Non ti scordare di dimenticare, (non) disse l’algoritmo
di Paolo Marcucci
Vai agli altri articoli della serie “Tendenze attuali”
Vai al magazine “La Tavola dei pensieri”
Vai agli altri articoli della serie “La rivoluzione tecnologica e le sue conseguenze”
Ricordo e memoria
Sophie Calle[1], nel 2010, realizzò la sua opera d’arte, La dernière image, intervistando un gruppo di persone di Istanbul che avevano perso la vista, domandando loro quale fosse il ricordo, l’ultima immagine, osservata prima del tragico evento.
La genialità dell’artista ci fa intuire quanto importante e potente sia il ricordo e la sua funzione, che ci lega, ci definisce, ci dà spessore e corpo rispetto al mondo che attraversiamo e alla sua memoria. Memoria che Cesare Ripa, nell’Iconologia[2], consiglia agli artisti di rappresentare così: “Dipingesi la Memoria di mezza età, perché Aristotele nel libro della Memoria & della ricordanza, dice che gl’huomini hanno più memoria nell’età perfetta, che non hanno nella vecchiaia, per la scordanza, ò nella pueritia per non haver imparato”.
Ricordo e memoria che si avviluppano spesso sullo stesso ramo ma che, però, rimangono distinti e separati per la loro differente natura: mentre la memoria appartiene più a funzioni e esigenze tecniche come mantenere collettivamente vivo il passato storico[3], o di studio come mandare a memoria un testo, il ricordo girando intorno e derivando dal latino re e cor (di nuovo e cuore), ha molto a che fare con i sentimenti e ha un’accezione prevalentemente individuale e soggettiva: «Mi vendicherò nel modo più crudele che tu immagini. Dimenticherò ogni cosa».[4]
Ma la dimenticanza non è solo voluta ma, soprattutto, è anche terribilmente incastonata con il nostro cervello: semplicemente per convenienza biologica[5], non ricordiamo più: l’ordine è uscire dalla trappola della troppa memoria.
C’è una scena, quasi insopportabile da questo punto di vista, di un film di Sorrentino, Youth, La giovinezza[6], dove due i protagonisti riflettono sul tema:
“Io mi chiedo che cosa succeda ai ricordi col tempo. Io non ricordo più i miei genitori; non ricordo come erano fatti, come parlavano… Ieri notte mi sono messo a guardare Lena che dormiva… E ho ripensato alle migliaia di piccole cose che ho fatto per lei, come padre, e le ho fatte volutamente perché se le ricordasse, una volta cresciuta. Invece col tempo non se ne ricorderà neanche una. Sforzi immani Mick, per risultati modesti.”
La memoria nella psicologia del profondo
James Hillman[7], ne Il sogno e il mondo infero, nelle bellissime parole che seguono, affronta il tema del dimenticare e dell’oblio dal punto di vista psicanalitico, mettendo in luce le contraddizioni delle regole e volontà sociali con il nostro Io più profondo.
“Anche la questione della memoria e dell’oblio può essere esaminata in modo nuovo. Questa volta dalla prospettiva di Lete[8], la sorgente dell’oblio e il ruolo importante anche nello sviluppo della psicologia del profondo, che iniziò con l’indagine di Freud sulla perdita del ricordo e sui lapsus e i buchi di memoria, le piccole dimenticanze della coscienza, le Fehlleistungen.
La psicologia pone l’accento sull’attenzione e sul ricordo; il mondo diurno vuole, anzi deve assolutamente avere “buona memoria”; una cattiva memoria è più disastrosa per il successo di quanto non lo sia la cattiva coscienza. Di conseguenza dimenticare diventa segno di patologia.
Ma la psicologia del profondo, in quanto si basa su una prospettiva archetipica, potrebbe intendere la dimenticanza come qualcosa che serve uno scopo più profondo, e vedere nei lapsus e nei vuoti del mondo diurno gli strumenti con i quali gli eventi sono trasformati ed espunti dalla vita personale, svuotandola, sgombrandola. In un modo o nell’altro, dovremo migliorare il nostro rapporto con Lete, visto che esso regna su molti anni della vita, specialmente gli anni finali, e sarebbe sciocco liquidare la sua opera come qualcosa di soltanto patologico. I romantici prendevano molto seriamente Lete.”
Perché ricordiamo?
Solo la memoria ci definisce, ci racconta che siamo e da dove veniamo: quando, alla protagonista dei replicanti di Blade Runner, viene il dubbio di essere una macchina, entra in una drammatica angoscia perché sospetta che i ricordi le siano stati inseriti e quindi se siano veri o falsi e la nostalgia del passato è solo una creazione artificiale e fatta da altri. È la perdita, in fondo, dell’identità.
