Nostalghia di Tarkovsky nella critica del tempo

Il pensiero che è memoria

Mario Mancini
6 min readJan 15, 2024

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Film del 1983, scritto da Tonino Guerra e Andrej Tarkovskij
Regia di Andrej Tarkovskij; con Oleg Jankovskij (Andrej Gorčakov), Domiziana Giordano (Eugenia), Delia Boccardo (Moglie di Domenico), Erland Josephson (Domenico), Maria Cumani Quasimodo)
Premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 1983
Durata: 2h 10m
Streaming: Prime Video

Un critico musicale russo, in Italia per ricostruire un episodio della vita del musicista russo Pavel Sasnowskj, incontra a Bagni Vignoni, una località termale presso Siena, un singolare personaggio, chiamato “il matto”, il quale afferma che per pacificare il mondo è necessario attraversare con una candela accesa la piscina di Santa Caterina. Dopo un soggiorno a Roma, dove il matto si dà fuoco in Campidoglio, il critico compie la traversata della piscina con la candela, ma muore d’infarto per l’immane fatica. Ancora un film sul tema, ossessivo per Tarkovskij, del “sacrificio” che è necessario per raggiungere la pace.

Stefano Reggiani

Poesia in forma di film

Che Andrej Tarkovskij sia un poeta figlio di poeta non è una novità. Calano sulle immagini dei suoi film certi fantasmi della memoria, certe ombre dei sentimenti che alterano d’improvviso la prospettiva e ci fanno capire il sovrasenso del racconto. Si pensi ai ricordi della Terra nel fantascientifico Solaris (biancheggiare dell’infanzia e degli interni domestici); si pensi al brivido dell’acqua che corre in Stalker, in un paesaggio precluso alle speranze, ma in attesa di un cambiamento.
In Nostalghia tornano le immagini della poesia tarkovskijana, ma come strappate al loro mondo, ingrandite per l’emozione e insieme inafferrabili.
Si dirà: per forza, si tratta di un film dell’esilio (sia pure volontario), l’incertezza è proprio nell’autore che ripensa se stesso attraverso il cinema. Il risultato è un suggestivo non film, una poesia continuamente interrotta, che non ha un centro e uno stile unici, ma tante piccole sorgenti sentimentali e alcune cadute e ripetizioni, che non ha confini, potrebbe durare più a lungo delle due ore e dieci minuti, potrebbe essere più concisa.
Noi, per esempio, avremmo preferito una poesia più corta, tutta incentrata sul personaggio russo, cioè sul regista. Tuttavia anche le ragioni produttive (un miliardo e mezzo la spesa, cospicua ma non eccezionale) hanno il loro peso.

Il tema della nostalgia

C’è un poeta russo che viene in Italia per scrivere un libro su un musicista russo del Settecento, assai apprezzato tra noi, eppure tornato in patria per nostalgia, pur sapendo che vi avrebbe ritrovato la sua condizione di schiavo.
L’Italia è bella, troppo bella; il poeta (attore Oleg Jankovskij) decide a un certo punto di chiudere gli occhi, l’esibizione di bellezza (quadri, monumenti, paesaggi) non lo distoglie dal pensiero della sua terra, ed anzi rende lo struggimento più acuto.
Nella cultura russa, dice Tarkovskij, la nostalgia è una malattia che uccide. Tanto più che il poeta del film è oppresso anche da una malinconia più profonda, che riguarda appunto l’impossibilità delle culture di comunicare nel senso più vero e più fertile, che tocca l’esistenza delle barriere politiche, la speranza di un mondo senza confini.
Durante un giro di studio e di rabbia in Toscana, il poeta incontra un matto (Erland Josephson) che, dopo aver chiuso i suoi familiari in casa per sette anni, impaurito dalla brutalità del mondo, sogna una convivenza pacifica di tutti gli uomini e per questa è disposto anche a un suicidio rituale, come un bonzo. Non vale a rasserenare il poeta la compagnia della segretaria Domiziana Giordano, che pure a un certo punto estrae dalla camicia un seno di latte, non vale la sosta nel paese toscano di Bagno Vignoni con la sua antica piscina d’acqua calda nella quale s’immergeva anche santa Caterina. Anzi, la piscina sarà il luogo rituale dell’ultima malattia, della nostalgia che uccide.

Lampi di memoria

Il matto è un personaggio flebile, abbastanza insopportabile, non sappiamo quanta colpa vi abbia la mano di Tonino Guerra, qualche volta quando due poeti lavorano insieme si crea un accumulo di significati, una specie di concorrenza. Del resto, nel non film tutto si gioca sulle immagini discontinue della nostalgia, sui singoli versi della poesia.
Memorabile una sera in albergo a Bagno Vignoni col poeta sdraiato in meditazione sul letto, dalle finestre aperte su un temporale di campagna entra poco per volta la notte e il buio intride gli oggetti e annulla anche l’ospite (dalla profondità emergono i ricordi d’infanzia russa, Nostalgia è dedicato alla madre).
E sono rivelatori i «versi» che parlano dell’acqua, elemento universale per Tarkovskij: la piscina con le sue nebbie di vapori, la pioggia che gronda dalle fessure dei soffitti. È stato prezioso, per la riuscita dei versi migliori, l’apporto del, direttore della fotografia, Giuseppe Lanci, capace di attenuare al sussurro i colori più accesi e di recuperare la morbidezza del bianco e nero in certi lampi della memoria.

