrre la Costituzione americana senza avere neanche 4 giga di capacità!
Nestroy e la Posterità comincia così:
Non possiamo celebrare la sua memoria nel modo in cui dovrebbero celebrarla i posteri, riconoscendo che abbiamo un debito che siamo chiamati ad onorare, quindi vogliamo celebrarne la memoria ammettendo una bancarotta che disonora noi, abitanti di un tempo che ha perduto la capacità di essere posterità… Come ha fatto l’Eterno Costruttore a non imparare dalle esperienze di questo secolo? Perché, finché ci sono stati dei geni, questi sono stati collocati in un determinato tempo come inquilini provvisori, fintantoché si asciugava l’intonaco. Essi se ne sono poi andati, lasciando un mondo più comodo per tutta l’umanità. Invece, fintantoché ci sono stati degli ingegneri, la casa è diventata sempre meno abitabile. Dio abbia pietà dello sviluppo! Sarebbe meglio che Egli non facesse nascere gli artisti, piuttosto che darci la consolazione e l’idea che questo nostro futuro sarà migliore perché prima di noi sono vissuti gli artisti. Questo mondo! Immaginiamoci di vederlo come lo vedrebbe uno dei nostri posteri e, di fronte all’insinuazione che il progresso si debba a una deviazione della Mente, lo vedremo scoppiare in una risata come quella che si fa quando si dice: “Sempre più Dentisti Preferiscono il Pepsodent!” Una risata basata su un’idea di Roosevelt e orchestrata da Bernard Shaw. È la risata che scoppia per ogni cosa e può fare qualunque cosa. Perché i tecnici hanno bruciato i ponti e il futuro è: qualunque cosa automaticamente ne derivi.
Al giorno d’oggi il ritornello è “non c’è modo di bloccare le potenti, nuove tecnologie”.
Una resistenza popolare generalizzata nei confronti di queste tecnologie si limita praticamente alle questioni di salute e di sicurezza; nel frattempo, continuano a dispiegarsi automaticamente diverse logiche — di teoria della guerra, di tecnologia, di mercato.
Ci troviamo a vivere in un mondo dotato di bombe all’idrogeno semplicemente perché le bombe all’uranio non avrebbero fatto bene il loro mestiere; ci troviamo a spendere la maggior parte delle ore di veglia a chattare e inviare e-mail e twittare e postare dei gadget su uno schermo a colori, perché la legge di Moore dice che lo possiamo fare. Ci dicono che, per rimanere competitivi dal punto di vista economico, dobbiamo dimenticarci della cultura umanistica e insegnare ai nostri figli la “passione” per la tecnologia digitale e prepararli a passare la loro intera vita a rieducarsi costantemente per tenersi al passo con le tecnologie. Questa logica sostiene che se vogliamo delle cose di Zappos.com o le competenze di Home DVR (e chi non le vorrebbe?), dobbiamo dire addio ad un lavoro stabile e accettare una vita piena di ansia. Dobbiamo diventare irrequieti come lo stesso capitalismo.
Non solo io non sono un luddista. Non sono nemmeno sicuro che fossero luddisti i primi Luddisti (semplicemente, a loro sembrava funzionale spaccare i telai a vapore che li estromettevano dal mercato del lavoro). Ogni giorno passo la giornata a usare software e chip e resto incantato davanti a tutto quello che riguarda il mio nuovo computer ultrabook Lenovo, ad esclusione del nome (lavorare su qualcosa chiamato IdeaPad mi spinge a rifiutare di avere delle idee). Tuttavia, non tanto tempo fa, quando ero ancora abbastanza inclemente da definire Twitter “ottuso” in pubblico, i drogati da Twitter ribattevano chiamandomi Luddista. Già, già, già!
