Mouchette di Robert Bresson nella critica del tempo

Mario Mancini
51 min readJul 19, 2021

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I film di Robert Bresson nella critica del tempo
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Mouchette è un film di sguardi. Qui il guardiacaccia Mathieu osserva il bracconiere Arséne che sta mettendo una trappola per una pernice.

«È come un vuoto.»
Il bracconiere Arséne

«Li odio tutti, non gliela darò vinta.»
Mouchette

«merde!»
Mouchette al padre

«Sceglierò la ragazzina più maldestra, la meno attrice (…) e cercherò di tirare fuori da lei tutto ciò che essa non riuscirà a supporre che sto tirandole fuori.»
Robert Bresson

«Notre vie est liée aux animaux, indiciblement. Le domaine du cinématographe est le domaine de l’indicible.»
Robert Bresson

Una quattordicenne che nessuno ama incontra per caso, durante un furioso temporale, un bracconiere. Costui le racconta di aver ucciso il guardiacaccia; la ragazza lo aiuta a costruirsi un alibi e lo assiste durante una crisi di epilessia. Ma il bracconiere si è inventato tutto: appena può violenta Mouchette. Giunta a casa, trova la madre morta. Al centro delle chiacchiere di tutto il paese, la ragazzina si annega.

Giovanni Grazzini

Mouchette di Robert Bresson è fra le opere più schiette, semplici e terribili, di gran lunga più raggiunta del precedente Au hasard Balthazar, che negli ultimi tempi si siano viste sullo schermo.

Costruita con tale densità, nel breve spazio di un’ora e venti minuti, da racchiudere il senso di tutto l’itinerario di Bresson verso un cinema non tanto di edificazione religiosa quanto di spiritualità inquieta e bruciante — secondo l’esempio di quel cattolicesimo francese che ha raggiunto in Bernanos una delle massime vette dell’arte.

Mouchette, come sapete, deriva appunto da Bernanos. Poco più di trent’anni fa, con la Nouvelle histoire de Mouchette, Bernanos prese partito contro la violenza esercitata sugli umili. È noto che egli la scrisse nei mesi in cui in Spagna cominciava a infuriare la guerra civile.

Anche se l’epistolario ha smentito che Bernanos sia stato direttamente ispirato dalla vista d’un camion di spagnoli condotti alla morte, l’aver assistito, in quei tempi, a episodi terribili ebbe un valore determinante nello sviluppo del racconto.

«Sono stato colpito — diceva — dall’impossibilità che ha la povera gente di capire il gioco spaventoso in cui la sua vita è implicata; dall’orribile ingiustizia dei potenti, che per condannare questi disgraziati parlano loro una lingua che per loro rimane straniera. E non saprei dire quale ammirazione mi hanno ispirato il coraggio e la dignità con cui ho visto questi disgraziati morire. Naturalmente — aggiungeva Bernanos — non ho preso la decisione di tirar fuori da tutto questo un romanzo. Non mi son detto: voglio trasferire ciò che ho visto nella storia di una ragazzina braccata dalla disgrazia e dall’ingiustizia. Ma è vero che, se non avessi visto queste cose, non avrei scritto la Nouvelle histoire de Mouchette».

Ed è vero, potremmo aggiungere, che se Bresson, guardandosi oggi d’attorno, non avesse visto perpetuarsi la bestialità e la violenza non avrebbe tratto un film dalla Mouchette di Bernanos per cantare la potenza distruttrice e insieme redentrice della sventura.

Perché Mouchette è molto di più d’una pittura dei costumi di provincia, d’una protesta sociale contro quanti non s’adoprano per eliminare la povertà (e nella sostanza è ben altro che un patetico racconto naturalista): è un’analisi agghiacciante di come il male si esprime nella solitudine umana, devasta l’innocenza, e tuttavia, nell’attimo in cui spinge al suicidio la sua vittima, se la vede sfuggire di mano, perché essa diviene l’agnello di Dio.

Mouchette, umile moscerino, strumento misterioso della grazia, è povera, con un solo vestituccio per la festa, maltrattata dal padre, chiusa in una sofferenza che l’età ingrata (ha quattordici anni) acuisce. Va a scuola, non le sono amiche né la maestra né le compagne.

Il suo maligno universo è un paese di gente meschina e alcolizzata, e una misera stanza in penombra, dove ai lamenti della madre morente rispondono gli strilli d’un fratellino in fasce. Mouchette resiste come può: ostinandosi nel silenzio quando a scuola c’è lezione di canto, insozzando di fango le compagne all’uscita.

Ogni sua piccola gioia è umiliata: il padre si fa consegnare i pochi soldi che essa guadagna in un bar, la schiaffeggia quando in un giorno di festa è andata in un luna park, e ha innocentemente sorriso a un ragazzo. Così cresce, in Mouchette, l’odio verso il mondo: soltanto la presenza della madre e la coscienza d’essere indispensabile al bambino per ora la sorreggono.

Un giorno, tornando da scuola, il temporale la sorprende nel bosco. Si perde, viene la notte; Arsenio, un bracconiere che ha avuto col guardacaccia Mathieu un alterco finito nel nulla, la porta nella propria capanna.

È ubriaco, s’accusa di aver ucciso Mathieu, chiede a Mouchette di sostenere l’alibi che egli intende presentare alla polizia. La giovane gli crede e lo soccorre quando egli è vittima d’una crisi epilettica: per lui, dolcemente, riuscirà persino a cantare.

Ma l’uomo, esaltato dall’alcool, non capisce che essa, pur di spezzare la sua solitudine, ha accettato di essergli complice: l’aggira, l’afferra come un volatile spaurito, la violenta. Mouchette non si ribella.

Tornata a casa, in lacrime, dando il latte al fratellino scopre un gesto materno. Vorrebbe confidarsi con la madre, ma le muore sotto gli occhi. Privata dell’ultima speranza, mortificata dalle donne del paese, Mouchette verrà infine a sapere che il guardacaccia è vivo, e che l’alterco fu provocato soltanto dalla rivalità per assicurarsi i favori della barista.