Da La Stampa, 18 maggio 1983)

Giovanni Grazzini

Il pensiero che è memoria

Girando per la prima volta fuori dell’Urss (Nostalghia è il suo sesto lungometraggio) Andreij Tarkovskij decisamente non rinuncia al blasone dell’autore che a una prima lettura è arduo decifrare. Non si può insomma dire che il sole d’Italia lo abbia abbagliato. Immedesimandosi nel protagonista sino a dargli il proprio nome, il regista percorre sì la Toscana e la Sabina ma come fossero luoghi di pena, di pioggia e di nebbie, e il Campidoglio è la piazza di un rogo: il suo paese dell’anima resta quello d’un infelice che soffre i tonfi dello spirito, e vuole rialzarlo con la poesia della fede e la fede nella poesia, perché l’uomo guarisca e migliori.
Portaparola di Tarkovskij è qui un Andrej Gorciacov venuto in Italia per compiere ricerche su un musicista russo del ‘700 che fu in stretti rapporti col nostro Paese. L’uomo è in compagnia di una bella ragazza che gli fa da interprete. Se Eugenia vede deluse le proprie speranze di essere amata è anche perché Andrei si tormenta.
Chiuso e cogitabondo, pensa alla moglie lontana, ai figli, al suo cane lupo, alla dacia remota. Lascia che Eugenia vada da sola a vedere la Madonna del parto, e in albergo, nel sogno, si ritrova con la propria famiglia. Non sta bene di salute, ma si direbbe che soprattutto lo abiti una. doppia angoscia: per quel vivere sradicato da casa, e per l’impossibilità di conoscersi l’uno con l’altro. Eugenia non gli dispiace, ma ne confonde l’immagine con quella della moglie. L’unico modo perché fra gli uomini torni l’armonia gli sembra l’abolizione delle frontiere.

Il gesto di salvezza

A Bagni Vignoni, una stazione termale nei pressi di Siena, sente parlare di Domenico, considerato un povero matto che, dopo aver tenuta segregata la famiglia per sette anni in attesa dell’Apocalisse, ora vive solitario e deriso.
Andrej lo va a trovare (intanto Eugenia se n’è tornata a Roma), raccoglie il suo appello per la salvezza del mondo, che soltanto la fede potrà procurare, e si impegna a compiere lui stesso il gesto al quale Domenico attribuisce un magico valore: di attraversare una piscina d’acqua calda tenendo in mano una candela accesa.
Quasi in rapporto medianico con la moglie, dopo avere incontrato una bambina in una cripta allagata e avere bruciato un libro di poesie, Andrej si aggira fra i ruderi della abbazia di San Galgano, e lamenta di essere stato abbandonato da Dio. Alla fine due scene s’incrociano: quella di Domenico, che è venuto a Roma per proclamare il suo vangelo nella piazza del Campidoglio e darsi fuoco, e quella di Andrej che a Bagni Vignoni compie la missione affidatagli. Subito dopo egli muore, ma sembra aver realizzato il gran sogno: di fondere in un unico sentimento, e in un unico paesaggio, il passato e il presente, e trovare la pace mentre cade la neve.

Il simbolismo

Campione indiscusso del cinema della crisi, Tarkovskij ha firmato (insieme a Tonino Guerra, cosceneggiatore) un altro film difficile ma suggestivo. Non chiediamogli di spiegarne tutti i grovigli. Godiamone le bellezze figurative, la splendida fotografia di Giuseppe Lanci, le intense interpretazioni di Oleg Jankovskij e di Erland Josephson, la buona prova della quasi esordiente Domiziana Giordano che già apprezzammo in Amici miei, atto secondo.
Nonostante qualche lentezza di troppo e certe insistenze nel formalismo decadentista, il film è infatti di una solenne memore della pittura di Munch e dei drammi di Strindberg: i simboli emergono con limpidezza, a cominciare da quello dell’albero stecchito che va innaffiato tutti i giorni come se potesse ancora dare frutti.
Ciò che l’autore indica ancora come un valore, giunto al colmo dell’amarezza e alle soglie della morte, è la ripetitività di un gesto quotidiano, magari assurdo, che nel contenere un microcosmo di speranza diventa un sostitutivo laico della preghiera.

Da Il filmnovanta: cinque anni al cinema: 1986–1990, Mondadori, Milano, 1990

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.