Era come se avessi detto che era “stupido” fumare sigarette, tranne che in quel caso non avrei avuto prove mediche a supporto di quanto dicevo. Per un certo periodo, la gente si è preoccupata del fatto che i cellulari avrebbero potuto causare il cancro al cervello, ma il legame tra telefonino e questo problema si è poi rivelato così basso da essere quasi inesistente e adesso nessuno se ne preoccupa più.
Questa rapidità non si rende conto che questa conquista è importante solo in quanto sfugge a se stessa. Presente fisicamente, repellente nello spirito, perfetto proprio perché è così, questo nostro tempo spera di essere surclassato dai tempi futuri e che i bambini, nati dall’unione tra sport e macchina e nutriti a giornali, sapranno ridere ancora di più… Non si riesce a spaventarlo; se dovesse apparire uno spiritello, un genio della lampada, la parola d’ordine sarebbe: abbiamo già tutto quello che vogliamo. Incastra la scienza in modo tale da garantirsi un isolamento ermetico da qualunque cosa venga dall’oltre. Questa cosa che, da sola, si dà il nome di mondo perché gira attorno a se stessa in 50 giorni, rimarrà finita fintantoché potrà fare della matematica. A guardare dritta negli occhi la domanda “E poi?” essa ha ancora abbastanza fiducia in se stessa da valutare quel che non ha senso. E il cervello fa fatica a capire che il giorno della grande siccità è arrivato. Poi l’ultimo organo si zittisce, ma l’ultima macchina continua a ronzare sempre più piano, finché anch’essa smette di funzionare, perché il suo operatore ha dimenticato la Parola. Perché l’intelletto non era riuscito a capire che, in assenza di uno spirito, sarebbe potuto crescere abbastanza bene nell’ambito della sua generazione, ma avrebbe perso la capacità di riprodursi. Se per davvero due per due fa quattro, il modo con cui lo dicono dipende dal fatto che Goethe ha scritto il poema Calma di Mare. Ma adesso la gente conosce quale sia il prodotto di due per due con tale esattezza che tra cento anni non sarà più in grado di comprenderlo. Dev’essere penetrato nel mondo qualcosa che prima non esisteva. Un’infernale macchina di umanità.
Di tutte le righe scritte da Kraus, questa è probabilmente quella che per me ha avuto il massimo significato. In questo passaggio Kraus evoca l’Apprendista Stregone — l’involontario scatenamento di conseguenze soprannatuali distruttive. Sebbene lui si riferisca alla stampa moderna, le sue critiche si applicano, se possibile, ancora meglio al tecnoconsumismo contemporaneo.
Per Kraus, l’aspetto infernale dei giornali era l’accoppiamento fraudolento degli ideali illuministici con l’incessante perseguimento di profitti e di potere da essi perpetrato.
Con il tecnoconsumismo, una retorica umanistica di “legittimazione” e di “creatività” e “libertà” e “connessione” e “democrazia” favorisce il franco monopolismo dei tecnotitani.
È sempre più evidente che la nuova macchina infernale sembra non obbedire più a niente che non sia la sua logica di sviluppo e che sia molto più schiavizzante e causa di dipendenza e molto più compiacente riguardo ai peggiori impulsi dell’uomo di quanto i giornali non siano mai stati. In effetti, quello che Kraus disse in seguito su Nestroy si potrebbe applicare adesso a Kraus stesso: “Attacca il suo limitato circondario con un’asprezza meritevole di altra causa.”
I profitti e la portata della stampa viennese erano infelicemente bassi per gli standard dei giganti dei media e della tecnologia odierni. Il mare di dati banali o falsi o vuoti è attualmente milioni di volte più grande. Kraus era soltanto predittivo quando immaginava un giorno in cui la gente avrebbe dimenticato come fare le addizioni o le sottrazioni; al giorno d’oggi è difficile completare un pranzo con amici senza che qualcuno prenda in mano un iPhone per recuperare un qualche dato che una volta toccava al cervello ricordare.