Ora Mouchette è abbandonata da tutti. Basterà che una vecchia le dica che legge il male nei suoi occhi, basterà che assista, nel bosco, alla fine straziante d’una lepre colpita dai cacciatori perché anch’essa si senta una bestia braccata. C’è vicino uno stagno: rotolando dal prato come in un gioco infantile, Mouchette va incontro alla morte. Non la vediamo cadere nell’acqua: sentiamo il tonfo leggero, e il Magnificat di Monteverdi sigilla il suicidio. «Dio abbia misericordia di lei», invocava Bernanos. Bresson va oltre: la esalta come una martire.

È improbabile che questo riassunto riesca a far indovinare la suprema poesia di un racconto tanto ricco nell’evocazione dei luoghi (l’azione è trasportata, modernizzando l’ambiente, dall’Artois alla Provenza), dei personaggi, dell’ambiguità di certe situazioni in cui si esprime, vero nodo lirico dell’opera, la vergogna e l’orgoglio di Mouchette.

Ma quando vedrete il film capirete, se la grazia vi aiuta, che il miracolo di Bresson, oggi compiuto senza riserve, consiste nell’impiegare il cinema non più come spettacolo, ma come un vero e proprio linguaggio, autonomo da Bernanos, per dirci l’idea delle cose con l’evidenza dell’immagine e del suono. Finalmente la letteratura è dimenticata.

Rispetto a Balthazar, col quale Mouchette è evidentemente imparentata nel tema dell’innocenza offesa dal mondo, Bresson ha fatto un gran passo avanti. Uno stile grave e ieratico che spesso rendeva quell’opera tediosa qui si è caricato d’una tale vibrazione visiva, riassunta nell’incrociarsi degli sguardi nell’essenzialità della concezione scenica, da potersi somigliare a un telaio di corde ottiche tese allo spasimo.

Gli attori (come al solito non professionisti: Mouchette ha il volto infelice di Nadine Nortier) riducono al minimo la drammatizzazione. Bresson ha ragione di dire che li ha usati come modelli, al modo d’un pittore. I loro caratteri e le modulazioni psicologiche risultano, più che dallo scarno dialogo o dal gioco mimico, da come il regista li fissa, li muove, ne estrae la dinamica interiore, continuamente reinventando con l‘immagine l’emozione della parola.

Mouchette è un film del quale non ci si stancherebbe mai di parlare. Agli spettatori futuri ricordiamo soltanto alcune scene: la luce che per un attimo brilla in Mouchette quando va sulle automobiline, simbolo di violenza e di gioia; la paura di lei, e poi le sue mani che annodano il bracconiere nel momento dello stupro; quando stringe il fratellino fra le lacrime, e il gioco liberatore in cui essa si uccide. Momenti :che bastano a compensare i piccoli difetti del film e a collocare Mouchette fra i capolavori del cinema contemporaneo.

Da Corriere della Sera, 12 maggio 1967

Robert Bresson

Mouchette è una parabola sul contrasto tra la violenza, la corruzione, il Male ineluttabile del mondo (degli adulti), e l’innocenza di una creatura pura, Mouchette (e dei ragazzi).

Mouchette è una vittima sacrificale, la dimostrazione di come il Male possa distruggere l’innocenza. Per Bresson, il suicidio di Mouchette non è una fine, ma un principio, un’attrattiva per il Cielo, per la Grazia.

L’autore segue la via del giansenismo, secondo cui «la Grazia è un dono speciale, imprevedibile, non per tutti: bisogna sapere sia come riconoscerla che come riceverla. Non è sufficiente che la Grazia sia presente, l’uomo deve scegliere di accoglierla. L’uomo deve scegliere ciò per cui è stato predestinato» (P. Schrader).

Bresson distingue fra il teatro fotografato o CINEMA (i film che riproducono) e il cinematografo (i film che creano). Per Bresson, i film devono creare, rivelare la verità, l’essenza, lo Spirito, attraverso lo svuotamento della rappresentazione: la scrittura del cinematografo sostituisce la rappresentazione del CINEMA.

Il cinematografo non riproduce il già noto del verosimile, ma rivela il mistero nascosto nel noto, connette una radicale esteriorità alla più profonda interiorità (non psicologica ma spirituale), attraverso un realismo divinatorio, la frammentazione dello spazio, l’iterazione delle situazioni, la frontalità di volti iconici (come nell’arte bizantina). Bresson sostituisce il pieno con il frammento, il definito con l’indefinito, il già noto con il segreto. Nel non-umano che è nell’uomo, Bresson trova la Grazia dell’umano, la verità che può essere rivelata nell’interstizio tra un’immagine e l’altra.

Tra personaggio (il soggettivo) e regista (l’oggettivo) si crea una pratica di intercessione: il personaggio permette al regista di esprimere la propria visione, e viceversa. Il soggettivo e l’oggettivo si concatenano, diventano indiscernibili. Il personaggio «si illumina della mia luce e io della sua. C’è uno scambio, un’osmosi. Sono due che si fondono» (Bresson). Il punto di vista della cinepresa non si identifica con quello del personaggio e non ne è al di fuori: è con il personaggio, al suo fianco, incarna un Altrove assoluto.

Tullio Kezich

È tipico dell’orgogliosa modestia di Bresson, regista-autore per eccellenza, il tratto di mettersi al servizio di un precedente letterario: ma fra la sua opera e quella dello scrittore Georges Bernanos (1888–1948) intercorre un rapporto di simbiosi fraterno.

Bernanos scrisse La nuova storia di Mouchette (pubblicato in italiano da Mondadori) nel 1936, a Palma di Maiorca, sotto l’impressione delle fucilazioni in massa ordinate dai franchisti:

«Ebbene, fui colpito dall’impossibilità che hanno i poveracci di comprendere il gioco orrendo in cui è impegnata la loro vita; fui colpito dall’orribile ingiustizia dei potenti che, per condannare questi infelici, parlano loro un linguaggio straniero: c’è in tutto ciò un’odiosa impostura. E poi non saprei esprimere quanta ammirazione mi ispirarono il coraggio, la dignità con la quale ho visto morire questi infelici».

Il tema storico è trasferito simbolicamente nel martirio di Mouchette, ragazzina quattordicenne precipitata in un inferno di alcolismo e di miseria dal quale si può uscire solo con il suicidio.

Come il libro di Bernanos, il film è una perorazione alta e solenne a favore di chi dalla vita non può sperare che la morte. Vi si ritrova una religiosità combattiva e furente, che ricorda gli scritti pastorali di don Milani: un cattolicesimo scomodo e impopolare, ma proprio per questo ricco di fervori culturali.

