La lingua del lavoro

di Elio Vittorini

Mario Mancini
8 min readApr 5, 2022

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La diffusione del linguaggio tecnologico, la rapida vitalità di un linguaggio che pareva condannato all’esistenza gergale, alla periferia della lingua, non va guardata, a me pare, come un fenomeno a sé. Si ricommetterebbe uno dei tanti errori cui l’idealismo è votato. A me, per lo meno, interessa guardare a tutta la cultura che muove il linguaggio tecnologico.

Cioè, a tutti i rapporti di lavoro e poi ai rapporti sociali, anche privati, che vengono fuori da quei rapporti di lavoro. La cosa non è limitata agli effetti di linguaggio. A me interessa nel suo aspetto generale. Mi interessa come tipo di cultura nuova rispetto a una cultura vecchia quale può essere la cultura contadina: cultura nuova, cultura moderna, cultura a livello europeo o internazionale.

La cultura contadina ha caratteri di permanenza. Resiste fino a quando non si produce la trasformazione di tipo industriale. A volte permane anche se non ci sono più ragioni che si manifesti, anche se tutto è cambiato, anche se in seno alla cultura contadina ci sono già incidenze di tipo industriale. In realtà, se a dominare è la cultura contadina, si può continuare a chiamarla cultura contadina.

Se quel tipo di cultura dà il «là» nel modo di vivere, nel modo di parlare, nel modo di comunicare, io continuo a chiamarla cultura contadina. Cultura diversa si ha quando il «là» viene dato da un nuovo modo di vivere e di porre i rapporti umani. Si ha una tecnologia diversa. All’interno della cultura contadina domina una tecnologia contadina.

Qualcuno obietterà che la lingua è un fatto unitario, che il sistema linguistico ritrova di continuo il proprio equilibrio interno. Ma io considero qui i caratteri che la lingua assume come presenza storica, non mi riferisco al sistema. Del resto anche una lingua di impostazione contadina esiste a livelli diversi. Ad esempio, io vado nel Sud. Parlo con i contadini. E lingua contadina.

Parlo con i notai o con i bottegai di città. E ancora lingua contadina. Ancora quella, non un’altra lingua: sono vari livelli di una lingua unitaria in quell’ambito storico. E, invece, nell’ambito tecnologico industriale si assiste al confluire di altri elementi. Magari l’elemento contadino sussiste. Però non è più l’elemento che emerge. È ormai soffocato. Il contadino che continua a fare il suo lavoro contadino, riceve anche i portati dei nuovi rapporti, dei nuovi modi di vivere.

Certo il nuovo linguaggio prevalente non si esprime ancora su tutti i bisogni. Ma porta in sé un forte elemento di trasformazione. È la dominante di una nuova lingua. E, insieme, eredita tutto il passato. Anche residui di lingua contadina.

Qualcuno distingue fra lingua di campagna e lingua di città. Si parla di Baudelaire come «poeta moderno» o «poeta della città». Anche a proposito di Blok si è parlato di «città» e «parlata» della città. Io questa distinzione non la farei così. La città può essere benissimo una capitale contadina. Anzi può essere semplicemente l’illusione d’essere altro rispetto alla campagna, la presunzione della superiorità «cittadina» rispetto al contadino, ed essere ancora in pieno nella realtà contadina come modo di concepire la vita, come modo di vedere il sole, le stelle, come modo di conoscere l’universo. L’essenziale non è lì.

Il contrasto tra industria e mondo contadino non è la proiezione attuale del vecchio contrasto città-campagna. Questo contrasto città-campagna è molto più familiare, è cosa che può consumarsi all’interno del mondo contadino stesso. Mentre oggi si manifesta un nuovo contrasto, all’interno di un mondo industriale che comprende anche la campagna. Come prima la città poteva essere intesa in senso contadino, così oggi la campagna può essere intesa in senso industriale.

Se però questo contrasto o rapporto o confronto fra cultura industriale e cultura contadina, fra storia industriale e storia contadina, è già visibile, si può parlare, con Pasolini, di nascita di una lingua nazionale unitaria su basi tecnocratiche?