I fautori delle tecnologie, naturalmente, non ci vedono niente di male. Essi fanno notare che gli esseri umani hanno sempre dato in appalto la loro memoria — ai poeti, agli storici, ai coniugi, ai libri.
Tuttavia, io sono sufficientemente figlio degli anni ’60 per capire la differenza tra il lasciar ricordare alla propria moglie la data del compleanno dei nipoti e il trasferire le funzioni di base della memoria a un sistema di controllo societario globale.
Un’invenzione in grado di frantumare il Koh-i-noor [il più grande diamante del mondo in quel momento] per far sì che la sua luce fosse accessibile a tutti coloro che non ce l’hanno. Funziona ormai da cinquant’anni, la macchina dentro alla quale la Mente è inserita dal davanti per poi uscire dal retro sotto forma di stampa, che diluisce, che distribuisce, che distrugge. Chi dà ci perde, chi riceve s’impoverisce e chi sta in mezzo ci guadagna…
La scelta della rabbia
Ecco il sapore della prosa di Kraus.Ma perché era così arrabbiato? Egli era figlio, nato tardivamente, di una famiglia ebrea ben integrata, i cui affari rendevano abbastanza bene da permettergli di avere un’indipendenza finanziaria per tutta la vita. Ciò gli permetteva di pubblicare Die Fackel esattamente come desiderava. Senza fare concessioni a pubblicitari o abbonati. Aveva una cerchia ristretta di buoni amici e una cerchia molto più vasta di ammiratori, molti dei quali fanatici, alcuni famosi.
Sebbene non si fosse mai sposato, ebbe delle storie brillanti e una relazione lunga e profonda. Il suo unico problema di salute significativo era una curvatura della spina dorsale e anche questo costituì un vantaggio, in quanto gli procurò l’esenzione dal servizio militare. Quindi, come ha potuto una persona così fortunata diventare il Grande Odiatore?
Mi domando se fosse così arrabbiato perché era così privilegiato. Sempre nel saggio su Nestroy, il Grande Odiatore difende il suo odio in questo modo: “L’acido vuole un bagliore di luce ma la ruggine dice che è soltanto corrosivo.” Kraus odiava il linguaggio brutto perché amava la lingua bella — perché aveva ricevuto il dono, intellettuale e finanziario, di riuscire a coltivare quell’amore. E chi è stato felice nella vita non può aspettarsi che il mondo non funzioni nella stessa maniera; e si sente tradito quando il mondo insiste nel prendere delle vie sbagliate, corrotte o insapori. E quindi si arrabbia e la rabbia stessa non fa altro che isolarlo ulteriormente e aumentare la sua sensazione di “essere speciale”.
Come qualunque artista, Kraus voleva essere un individuo. Per gran parte della sua vita fu un antipolitico per spirito di ribellione. Sembrava voler formare delle alleanze professionali quasi solo nell’intenzione di poterle poi silurare in modo spettacolare. Dato che l’opera preferita da Kraus era Il Re Lear, mi domando se non potesse aver intravisto il suo stesso destino in Cordelia, l’amata figlia tardiva che ama il re e che, proprio perché è stata la figlia prediletta, sicura dell’amore del re, ha l’integrità interiore di rifiutarsi di abbassare il proprio linguaggio e di mentirgli quando ormai è affetto da senilità. I privilegi, inoltre, permisero a Kraus di diventare un individuo indipendente, ma il mondo sembrava incline a metterglisi di traverso. Lo disapprovava allo stesso modo in cui Re Lear disapprovava Cordelia e questo, in Kraus, divenne una ricetta per la collera.
Nel suo desiderio di un mondo migliore, in cui fosse possibile un’individualità vera, continuò ad applicare l’acido della sua rabbia su tutto ciò che era falso. Vorrei fare un esempio personale poiché, ad ogni modo, ho comunque fatto una disamina approfondita della storia di Kraus.