Benché meno geniale di Balthazar, dove la presenza dell’asino totemico purificava l’espressione dai residui naturalistici, Mouchette reca l’impronta della personalità di Bresson, il razionale calore di un impegno totale.

Da Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967–1977, Edizioni Il Formichiere

Aggeo Savioli

Dal nostro inviato a Cannes.
Come previsto, Mouchette di Robert Bresson si è piazzato d’impeto tra i primi concorrenti alle palme del Festival di Cannes, che domani chiuderà i suoi battenti, all’augusta presenza di Brigitte Bardot (madrina della serata sarà la nostra Virna Lisi), dopo sedici giorni d’intenso, diseguale svolgimento.

Mouchette, non è forse quel capolavoro che hanno acclamato numerosi colleghi francesi (i quali, beati loro, incontrano la perfezione assoluta a ogni angolo di strada): ma è certo un’opera di superiore, severa bellezza, in cui Bresson, nuovamente a contatto con il mondo di Georges Bernanos (ispiratore già, nel 1951, del Diario d’un curato di campagna), ritrova la sua vena più profonda, più limpida, più viva.

Il film è un’opera di superiore, severa bellezza, in cui Bresson, nuovamente a contatto con il mondo di Georges Bernanos (ispiratore già, nel 1951, del Diario d’un curato di campagna), ritrova la sua vena più profonda, più limpida, più viva. Bernanos scrisse la Nouvelle histoire de Mouchette nel 1937, sull’onda dell’emozione suscitata in lui dalla tragica esperienza spagnola, della quale avrebbe dato testimonianza — quegli stessi anni — nei Grandi cimiteri sotto la luna: atto di accusa al fascismo e ai suoi complici. tanto più sconvolgente in quanto proveniva dalla penna d’un uomo di culture cattolico osservante e di tendenze moderate, anzi legittimiste.

Bernanos scrisse la Nouvelle histoire de Mouchette nel 1937, sull’onda dell’emozione suscitata in lui dalla tragica esperienza spagnola, della quale avrebbe dato testimonianza — quegli stessi anni — nei Grandi cimiteri sotto la luna: atto di accusa al fascismo e ai suoi complici, tanto più sconvolgente in quanto proveniva dalla penna d’un uomo di cultura cattolico osservante e di tendenze moderate, anzi legittimiste.

Non è arbitrario dunque scorgere in prospettiva, dietro il dramma della piccola protagonista, l’incubo di una società e di una civiltà — quella francese, in primo luogo — ormai quasi travolta dal male allevato dentro di sé: un male forse metafisico. per Bernanos (e oggi per Bresson), ma calato e comprovato nella spietata dialettica della storia. Questo « secondo significato » del racconto si perde o si attenua, nella traduzione cinematografica, riportata ai nostri giorni. Tuttavia la vicenda di Mouchette. della sua breve vita e della sua morte, ci tocca e ci riguarda molto, molto più dell’apologo evangelico dell’asino Balthazar.

Appena adolescente, isolata dalle sue compagne e dai “grandi”, Mouchette resiste caparbiamente alla violenza, occulta o palese, che l’assedia da ogni lato: nella scuola, dove una maestra imbecille la maltratta per la sua povertà e la sua goffaggine; per le vie di un paese inebetito dalla meschinità materiale e morale, dalla diffusa ubriachezza: in casa, tra una madre gravemente inferma, un padre mezzo alcolizzato e un fratellino m fasce.

Una sera, sperdutasi nel bosco al ritorno da scuola, e sorpresa dall’uragano. Mouchette s’imbatte in un bracconiere, che per questioni di donne e d’altro si è picchiato con il guardiacaccia e che le dice di averlo ucciso: ella gli offre volentieri la sua solidarietà, poiché detesta tutte le incarnazioni dell’autorità (paterna o statale che sia): e finisce per essere posseduta dallo sciagurato.

L’indomani la madre muore, e — colpo ancora più duro — Mouchette scopre che il guardacaccia gode ottima salute. Allora, con muta determinazione, si annega nello stagno.

Immagini spoglie, avvolte da una luce fredda (la fotografia in bianco e nero, è di Ghislain Cloquet), dialoghi scarni, una recitazione sottilmente straniata, un sonoro che scandisce i rumori dei giorni e delle stagioni: all’inizio e alla fine poche, sublimi battute del Magnificat di Monteverdi.

Conoscevamo già l’ascesi espressiva di Bresson: qui dopo aver riscattato i pericoli del manierismo in Alla ventura, Balthazar, essa si fa di nuovo stile. I simboli sono ridotti al minimo (solo qualcuno di essi stride come pleonastico): le metafore provengono direttamente dalla realtà, s’identificano in essa. Mouchette gioca al Luna park, guidando un’automobilina: è allegra per breve tempo: ma gli urti delle altre vetture spezzano di continuo il riso sulle labbra.

Nella scena dello stupro, attrazione e disgusto si mescolano nel suo atteggiamento. In quella del suicidio, la terribile, adulta decisione si manifesta nei modi d’uno scherzo infantile: Mouchette si lascia rotolare giù per il pendio, tra l’erba e le foglie, sino a piombare nell’acqua.

Sono tre momenti, fra i più alti, di questo mirabile film, che non ci consola delle sventure umane, ma ci spinge a prenderne coscienza, a odiarle, a opporci ad esse: anche se la crudele sorte di Mouchette potrà essere catalogata, da qualcuno, nel campo dell’inevitabile.

Magistrale, come sempre, la condotta degli attori, generalmente non professionisti: in

mezzo ai quali fa spicco il volto, straziante più che patetico, di Nadine Nortier.

Da L’Unità, 1 maggio 1968

Callisto Cosulich

Robert Bresson, un regista da noi quasi ignorato, ma che è forse il più grande, il più puro a operare oggi nel caotico mondodel cinema.