Bisogna riflettere, analizzare. Io non sono molto convinto che si possa parlare di lingua nazionale unitaria su questa base. Per esempio, rispetto a un Sud che non è industrializzato. Ora, l’azione ai questo Nord industrializzato, come si svolge? Ancora nel rapporto preesistente, quando il Sud era paese coloniale rispetto a una madrepatria o metropoli settentrionale? Qui appare un elemento di incertezza. Sono cose in continuo movimento.

L’azione di un settentrione industrializzato verso un meridione non industriale, e in condizioni tuttora contadine o in gran parte contadine, non può non essere una sovrapposizione. Manca l’elemento unitario. Il primo, vero movimento verso una trasformazione radicale della lingua nazionale sarebbe l’industrializzazione del Sud, la nascita di un’industria nazionale, altrimenti, per una parte del paese, è lingua che arriva dall’alto e non solo dall’alto, ma dal di fuori.

Una classe egemone, se non vuol limitarsi ad essere classe di potere, dovrebbe identificarsi con tutto l’ambiente sociale. Questa identificazione non la vedo ancora. Comunque, nel caso nostro, dell’Italia, aspetterei che fosse decisa l’industrializzazione di tutto il paese. Aspetterei che la cultura nuova, la cultura su basi tecnologiche, si manifesti in tutta Italia.

Solo allora la trasformazione tecnologica opererebbe su scala e con impegno nazionale. E allora si potrebbe anche avere una di quelle fasi linguistiche «eroiche» in cui un metalinguaggio (come sarebbe il linguaggio tecnologico) entra nel linguaggio comune e vi provoca un mutamento di struttura.

Se no, una lingua così formata — per pura ipotesi — nel nord dell’Italia non può che essere una lingua di esportazione verso un’altra parte del paese.

Dove si può essere, invece, d’accordo è che le aziende sono centri di fermenti e di elaborazione, come dice Pasolini. Non nel senso tecnocratico dell’elaborazione linguistica, naturalmente. Ad esempio, quando la Pirelli o fa FIAT o la Olivetti elaborano riviste culturali o fanno pubblicità, associano a quelle iniziative gruppi di intellettuali o di elaboratori linguistici.

È un fatto indubbiamente importante. Si può dire che, per contare sull’efficacia di quella pubblicità, le aziende abbiano bisogno di un certo programma linguistico. Esiste, cioè, una motivazione commerciale, un motivo di espansione anche per un programma linguistico. Però, io non ci credo.

In realtà, la trasformazione linguistica opera su basi di necessità collettiva. Proprio perché le aziende sono centri di lavoro e di produzione. Sono un tessuto di rapporti di lavoro, e i rapporti di lavoro sono dei paradigmi anche per i rapporti di vita.

Cosa succedeva con la campagna? Il rapporto con la terra: non solo il rapporto fra padrone e bracciante, fra padrone e mezzadro, fra padrone e coltivatore. Il rapporto con la terra stessa. Il rapporto col tipo di lavoro, i rapporti con la vite e l’albero da potare. Tutto questo creava il paradigma di vita che poi si prolungava all’interno delle case, fin dentro la città.

Quella città, quel tipo di città che si contrapponeva alla campagna, era abitata da metafore che venivano dalla campagna, da forme della vita di campagna. Anche se non si usciva dalla città.

Anche se Baudelaire non respirava aria di campagna e non faceva che aggirarsi nelle strade parigine, egli risentiva di quelle abitudini anche mentali che venivano dalla campagna. Perciò i rapporti di lavoro hanno una così grande importanza.

L’azienda può essere appunto un luogo che elabora delle forme. Ricorrendo alla terminologia dei linguisti, per ora si può parlare di qualcosa che si verifica «all’interno della parola» con manifestazioni anche episodiche, anche provvisorie; e che, però, pur non modificando il sistema, già indicano un movimento irreversibile.

Il «confronto» avviene, d’altra parte, senza esclusioni. Quando facciamo l’analisi dell’italiano, fino ad oggi, parliamo di italiano burocratico, italiano della borghesia. Non parliamo mai del linguaggio della lotta di classe, che pure esiste, che è molto importante, che si è affermato — in Italia — dalla seconda metà dell’Ottocento con l’anarchismo e con le prime organizzazioni socialiste ed è diventato specifico di tanti momenti non dialettali della vita del proletariato.