Sono stato il figlio tardivo di una famiglia molto amorevole che, anche se non era così ricca da farmi vivere di rendita, aveva abbastanza denaro da mettermi in una buona scuola e poi in un college eccellente, dove ho imparato ad amare la letteratura e la lingua. Ero un americano bianco, maschio, eterosessuale con buoni amici e una salute perfetta.
Eppure, nonostante tutti i miei privilegi, sono diventato una persona estremamente arrabbiata. La rabbia è scesa su di me quasi nello stesso momento in cui mi sono innamorato degli scritti di Kraus, a tal punto che i due fenomeni sono praticamente indistinguibili.
Non sono nato arrabbiato. Caso mai il contrario. Può sembrare un’esagerazione, ma ritengo che sia giusto dire che, fino ai 22 anni, non sapevo nemmeno che cosa fosse la rabbia. Da adolescente ho avuto i miei momenti di scontrosità e di ribellione contro l’autorità ma, come Kraus, ho avuto un conflitto minimo con mio padre e il peggio che si potesse dire di me e di mia madre era che litigavamo come se fossimo una coppia di vecchi sposi. La vera rabbia, la rabbia come modo di vivere mi era estranea, fino a un determinato pomeriggio di aprile del 1982. M trovavo su un binario deserto della stazione di Hannover. Venivo da Monaco ed ero in attesa di un treno per Berlino; era una grigia giornata tedesca e io tirai fuori dalla tasca una manciata di monetine e cominciai a gettarle sul marciapiede. C’era una certa ostilità antitedesca in quel gesto, perché poco prima avevo avuto un’orribile esperienza con una spilorcia, vecchia tedesca e mi faceva bene immaginare altre spilorce vecchie tedesche chine a raccogliere le monetine, come già sapevo che avrebbero fatto, aggravando così i dolori alle anche e alle ginocchia.
Il modo con cui lanciavo le monete, però, mostrava una rabbia di carattere più generale. Ero arrabbiato con il mondo come non lo ero mai stato prima. La causa più immediata della mia rabbia era che non ero riuscito a fare sesso con una ragazza incredibilmente bella di Monaco. Solo che non era stato esattamente un insuccesso, era stata una mia scelta deliberata.
Qualche ora dopo, su quel binario di Hannover, segnai il mio ingresso nella vita successiva, nata dall’impulso di scagliare a terra le monetine. Poi salii sul treno per tornare a Berlino, dove vivevo con una borsa di studio Fulbright, e mi iscrissi a un corso su Karl Kraus.
Come regalo di nozze, tre mesi dopo il mio ritorno da Berlino, il mio insegnante di tedesco al college, il professor George Avery, mi donò un’edizione rilegata della magistrale critica del Nazismo scritta da Kraus, La terza Notte di Valpurga. George, che mi aveva aperto gli occhi sul collegamento tra letteratura e vita vissuta, stava diventando un secondo padre per me, un padre che leggeva romanzi e abbracciava ogni piacere. Ero stato un bravo studente e, forse per provare che ne ero capace, per dimostrargli il mio affetto, nei mesi successivi al mio matrimonio, cominciai a tradurre i due difficili saggi di Kraus che mi ero portato da Berlino.
Lavoravo nel tardo pomeriggio, dopo aver scritto racconti per sei o sette ore, nella camera da letto dell’appartamentino di Somerville che mia moglie e io avevamo affittato per $300 al mese. Una volta concluse le bozze delle due traduzioni, le inviai a George. Me le restituì poche settimane dopo, con annotazioni in margine nelle sua microscopica grafia e con una lettera in cui plaudiva al mio sforzo ma diceva anche che poteva vedere quanto “diabolicamente difficile “ fosse tradurre Kraus. Preso spunto da questo, considerai le mie bozze con occhi nuovi e ne fui scoraggiato, nel trovarle ampollose e quasi illeggibili. Avrei dovuto lavorare su quasi tutte le frasi ed ero così logorato dal lavoro già fatto, che nascosi il file dentro a una cartella del computer.