George» Bernanos cominciò a scrivere la Nuove storie di Mouchette alle Baleari nel 1936, vedendo alcuni spagnoli coperti di polvere, che venivano portati via sotto sorta annata da un camion, in attesa di essere fucilati. «Era la sola cosa di cui avevano idea», ha detto lo scrittore, «per il resto non capivano… Sono stato colpito da questa impossibilità che la povera gente ha di capire il gioco orrendo nella quale è impegnata la loro vita…». Mouchette, come le vittime della guerra civile, è anch‘essa impegnata in un « orrendo gioco che non riesce a capire: la miseria, il disamore, la bestialità degli uomini che la circondano.

In un mondo irrimediabilmente ostile, questa ragazzina alle soglie dell’adolescenza si muove come un guerrigliero nel territorio nemico. Si batte come un toro selvaggio nell’arena, come i tori, la sua unica possibilità è quella di battersi bene: non può evitare né i «banderilleros» né i «picadores», che nella fattispecie sono il padre che la picchia, la maestra che l’umilia, il bracconiere che la stupra. Cerca disperatamente una via d’uscita e non la trova che nel suicidio: la fuga verso un altro mondo, di cui qualcuno le aveva predicato l’esistenza.

Bernanos è uno scrittore profondamente cattolico e, proprio perché tale, porta alla sublimazione un atto che la fede condanna. Il suicidio di Mouchette si giustifica, anzi si santifica, perché commesso in uno stato di perfetta innocenza da una pura di cuore che cerca istintivamente in un’altra dimensione quella sete d’amore e di comprensione che la vita terrena le preclude. Lo scrittore ha verso di lei l’atteggiamento del sacerdote che accompagna al patibolo il condannato a morte: l’assiste amorevolmente, implora da Dio quella grazia che gli uomini le hanno negata. La tenerezza che egli prova verso la sua eroina è testimoniata dallo stile del romanzo, dalle parole che egli usa per descrivere le sventure e giustificare le reazioni di Mouchette. Nel film, che Bresson ha tratto dal romanzo, la sublimazione del personaggio e del suo suicidio è restituita con estrema fedeltà e, nello stesso tempo, con estrema libertà.

Proprio il contrario di quello che generalmente avviene quando un film traduce in immagini un’opera letteraria. Mouchette di Bresson non vive di vita riflessa: è perfettamente autonomo (pur nella sua aderenza allo spirito di Bernanos) e lo spettatore non ha alcun bisogno di leggere il libro per completare e arricchire l’emozione provocatagli dal film.

Anzi, se dovessimo fare una questione di qualità, diremmo che il film, al paragone, finisce per emergere. Mentre lo stile letterario di Bernanos disperde le sue migliori intuizioni in un tessuto spesso pesante e retorico, lo stile cinematografico di Bresson conserva quasi sempre una purezza e un rigore esemplari. Il fatto è che Bernanos è un valoroso romanziere fra tanti, mentre Bresson è un cineasta che non ha uguali, è un autore che nel cinema sta a un livello pari a quello letterario di un Proust, cioè su di un piano nettamente superiore a Bernanos.

Con Bresson, cioè, siamo veramente nei «quartieri alti » del cinema e, se l’autore di Mouchette non è conosciuto in Italia quanto, per esempio Bergman ciò dipende soprattutto dalla casualità e dall’insufficienza della «propaganda culturale» nel cinema. L’ultimo incontro del pubblico italiano con Bresson risale a oltre dieci anni fa, quando venne presentato Un condannato a morte è fuggito. Dieci anmi nel cinema sono molti: una intera generazione di spettatori è nata nel frattempo. A questa generazione di spettatori è affidato il Bresson sui nostri schermi, un ritorno difficile, perché Bresson si distacca cinema tradizionale quanto dalle suggestioni del nuovo cinema.

Vedere un film di Bresson è come leggere un buon libro e il senso della lettura è accentuato dall’inimitabile stile recitativo cui egli obbliga i suoi attori che non sono né attori professionisti né volti presi dalla strada, ma esecutori impassibili di gesti e di parole dettatigli dal regista.

Il miracolo avviene quando questa impassibilità, apparentemente disumana, si amalgama all’immagine superando di un balzo i territori ormai fin troppo frequentati della psicologia e della sociologia. ci porta nella sfera sempre nuova e sempre vergine della poesia. Mouchette, probabilmente, non è il film più libero e ispirato di Bres son, ma, per un riaccostamento all’opera di un grande artista, serve egregiamente allo scopo.

Da ABC, 1968, Anno IX/numero 19 — maggio 1968, pag. 36

Gianni Volpi

1 Detestiamo il cinema detta pietà e degli eterni sentimenti, detestiamo gli embrassons-nous ecumenici, e i messaggi di un umanitarismo al servizio della reazione, fatti apposta per coprire la vera natura delle cose e i rapporti reali tra gli uomini. Parole dure, efficaci, impietose che svelino crudamente qual è la nostra condizione e come stanno le cose, questo ci è necessario. Ha qui la propria radice, il nostro interesse per Bresson. I suoi film stanno a mostrare quello che lo spiritualismo di un certo tipo può dare, quando in nome di valori “altri” non segni una resa alle parvenze e l’acquiescenza al mondo qual è, bensì, vissuto con il rigore delle estreme possibilità, rivendichi la dura necessita del giudizio, della conoscenza e della verità per toccare il fondo di una condizione mondana e portare lo sguardo sui problemi fondamentali dell’uomo.

2 “Mouchette” è un resoconto secco, brullo, essenziale di una disperazione assoluta, una testimonianza di negazione definitiva, di impossibilità di trovare ragioni positive del vivere, in opposizione all’orrore della società, alle sue strutture di oppressione, fatica, solitudine, miseria, identificate con le strutture del l’universo stesso, la regola che governa la natura e l’intera vita umana, per la quale non c’è conforto possibile se non la morte, scelta come quiete, rifugio. Le placide acque dello stagno si richiudono sul corpo di Mouchette (la sublimazione nella morte, resa con la musica di Monteverdi). Nel discorso scarno di Bresson circola l’antico pessimismo cattolico sulla natura e sull’uomo, il mondo è violenza, materia, miseria: Peccato; ai senza speranza darò un altro mondo.
Ma Bresson non sfugge la terra per la tangente dello spirito, al contrario per la mediazione dello spirito ricerca una illuminazione più penetrante della condizione mondana. Ed è qui il punto che lo distanzia enormemente da altre esperienze similari della cultura cattolica e fa sì che il suo discorso ci riguardi da vicino.
Di contro ad un cattolicesimo “comprensivo” e “celeste”, dove tutto è ridotto ad un problema interno alla coscienza cattolica, di peccato e rimorso in un’atmosfera morbida e autocompiaciuta, l’opera di Bresson costituisce un rifiuto totale della riduzione della religione ai trasalimenti dell’anima, ai sussulti della coscienza (alla maniera del recente Bergman), così come delle soluzioni puramente confessionali, fintamente candide e ingenue e fidenti in Dio, cioè le prediche e i dogmi. È, quella di Bresson, una religione che si radica nel mondo e si incentra sul confronto-scontro dell’uomo con le cose, con la dura, opaca, bruta realtà.