Quando a volte guardiamo al passato si ha la sensazione che l’oblio del passato prevalga, che le rovine, non solo dei palazzi, delle città, ma anche dei pensieri, delle idee, delle ideologie, domini e rimangano solo tracce labili, quasi invisibili, miti che non esistono più, quasi si fosse costretti, obbligati a dimenticare, formando e plasmando così quello che siamo adesso, in combinazione e in equilibrio incerto, con quella spinta contraria, sul perché invece si ricorda: per bisogno di miti che ancora ci aiutino e ci diano conforto.
Tendenzialmente cerchiamo di lasciare dovunque tracce consapevoli del nostro passaggio, e i social, in questo periodo storico, sembrano, appaiono lo strumento perfetto per non essere, per non restare solo anonimi tra gli anonimi: scintille e schegge del nostro transito, del nostro tragitto, che dica io c’ero, io ci sono stato.
Poi nel mondo digitale di oggi ci sono i segni inconsapevoli di questo nostro passaggio: i dati anagrafici, il luogo da dove depositiamo le nostre impronte, come quelle di animali preistorici scoperte milioni di anni dopo, i siti che consultiamo, gli acquisti che facciamo, l’ammontare del conto corrente, il mutuo che facciamo, i prelievi al bancomat, la radio che ascoltiamo, gli acquisti al supermercato, i ristoranti dove mangiamo, e così di seguito interminabilmente.
Tutte le tracce consapevoli e inconsapevoli, tutti i nostri passi, anche quelli dimenticati e che giureremmo di non avere mai fatto, sono invece immagazzinati in moderni e giganteschi granai, chicco dopo chicco e di cui non disponiamo né indirizzo, né accesso, da società, da banche, da assicurazioni, da amministrazioni pubbliche. Esse sono il cibo su cui si avventano animali feroci che chiamiamo algoritmi: loro non dimenticano.
Istruzioni dell’algoritmo
L’algoritmo è “una strategia che serve per risolvere un problema ed è costituito da una sequenza finita di operazioni (dette anche istruzioni). Il termine deriva dalla trascrizione latina del nome del matematico persiano al-Khwarizmi, vissuto nel IX secolo d.C., che è considerato uno dei primi autori ad aver fatto riferimento a questo concetto scrivendo il libro “Regole di ripristino e riduzione”(Wikipedia).
Gli algoritmi sono i pilastri della nostra società, della nostra economia basata sui dati, che capitalizza le informazioni rendendo servizi e ottenendo profitti. Da questo granaio si ottiene così l’identificazione, a volte personale e precisa (come per un prelievo di soldi), e spesso come classificazione in certe categorie (trentenne single con capacità di spesa, ecc.). Oppure si ottiene l’assegnazione di un rating del merito creditizio, che ci indica a che prezzo, a che tasso, otterrò il finanziamento e il suo ammontare, perché le nostre azioni passate, sommate alla situazione sociale e economica, dice con quanta probabilità sarò in grado di fare fronte alle mie obbligazioni debitorie.
Se noi, quindi, almeno in parte, dimentichiamo chi siamo stati, cosa abbiamo fatto, chi abbiamo conosciuto, possiamo anche stare sereni e tranquilli: in qualche luogo, materiale o immateriale, in qualche algida anima nascosta nei grandi server informatici, il nostro passato sopravvive a noi stessi e l’immortalità tanto bramata è già stata inventata. Basta chiederla: obbligatoriamente con una Pec[9].
Note
[1] Sophie Calle, interessante artista e fotografa francese.
[2] Cesare Ripa (1555–1622), studioso accademico e scrittore italiano: l’Iconologia overo Descrittione Dell’imagini Universali cavate dall’Antichità et da altri luoghi, è del 1593.
[3] Per esempio la memoria dell’Olocausto.
[4] John Steinbeck, L’inverno del nostro scontento, 1961.
[5] Il cervello lavora e spende molte energie anche per dimenticare, perché aiuta a prendere le decisioni migliori (studio dell’università di Toronto, pubblicato sulla rivista scientifica Neuron, giugno 2017).
[6] Film del 2015.
[7] Psicoanalista, saggista e filosofo statunitense. 1926–2011.
[8] Il fiume della dimenticanza.
[9] La posta elettronica certificata o PEC, è un tipo particolare di posta elettronica che permette di dare a un messaggio di posta elettronica lo stesso valore legale di una tradizionale raccomandata cartacea, con avviso di ricevimento, garantendo così la prova dell’invio e della consegna (Wikipedia).
Paolo Marcucci ha svolto tutta la sua esperienza lavorativa nel mondo bancario. È stato relatore a convegni/incontri a carattere economico, docenze a master universitari sul risk management. È stato assessore alla cultura e all’industria del Comune di Montelupo Fiorentino. Da sempre interessato alla storia e all’economia locale, la sua ultima pubblicazione è Storia della Banca Cooperativa di Capraia, Montelupo e Vitolini. Una banca territoriale toscana e l’economia locale al tempo della globalizzazione.