Un giovane Kraus
Ma Kraus mi aveva cambiato. Quando smisi di scrivere racconti e tornai al mio romanzo, ero ben consapevole del suo fervore morale, della sua rabbia satirica, del suo odio per i media, della sua preoccupazione per l’apocalisse, della sua saggezza di fraseologo. Volevo mostrare le contraddizioni dell’America nello stesso modo in cui lui aveva espresso quelle dell’Austria e volevo farlo attraverso il romanzo, il genere popolare che Kraus aveva avversato, ma che io non disdegnavo affatto. Speravo ancora di finire il mio progetto su Kraus, dopo che il mio romanzo mi avrebbe reso famoso e milionario. Per concretizzare queste speranze, raccoglievo ritagli del “Sunday Times” e del quotidiano “Boston Globe”, a cui mia moglie e io eravamo abbonati. Per qualche ragione, forse per rassicurarmi che c’era qualcun altro che pensava di sposarsi, leggevo religiosamente gli annunci matrimoniali, ritagliandone i titoli, come “Cynthia Pigott è andata sposa a Louis Bacon” e, il mio preferito, “Miss LeBourgeois sta per sposare uno scrittore”.
Leggevo il “Globe” con un occhio krausiano particolarmente freddo e il giornale mi faceva obbligatoriamente arrabbiare per la sua banalità e la revisione scadente e per i titoli delle previsioni del tempo, con i loro stupidi giochi di parole. Ero così disturbato dall’umorismo senza radici e privo di significato di Head-on Splash (Tuffo di Testa), che immaginavo non potesse far divertire la famiglia di qualcuno che fosse rimasto vittima di un incidente d’auto e di Autumnic Balm (Balsamo d’Autunno), che offendeva la mia percezione della gravità del pericolo nucleare, a tal punto che alla fine scrissi una tagliente lettera krausiana al redattore. “The Globe”, in effetti, pubblicò la lettera ma, con particolare mancanza di riguardo, riuscì a storpiare la mia battuta finale in Automatic Balm (Balsamo Automatico), rendendo così incomprensibile il mio punto di vista.
Ero così arrabbiato, che in seguito dedicai molte pagine del mio secondo romanzo a prendere in giro il “Globe” raccontando che “giornale di merda” fosse. La mia rabbia, a quel tempo, era diretta non soltanto contro i media, ma anche contro Boston, gli autisti di Boston, i miei colleghi nel laboratorio dove lavoravo, la mia famiglia, la famiglia di mia moglie, Ronald Reagan, George HW Bush, i teorici letterari, gli scrittori di fiction minimalista allora in voga e gli uomini che divorziavano dalle mogli, tutte cose che adesso mi sono estranee. Tutto questo doveva essere dovuto a un profondo isolamento della mia vita coniugale e alla mia profonda irrequietezza con cui, nella mia ambizione e nella mia povertà, mi negavo il piacere.
Probabilmente, pensavo, c’era anche un elemento di rabbia di una persona privilegiata verso il mondo, dal quale quella persona si sentiva disapprovata. Se non dimostravo una rabbia sufficiente a far di me un giovane Kraus, dipendeva dal genere che avevo scelto. Quando uno scrittore satirico hardcore riesce a raggiungere una qualche popolarità, significa solo che il suo pubblico non lo capisce. La mancanza di un pubblico che Kraus potesse rispettare era una conclusione scontata, per cui egli non dovette mai smettere di essere arrabbiato: poteva essere il Grande Odiatore quando era alla sua scrivania, per poi metter giù la penna e avere una vita personale gradevole con i suoi amici. Ma, quando un romanziere trova un pubblico, anche se piccolo, si trova in una situazione differente, perché il rapporto si basa sul riconoscimento, non sull’incomprensione. Con un rapporto di questo tipo, con un pubblico di questo tipo, diventa semplicemente disonesto rimanere così arrabbiati. E il lavoro mentale che fondamentalmente la fiction richiede, cioè l’immaginare che effetto faccia essere qualcuno che non si è, indebolisce ulteriormente la rabbia. Più romanzi scrivevo, meno mi fidavo della mia correttezza, e più mi sentivo incline a simpatizzare con gente come i tipografi del “Globe”.