3 Naturalmente il discorso di Bresson porta diritto ai problemi essenziali” della condizione umana, supera di continuo le dimensioni della cronaca, dell’attualità, della vicenda contadina per proporsi come metafora del rapporto dell’uomo con il mondo. L’uomo e il mondo.
Mouchette riproduce la condizione tipica degli eroi bressoniani, che sono dominati e subiscono la violenza del mondo e sono pur tentati dall’azione, dalla liberazione, dalla salvezza, e per di là si ricongiunge al condannato a morte, al ladruncolo, a Giovanna, a Balthazar e alla sua padroncina.
Ancora una volta, la ricerca bressoniana s’impernia sul motivo dell’uomo di fronte a strutture oppressive, che possono essere via via l’occupazione nazista, la corruzione delle gerarchie ecclesiastiche, le istituzioni del sistema sociale, le condizioni di sottosviluppo di certe zone agricole.
Quella di Mouchette è una storia di disperazione economica, di aspra oppressione della miseria, di crudeltà che nasce e si nutre dalla solitudine e dall’odio degli altri, in un ambiente contadino descritto con colori cupi, fra fatica, morte, sofferenza inflitta o patita ed i poveri ed inutili conforti del vino e del sesso.
Una stretta violenta e subita tra le braccia di un ubriaco epilettico riassume tutto l’amore che una ragazzina di 14 anni ha ricevuto dal mondo. Nella ricerca di una verità dura e assoluta, Bresson non arretra davanti all’atroce e all’eccesso, mostra l’attacco di epilessia fino in fondo dei rantoli e della sbavatura, tra i sussulti di un corpo in balìa dell’abbrutimento fisico e le maldestre cure di una bambina.
E, tema centrale ed ossessivo, la violenza nella sua veste primordiale, fisica, di offesa corporale, percorre tutto l’universo bressoniano; lo scatenamento bestiale, la forza bruta usata ad ogni piè sospinto, modo di far sentire le proprie ragioni e sola rivalsa contro l’orrore del mondo, come momento di illusiva negazione della propria impotenza, costituiscono luoghi archetipici; le scene di pestaggio senza freni sono ricorrenti nei suoi film (la rissa tra il bracconiere e il guardiacaccia nella melma del torrente, ad esempio) e la “crudeltà pubblica”, trova il proprio prolungamento nel mondo degli animali: la pernice presa al laccio della tagliola che si dibatte disperatamente o l’uccisione della lepre e i sussulti della sua lenta agonia.
Le strutture dell’universo sono caratterizzate dalla violenza, declinata in tutte le sue varianti, fisiche o morali. Accanto a queste manifestazioni di crudeltà fisica, esiste una più profonda violenza morale, un’offesa da parte del mondo che non conosce intermittenze, massiccia e irrimediabile, che produce lacerazioni in un’anima, che non prospettano altra soluzione “naturale” che il suicidio.
La scena dell’uscita dalla scuola, in cui Mouchette si nasconde lungo l’argine della massicciata stradale, le compagne fanno la giravolta attorno alla ringhiera, bertucce mostruose che mostrano le mutandine, Mouchette tira loro manciate di mota, scava fino in fondo ad una disperazione radicale e solitaria, illumina fino a che punto è patito l’orrore, la violenza del mondo.
Il lucido, sereno, “naturale” suicidio, quasi una sorta di gioco provato e riprovato, un lento lasciarsi rotolare lungo la china, fino alla volta che cadrà in acqua, ed appunto per contrasto raggrinzante e terribile, s’innesta al culmine del calvario di Mouchette, che dopo aver conosciuto il fondo della degradazione fisica nella morte della madre, esperisce attraverso le tre tappe degli emblematici incontri con la droghiera, la vedova, il guardiacaccia e la moglie, la feccia della malvagità e grettezza ed offesa umane che si annidano sotto il volto della gentilezza e della pietà soccorritrice.
Nonostante il suo ostinato dibattersi e la volontà attiva di salvezza, Mouchette soccombe infine alla crudeltà pubblica, al mondo.
«C’è nella sua avventura qualcosa della corsa del toro: sapete, il toro che lotta fino al termine delle forze contro le picche, contro le banderillas, contro la spada, contro gli uomini coalizzati che lo incalzano. Il suicidio di Mouchette non è un suicidio propriamente detto; ai miei occhi è la morte del toro che si è ben battuto e che non può più fare altro che tendere il collo», diceva Bernanos della sua eroina.
E Bresson carica la vicenda di una disperazione più nera, mette l’accento sulla fatalità del destino e l’ineluttabilità della sconfitta; e, se in Bernanos tutto era riscattato dall’ottimismo in Dio, Bresson non riesce ad individuare spiragli di luce («tutto andava esaurito dalla rapina del dolore»), la stessa dimensione religiosa non va oltre l’indicazione, l’accenno, dato con null’altro che il “Magnificat” di Monteverdi in apertura e chiusura del film.
Rivendicando a sé le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore, nulla rimaneva alla possibilità. La ineluttabile logicità del suicidio di Mouchette e la coscienza in Bresson di non avere ragioni da opporle sono il segno della risposta disperata che la religione può dare in un momento di oppressione sociale e di fronte ad un orrore tanto atroce di esistenza: una opposizione negatrice ancora più radicale, il no tragico ed assoluto, il rifiuto senza remissione di tutti i conforti e le consolazioni comuni, di tutti i facili inganni costruiti a nascondere l’orrore.