È l’italiano in cui si esprimono gli operai quando si erigono a giudici. È un linguaggio di contestazione. Ma anche di constatazione oltre che di contestazione. C’è questo italiano, non solo quello burocratico. Partecipa di quello burocratico e del letterario stesso, si capisce. Ma, a suo modo, è anche un particolare tipo di italiano. Ci sono scrittori che, anche inconsciamente, l’hanno rilevato. Penso a Bilenchi, o al primo Pratolini, a un certo Calvino. Uno dei tentativi è anche in Conversazioni in Sicilia. Si capisce, quegli operai parlano sublime o illustre… Ma quale «illustre»? Quale «sublime»? È un sublime perché gli operai io li vedo come giudici, li voglio io innalzare al rango di giudici per giudicare il mondo. Tutto il contrario degli «uomini» di Verga che stanno lì ancora in funzione di accusati e perciò si avvoltolano dentro ai panni mimetici del dialetto, da accusati innocenti, da vittime.

Nel movimento c’è però un altro aspetto che vorrei indicare. Ed è il confronto con la vita internazionale, quindi con una forma di «lingua internazionale». Se nella descrizione del primo confronto ho impiegato come termini di riferimento o di comodo «lingua a livello industriale» o «lingua contadina», qui userò, sempre come termine di riferimento, «lingua internazionale».

È un confronto, su scala internazionale, ormai cospicuo. Anche se di superficie, non è superficiale. Le lingue accentuano, si dice, il loro carattere comunicativo, cercando di superare il momento puramente espressivo. Ma un accrescimento del comunicativo comporta una accresciuta — più precisa — espressività. Si può indicare nell’inglese una lingua «altamente comunicativa».

Ma essa è altrettanto «espressiva». Cioè, non contrapporrei comunicazione ed espressione. L’espressività che non parte dalle possibilità comunicative, rischia di girare a vuoto. In Faulkner, ad esempio, incontriamo una forte componente di enfasi, di ridondanza, di amplificazione.

Però quella ridondanza, impiantata saldamente sopra un tipo di comunicazione che è alla base, finisce per rafforzare e completare la comunicazione stessa. Del resto vi sono significati primi e significati secondi, significati di denotazione e significati di connotazione. Cioè, significati che si rivelano attraverso il modo in cui la comunicazione avviene. E l’espressività è il veicolo della connotazione o, insomma, di una comunicazione seconda.

Ora, nel confronto internazionale che si opera oggi sempre di più, c’è anche la possibilità accresciuta di queste verifiche. Pasolini dice: l’italiano non è più in simbiosi col latino. Ora sarebbe in simbiosi col linguaggio tecnologico. Io direi che l’effettiva simbiosi avviene con questa «lingua internazionale» che ha la sua radice nel terreno della ricerca scientifica e i suoi centri di espansione nelle sale di comando, nelle torri di controllo, in ogni specie di stanza dei bottoni.

I conservatori, con rammarico profondo, possono vedervi il prevalere dell’inglese o dell’americano. Ma si nota subito la vitalità di altre forme, non escluse forme e parole italiane, che emergono a livello internazionale, anche se i fenomeni sono osservati unicamente in superficie alla maniera dei conservatori.

Da: Dialoghi con Pasolini. Scritti 1957–1984, a cura di Alberto Cadioli, Roma, Editrice «l’Unità», 1985 pp. 61–66

Elio Vittorini (Siracusa 1908 — Milano 1966) ha pubblicato i romanzi Il garofano rosso, Conversazione in Sicilia, Uomini e no, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, Le donne di Messina, Le città del mondo (uscito postumo). Ha curato la famosa antologia Americana, che ha fatto conoscere i maggiori scrittori degli Stati Uniti. Ha diretto “Il Politecnico” e, insieme a Italo Calvino, la rivista “Il Menabò di letteratura”. È stato editor e consulente di case editrici influenzando profondamente l’editoria e la cultura italiana dei suoi anni. I suoi numerosi interventi critici e i saggi di argomento politico-culturale sono stati raccolti da Raffaella Rodondi nei due volumi Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926–1937 e Letteratura arte società. Articoli e interventi 1938–1965.

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Mario Mancini
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Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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