Inoltre, man mano che Internet prendeva piede, disseminando informazioni tanto poco affidabili quanto poco tempo costava leggerle, divenivo così grato al “Times” e al “Globe” per il semplice fatto che ancora esistevano e continuavano a pagare dei reporter solo per metà responsabili, perché facessero dei reportage, che persi tutta la voglia di farli a brandelli.
E così, ad un certo punto degli anni ’90, passai le mie brutte traduzioni dei saggi di Kraus dal desktop a una memoria più nascosta. Le frasi di Kraus non smettevano mai di tornarmi in mente, ma mi pareva di essere ormai cresciuto rispetto a Kraus, che lui fosse uno scrittore adatto a un giovane arrabbiato più che a un romanziere. Ciò che adesso mi ha riportato da lui è, in parte, la mia assillante sensazione che l’apocalisse è tornata in auge, dopo che per un periodo era sembrata recedere.
Dal grande scrittore al grande twittatore
Nel mio piccolo angolo di mondo, vale a dire la fiction americana, Jeff Bezos di Amazon può anche non essere l’Anticristo, ma sicuramente può apparire come uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Amazon vuole un mondo in cui i libri siano autopubblicati oppure che siano pubblicati da Amazon stesso, con lettori dipendenti dalle riviste di Amazon per la scelta dei libri e con autori direttamente responsabili della promozione di se stessi. In quel mondo prolifererà il lavoro dei parolai, dei tweeters e dei vanagloriosi, e delle persone che hanno denaro sufficiente per pagare qualcuno che sforni centinaia di riviste a cinque stelle per loro.
Ma che cosa succederà a coloro che sono diventati scrittori perché chattare, twittare e darsi delle arie sembravano loro delle forme di impegno sociale troppo superficiali? Che cosa succederà a coloro che vogliono comunicare con concetti profondi, da individuo a individuo, nella quiete e nella stabilità del mondo stampato, e che sono stati formati dal loro amore per degli scrittori appartenenti al tempo in cui la pubblicazione assicurava ancora un qualche tipo di controllo-qualità e la reputazione letteraria era qualcosa di più di una questione di livello di decibel autopromozionali?
Man mano che sempre meno lettori riescono a trovare la propria strada, in mezzo a tutto questo rumore e a questi libri sconcertanti e riviste fasulle, per arrivare dalla nuova degenerazione di questo tipo di scrittore, Amazon sta ormai per trasformare gli scrittori in quel tipo di lavoratore senza prospettive che i suoi appaltatori impiegano nei loro postriboli, gente che lavora sempre di più per sempre meno, senza nessuna sicurezza sul lavoro, perché questi lupanari sono dislocati in luoghi in cui essi sono gli unici ad offrire un lavoro.
E più aumenta la popolazione che vive come quei lavoratori, più aumenta la pressione verso il basso sui prezzi dei libri e più grande diventa la compressione sui librai tradizionali, perché quando non guadagni abbastanza vuoi divertirti senza pagare e quando la vita ti si fa dura, tu per te vuoi una gratificazione immediata (“spedizione gratuita stanotte stessa!”). Ma in questo modo i libri fisici entrano nella lista delle specie in via d’estinzione, i revisori fisici dei libri scompaiono e quindi scompaiono anche i librai indipendenti e i romanzieri letterari vengono chiamati alle armi in un’autopromozione alla Jennifer Weiner e i Big Six, i sei editori più importanti, vengono eliminati e divorati da Amazon: sembra un’apocalisse solo se i tuoi amici sono per lo più degli scrittori, redattori o librai. Inoltre, è possibile che questa storia non sia finita.