4 Tuttavia è chiaro che la dimensione, in cui sono prospettate le cose, non è quella della storia, bensì quella dello spirito; la religione di Bresson non costituisce un motivo di evasione dalla realtà, non oblitera la mondanità, ma in essa ricerca lo spirito, una Realtà assoluta. Naturalmente il medium, in cui questa visione del mondo si incarna, è dato dal linguaggio, al duplice livello dello stile e della struttura.
Lo stile. Tante volte è già stato messo in rilievo il giansenismo stilistico di Bresson: la radicale depurazione della realtà di tutto elemento aleatorio, divagante, pletorico; la riduzione ossessiva, quasi maniaca, di una situazione, un ambiente, un tipo ad un particolare illuminante, che porti sull’essenziale, la verità, l’anima. Ci sono occhi che spiano tra le canne, occhi che vigilano in agguato, sguardi fulminei tra padre e figlia all’osteria, sguardi pieni di dolore.
Ci sono mani che scaricano furtivamente delle casse, mani che si stringono, mani che afferrano il bicchiere. Ombre passano nella notte, i fari e il rumore di un camion in transito: è meglio lasciar campo libero all’immaginazione; puntare sull’orecchio che è molto più creatore dell’occhio, l’occhio è pigro, l’orecchio al contrario inventa. “Il cinema è l’arte di non mostrare niente”.
Nasce quel suo stile austero, spoglio, che tende a negare il movimento esteriore detrazione drammatica e a svalorizzare i fatti esterni per ricercare, invece, una tensione interiore, la suspense antidrammatica dei sentimenti, delle reazioni. In una vicenda ricca di fatti, di azioni violente, come quella di Mouchette, quello che interessa a Bresson è “stare costantemente, assolutamente, su un viso: il viso di questa ragazzina, per vedere le sue reazioni”. Vale a dire, una scelta stilistica, che sottende un preciso rigore morale, di rinuncia ascetica ad ogni descrittivismo a favori di brandelli di vita autentica, di frammenti rivelatori di una verità assoluta.
La struttura. I film di Bresson sono costruiti attorno ad un personaggio centrale, che viene analizzato in tutta la sua complessità e a cui sono attribuiti gesti significativi d’una presa di posizione caratteriale, d’una reazione folgorante alle cose e agli accadimenti, di fronte sta il mondo esterno, statico e muto, che scompare in quanto ambiente storico e sociale preciso e diventa l’altro da sé con cui l’individuo deve inevitabilmente misurarsi, ma di cui Bresson si dimostra incapace di comprendere le ragioni e le coordinate storiche.
Quelle che Bresson descrive non sono le strutture della campagna e della società francesi, bensì sono le strutture dell’Universo. Con “Mouchette”, Bresson non racconta la storia di un uomo, che ha di fronte il mondo, la società, la storia, bensì ripropone la vicenda eterna dell’Uomo, che si misura con il Mondo e la Vita.
Trova, forse, qui la propria ragione l’intransigente opposizione di Bresson agli attori professionali, con tutto il loro repertorio di tecnica della recitazione. il gestire da marionetta, le smorfie, la mimica perpetua, la voce impostata. In contrapposto, una persona presa dalla strada costituisce materia vergine, bruta, che porta alla creazione il suo corpo, i suoi muscoli, il suo sangue, i| suo spirito.
L’attore si proietta fuori, si esteriorizza, il non-attore si interiorizza; quello semplifica (= impoverisce), questo vi porta la naturale complessità di un uomo; l’uno fa leva sull’illusione mimetica, sfoggia il proprio virtuosismo tecnico, l’altro porta la rassomiglianza morale al personaggio, il vero di un’esistenza; in breve, Bresson sceglie di creare attraverso il disvelarsi di un essere piuttosto che attraverso la finzione di una tecnica.
Esterno (= superficiale) e interiore (= profondo), apparenza ed essenza, falso e vero (Vero). Quella che è una posizione insostenibile sul piano dell’apriori teorico, acquista una sua validità feconda all’interno di una scelta di poetica. E, “prendendo una ragazzina di 14 anni, inconsapevole dei suoi gesti quanto è possibile, e abbandonandola nell’azione del film”, “sorprendendola” nei suoi gesti più quotidiani, mentre si tira su le calze di lana grossa, mette a bollire il latte, calma il bebè o canta a scuola, rubandone gli sguardi, furtivi o folgoranti, tra padre e figlia all’osteria, o dopo la consegna dei pochi denari o dopo lo schiaffo. Bresson arriva ad esprimere quella che è la spiritualità dell’uomo.
Sì Dunque, la religione di Bresson non assume una dimensione irrelata di colloquio di un’anima con se stessa e di fronte a Dio, al contrario porta diritto ai problemi fondamentali dell’uomo, della sua condizione mondana: la Libertà, la coerenza con se stessi, la violenza del mondo, l’annichilimento dell’Individuo, e così via.
La sua prospettiva spiritualistica è portata all’estremo del rigore e del pessimismo, invece di contentarsi delle mezze-verità e delle facili consolazioni, o di una “pietà” comprensiva, alla maniera di tanto cinema contemporaneo, tanto spiritualista che “impegnato” che avanguardistico tutti incapaci sostanzialmente di verità. Bresson passa le cose al vaglio di uno sguardo non-conciliato, cattivo e disperato, e penetra fino in fondo al tragico della condizione umana.
Tuttavia il suo spiritualismo lo porta a prospettare le cose sotto specie di eternità, a ricercare in esse la vicenda eterna dell’Uomo e della Vita; cioè la lezione di Bresson, proprio per la sua altezza ed esemplarità, ripropone ancora una volta il limite invalicabile di ogni spiritualismo: di sostituire il tragico di un pessimismo esistenziale al difficile e al doloroso della ragione, della storia.

Da Ombre Rosse, Anno I, numero 3 dicembre 1967, pagg. 35–40

Mino Argentieri

Mouchette di Bresson scaturisce da un preciso angolo visuale: nessuna vibrazione sensuale, ascetismo severo nella forma, geometria inflessibile dell’architettura narrativa, fredda plasticità dell’immagine, rigorismo spirituale, intima e sofferta religiosità. Le tinte della tela sono grigie tanto quanto l’orizzonte su cui si posa, come una lama affilata, lo sguardo del poeta.

È nuovamente di scena la provincia francese, ma la provincia di Bernanos, microcosmo che emblematizza i mali dell’umanità, cosi come li intende il nervo sensibile di un artista tormentato da un pessimismo pervicace, da una sincera indignazione per le mortificazioni inflitte al consorzio umano, per la carenza di amore.

Scritto ne. 1936, nel pieno di una crisi e di un ripensamento generati dalla conflagrazione civile spagnola, Mouchette rappresenta, parimenti a I grandi cimiteri sotto la luna, la conversione di uno scrittore cattolico legittimista alla causa degli umili che s’identificherà nella repubblica invisa ai generali rivoltosi, agli agrari, all’aristocrazia del clero, ai fascisti. L’opera letteraria è trepidante di simpatia e solidarietà per il personaggio di una bambina che s’innalza a simbolo della sofferenza che i semplici patiscono in una società accomodata nella peggiore delle maniere prevedibili.

Bresson vi attinge a piene mani, ma destoricizzandone le implicazioni ed è comprensibile che sia cosi. Ciò che lo interessa è universalizzare e assolutizzare il messaggio proveniente dalla parabola di Mouchette. cui si nega la possibilità di una vera comunicazione e comprensione.

Circondata da un ambiente gretto, opaco e ostile, nella migliore delle ipotesi indifferente; calata in una palude dove dominano sovrani l’egoismo, la menzogna, l’alcool, le beghe personali, il silenzio dell’anima, il sonno della coscienza e dove la nozione di “altri” è sconosciuta e l’inganno si accompagna ad una violenza ora impalpabile ora tangibile; respinta da chiunque, non le resta che rinchiudersi nella sua innocenza fatta di solitudine e scontrosità, e morire, rotolandosi nei pressi di uno specchio d’acqua, per ritrovare una pace superiore, per ascendere a una sublime liberazione.

Già ci è capitato di notare, quando recensimmo Au hasard Balthazar, che la spiritualità intimamente religiosa di Robert Bresson non ci convince per il ritardo che essa porta nel considerare, rispetto all’evoluzione del pensiero religioso, il regno della terra quale fase transitoria, anello congiuntivo ad una vera ed effettiva realizzazione da verificarsi nell’al di là, ripercorrendo il cammino di un processo sacrificale.

In ultima analisi, e Mouchette lo riprova, se la partecipazione di Bresson alla tragedia umana è sentita e dolorosa e si traduce in una fustigante denuncia del cumulo di orrori cui gli uomini assistono e di cui sono protagonisti o complici, o vittime, ciò non elimina che la sua fede in una soluzione rinviata alla cristiana liberazione della morte dagli affanni e dall’impurità, appartenga a una concezione culturalmente e storicamente sorpassata, ancora incapace di scorgere, alla luce della più progredita teologia, il punto in cui immanenza e trascendenza s’incontrano nel disegno di una possibilità costruttiva terrena e nella prospettiva di una soluzione di continuità.

Certamente allorché Bresson condanna la sordità della vicenda terrena presuppone l’anelito al suo superamento, ma non ci pare che egli intuisca, anche in Mouchette, altro balsamo, altro antidoto al di fuori di una riserva di amore inutilizzato e inutilizzabile che si sublima in un sacrificio estremo, salvacondotto per una eterna pienezza.

In Mouchette, non meno che in Au hasard Balthazar, l’armamentario cui il regista ricorre è quello collaudato dalla narrativa naturalistica: famiglie bersagliate dalle malattie e dalla decadenza fisiologica, ottusità contadina, desideri proibiti che covano sotto la cenere, miseria, superstizioni, crudeltà giovanili, sadismo morale, rancore e odi provinciali.

Lo stile di Bresson, tuttavia, trascende i materiali usati e abusati, li raggela, li ritaglia da un contesto storicizzabile, li trasforma in categorie perenni, in altrettanti rivestimenti, in altrettante personificazioni di astratte entità. E in questa trasformazione il rigore dello stilista e la sua coerenza sono tali da agevolare il conseguimento del massimo distacco critico in chi non condivide né la poetica dell’autore né il suo humus culturale.

Nella esemplare essenzialità del segno, nella tensione che vibra concentrata in una scarna cine-drammaturgia degli atti e dei gesti, nella potenza della figura umana ritratta da Bresson e fissata una volta per sempre nella partitura del film, nella scansione del ritmo interno, nella nudità del tessuto compositivo, nella solenne musicalità dell’andamento narrativo c’è il segreto di un’arte indiscutibile, geniale e ispirata, di fronte a cui è doveroso inchinarsi e riconoscere che nasce da un’intensa passione.

Da Rinascita, Anno XXV, numero 19, maggio 1968, pagg. 25–26

Adelio Ferrero e Nuccio Lodato

Lo sguardo impietoso di Balthazar e la delusa esperienza del mondo da parte di Marie ritornano in Mouchette, girato rapidamente, con una felicità creativa non consueta in Bresson, nell’autunno 1966. Anche Mouchette è un film sulla delusione di uno sguardo puro che, posandosi sul mondo ed essendone irrimediabilmente offeso, ferito, se ne ritrae con una separazione irrevocabile e definitiva.

Ma meno segreto, più aspro e sgraziato di Balthazar, battuto da una ventata di collera e disperazione che indurisce le pieghe del racconto, turba la limpidezza di oggettivazione delle immagini, ed esplode talvolta in un gesto, o anche soltanto in una parola, che scopre la violenza irriconciliata del rifiuto, l’ansia di realizzazione che, delusa, si rovescia in negazione frontale, senza ritorno.

L’inimicizia tra il bracconiere Arsène e il guardiacaccia Mathieu coincide con la rivalità innescata dalla barista Louisa, contesa tra i due. Nella scuola del paese, le altre alunne e la stessa maestra umiliano ed emarginano Mouchette, ragazzina proveniente da una famiglia totalmente deprivata (padre e figlio, alcolizzati e dediti al contrabbando di alcool, madre malata), che si vendica all’uscita gettando pugni di terra alle compagne più curate.

La giornata domenicale e la frequenza della chiesa evidenziano come Mouchette odi il padre, che la costringe a servire al bar per ottenerne poche monete da spendere bevendo. Gli è vicino il guardiacaccia, che fissa come sempre la barista. Questa lo ingelosisce accettando al luna-park un giro in giostra con Arsène. Anche Mouchette si diverte sull’autopista, ma il padre la separa bruscamente da un ragazzo che sembrava interessato a lei.