Forse l’esperimento di controllo dei consumatori portato avanti da internet porterà a una corruzione così scandalosa (si dice che già un terzo di tutte le recensioni di prodotti online sia falso) che la gente reclamerà a gran voce il ritorno dei recensori professionisti. Forse un numero di lettori economicamente significativo riuscirà a riconoscere i costi umani e culturali dell’egemonia di Amazon e tornerà dai librai locali o per lo meno a barnesandnoble.com, che offre gli stessi libri e un e-reader superiore e i cui proprietari seguono delle politiche progressiste. Forse la gente si farà venire per Twitter la stessa nausea che ad un certo punto ha avuto per le sigarette. Gli ultimi modelli di Twitter e Facebook per far soldi sembrano ancora in parte uno schema piramidale, in parte pensiero illusorio, in parte ripugnante sorveglianza panottica.
È vero, potrei portare un’argomentazione più ampia e più apocalittica sulla logica della macchina, che attualmente è diventata globale e accelera la snaturalizzazione del pianeta e la sterilizzazione dei suoi oceani. Potrei parlare della trasformazione della foresta boreale canadese in un lago tossico di sottoprodotti di sabbia catramosa, dell’abbattimento delle foreste residue dell’Asia per farne mobili da veranda prodotti in Cina a bassissimo costo da Home Depot, della costruzione di dighe sul Rio delle Amazzoni e la fase finale dell’abbattimento delle sue foreste per produrre carne o minerali, della forma mentis che dice “Fregatene delle conseguenze, vogliamo comprare un lotto di merda e la vogliamo a basso costo, con spedizione noturna gratuita”.
E nel frattempo avremo il surriscaldamento dell’atmosfera, il calamitoso abuso di antibiotici nell’industria agro-alimentare, tutto quel trafficare con i nuclei cellulari che si dimostrerà altrettanto disastroso quanto l’armeggiare con i nuclei atomici. E, sì, le testate termonucleari, sono già dentro ai silos e ai sottomarini. Ma l’apocalisse non è necessariamente la fine fisica del mondo. In effetti, questa parola implica più direttamente un elemento di giudizio cosmico finale. Nella cronaca fatta da Kraus dei crimini contro la verità e la lingua, nell’opera The Last Days of mankind (Gli ultimi giorni del genere umano), egli non si riferisce soltanto alla distruzione fisica. In realtà, il titolo della sua opera potrebbe essere reso meglio in inglese con The Last Days of humanity (Gli ultimi giorni dell’umanità), poiché “deumanizzato” non significa “spopolato” e se la prima guerra mondiale ha significato la fine dell’umanità in Austria, non è stato perché in quel paese non è rimasto più nessuno. Kraus era sconvolto dalla carneficina, ma la vedeva come conseguenza, non come causa di una perdita di umanità da parte di chi era ancora in vita.
Vivi ma dannati, cosmicamente dannati.
Ma un giudizio come questo dipende ovviamente da quello che s’intende per “umanità”: che piaccia o no, il mondo creato dalla macchina infernale del tecnoconsumismo è ancora un mondo fatto da esseri umani. Mentre scrivo queste parole, sembra che metà degli annunci pubblicitari alla TV stia mostrando della gente china sui propri smartphone; ce n’è uno particolarmente nocivo/grande in cui, a un pranzo di nozze, tutti i ventenni o giù di lì non fanno altro che far fotografie col telefonino per poi condividerle l’uno con l’altro. Descrivere questo fosco spettacolo in termini apocalittici, come” deumanizzazione” di una cerimonia nuziale, significa avanzare una particolare concezione morale dell’umanità; e se seguite Nietzsche e rifiutate il giudizio morale in favore di un giudizio estetico, vi troverete immediatamente a confrontarvi con la connessione persuasiva di Bourdieu tra l’estetica e la classe e il privilegio; e la cosa successiva che capirete è che state traducendo Mankind (Genere Umano) come The Last Days of Privileging the Things I Personally Find Beautiful (Gli ultimi giorni della tendenza a privilegiare le cose che personalmente io ritengo belle).
E forse non è una brutta cosa. Forse, paradossalmente, l’apocalisse è sempre individuale, sempre personale. Ho un incarico breve qui sulla terra, messo tra parentesi da un’infinità di nulla e, durante la prima parte di questo incarico, creo un attaccamento per un particolare insieme di valori umani inevitabilmente plasmati dalle circostanze sociali in cui mi trovo a vivere. Se fossi nato nel 1159, quando il mondo era più stabile, probabilmente, a 60 anni, avrei ben potuto percepire che la generazione successiva avrebbe condiviso i miei valori e le stesse cose che apprezzavo io; non ci sarebbe stata nessuna apocalisse in attesa. Invece no, sono nato nel 1959,quando la Tv era qualcosa che si poteva guardare solo in prima serata e la gente scriveva lettere e le imbucava e ogni rivista e ogni quotidiano aveva una consistente rubrica dedicata ai libri e dei venerandi editori facevano degli investimenti a lungo termine su degli scrittori giovani e nei dipartimenti inglesi regnava il Nuovo Criticismo e il bacino del Rio delle Amazzoni era ancora intatto e gli antibiotici si usavano solo per le infezioni gravi, non venivano ancora pompati dentro a vacche sane.
Era necessariamente un mondo migliore (avevamo dei rifugi antiatomici e piscine che applicavano la segregazione razziale) ma era l’unico mondo che io conoscessi, in cui trovare un posto come scrittore. E quindi oggi, 60 anni dopo, il lamento e la segnalazione di Kraus, che il nesso tra tecnologie e media abbia reso la gente sempre più focalizzata sul presente e sempre più dimentica del passato, risuona sempre più vero dentro di me.
Kraus fu il primo grande caso di scrittore in grado di capire come la modernità, la cui essenza sta nell’accelerazione del cambiamento, in sé e per sé crei le condizioni per l’apocalisse personale.
Naturalmente, dato che fu il primo, i cambiamenti gli sembravano particolari e unici, ma in realtà egli stava registrando qualcosa che è poi diventata un’istituzione della modernità. L’eperienza di ciascuna generazione successiva è così differente da quella della generazione precedente, che ci saranno sempre delle persone a cui sembrerà che sia andato perduto ogni collegamento con i valori passati. Finché dura la modernità tutti i giorni sembreranno a qualcuno gli ultimi giorni [del sentimento] dell’umanità.
Jonathan Franzen, classe 1959, è uno dei maggiori e più controvsi scrittori e saggisti americani Il magazine “Time” gli ha dedicato una copertina con il titolo “Great American Novelist”. Nato nei pressi di Chicago si è laureato in filologia germanica e ha vissuto a Berlino. Oggi vive a Santa Cruz in California e si dedica al Bird Watching. Ha vissuto e lavorato per moltissimi anni a New York. Nel 2010 è stato insignito del premio National Book Critics Circle. Pubblica regolarmente racconti e saggi su «The New Yorker» e su «Harper’s».
In Italia tutti i suoi lavori sono tradotti e pubblicati da Einaudi. Romanzi: Le correzioni (2002), La ventisettesima città (2002) , Forte movimento (2004) e Libertà (2011), Purity (2016) ,l’ultimo romanzo. Saggi: Come stare soli (2006), Più lontano ancora nel 2012. Ha pubblicato anche un libro di memorie Zona disagio (2006). Nel 2014 ha pubblicato The Kraus Project (Il progetto Kraus: saggi di Karl Kraus annotati da Jonathan Franzen), uno saggio dedicato al polemista, aforista e scrittore austriaco. La sua ultima fatica è La fine della fine della terra (2018). Tutti i libri di Franzen sono pubblicati in italia da Einaudi.