Il giorno dopo, la ragazza fugge nel bosco dopo la consueta dimostrazione di ostilità alle compagne. Assiste non vista a un ennesimo litigio tra Arsène e Mathieu, che pare al momento risolversi. Scoperta da Arsène, è da lui condotta in una capanna e apparentemente confortata. L’uomo la lascia sola, e poco dopo si avverte una detonazione.

Al rientro, il bracconiere è agitato e intento a cancellare tracce. Le confida di temere d’aver ucciso l’avversario tra i fumi dell’alcool, e la istruisce sulla versione scagionante per sé da fornire eventualmente ove interrogata. Colpito da crisi epilettica e assistito da Mouchette, al momento di riaversi, reagisce con rabbia alle parole della ragazza che gli rammentano l’eventuale delitto, e giunge a violentarla.

Riguadagnata la propria dimora, Mouchette vi trova il fratellino in lacrime e la madre morente. Fa riavere col latte il primo, e conforta con l’acquavite la seconda, che esala l’ultimo respiro. Piange sconsolata, mentre il dolore ipocrita di padre e fratello nel frattempo a loro volta rientrati la irrita.

La mattina dopo, reagisce scostante alle attenzioni della droghiera, che le ostenta cordoglio ma pare interessata soprattutto ai segni della violenza che ha subito. Si reca a casa di Mathieu, constatando che è vivo e vegeto: ha una discussione con lui e sua moglie, che conclude dichiarando sprezzante che Arsène è il suo amante e la proteggerà.

Tratta male anche un’anziana che le offre degli abiti e le parla della pietà insita nell’antico culto dei morti. Entra nel bosco col pacco dei vestiti, e assiste a un’orrenda fase di caccia alla lepre da parte di tre cacciatori.

Giunta sulla riva in pendenza di un corso d’acqua, estrae dall’Involto un abito bianco e se lo drappeggia addosso. Gioca a rotolare verso il torrente; si arresta, tentando invano di attrarre l’attenzione di un trattorista di passaggio. Rotola in direzione dell’acqua una seconda volta, arrestandosi. Alla terza, si inabissa con uno scroscio definitivo.

L’autore sembra perseguire un perfetto accordo, tutto interno, ovviamente, alla sua esperienza poetica, non sfiorato da sollecitazioni fuorvianti (la produzione, il pubblico, ecc.), tra la struttura polifonica di Balthazar e la monodia dei film precedenti. Ritroviamo infatti, nel segno della “predestinazione”, un personaggio centrale che riempie tutto il film: e quando Mouchette non è in campo, il campo è il suo sguardo che si posa su cose e persone spogliandole (tranne una, come vedremo: ma la delusione sarà insostenibile) di ogni finzione e falsa sollecitudine.

Ma lo spazio in cui questo sguardo, braccato ma non vinto, si protende e si spegne (il villaggio, la scuola, la casa, Fosteria, la capanna nel bosco; e i poveri esseri che lo attraversano) ha un’estensione e una capacità di incidenza, sul destino del personaggio, che richiamano Balthazar.

A questa complessa unità del risultato contribuisce il nuovo “incontro” del regista con Bernanos: il Bernanos di Nuova storia di Mouchette, dove lo scrittore riprendeva, nel 1936, il nome e la «tragica solitudine» di un personaggio del suo primo romanzo (Sotto il sole di Satana, 1925). La “fedeltà” di Bresson al senso del libro è, anche questa volta, rigorosa e sostanziale, soprattutto nei dialoghi (quasi integralmente trasferiti, almeno i più significativi, nel film).

Fedeltà rafforzata dalla riscoperta del “bressonismo” ante-litteram di certe intuizioni di Bernanos: a proposito, ad esempio, della «prodigiosa facoltà di espressione delle mani umane, mille volte più rivelatrici degli occhi… non altrettanto abili a mentire» (Bernanos, Nuova storia di Mouchette, tr.it. Ariento, Mondadori, 1964).

Ma non mancano, da parte di Bresson, interventi sensibili sul testo e varianti essenziali: il prologo in chiesa è voluto dal regista, così come la sequenza dell’autopista; maggiore spazio acquistano ambienti e figure laterali (l’osteria e lo squallido “triangolo” Arsène-Louisa-Mathieu). E si avverte, in certe scelte, un indurimento della materia che modifica l’equilibrio complessivo del romanzo (il «bellissimo Arsène» di Bernanos) ricorda piuttosto la miseria e lo squallore di Arnold — l’attore non a caso è lo stesso — in Balthazar, ma un Arnold più insidioso e protervo); e non deve essere sottovalutata l’impercettibile (e invece decisiva) modificazione di alcuni particolari: nel romanzo, i due ragazzi che insultano Mouchette, gridandole «muso di topo» ogni volta che passa, la risparmiano il giorno in cui le muore la madre, in Bresson no.

Ma la differenziazione sostanziale avviene al livello della scrittura e della sua strutturazione interna. In Bernanos, il racconto in terza persona è continuamente disaggregato dalla incoercibile propensione a frugare anche le pieghe più riposte della sua eroina, a riempirne il silenzio selvaggio, a rivestirne di parole «l’aspra coscienza della propria miseria», «la vergogna cieca della carne e del sangue».

È questa probabilmente, l’«enfasi» che Bresson diceva di non amare in Bernanos (Questionnaire à R. Bresson, «l’Avant-Scène Cinéma», n. 80, 1968). E così, mentre lo scrittore stringe e contrae l’azione e amplifica smisuratamente il “commento”, non celandosi dietro i pochi fatti e i poveri comportamenti ma investendoli senza tregua della propria rilettura morale e religiosa, il regista, all’opposto, allenta i tempi, dilata la contratta unità del racconto (racchiuso in meno di ventiquattro ore, tra il tardo pomeriggio di un sabato e una domenica mattina), aprendo un obiettivo più ampio sull’esistenza di Mouchette e lasciando, naturalmente, che la trasparenza spirituale degli accadimenti affiori alla superficie dei fatti e dei gesti stessi, senza alcuna sovrapposizione o ridondanza.

Si può dunque essere d’accordo con Estève («Cineforum», n. 67, 1967) quando avverte, nel romanzo, lo svolgersi di ogni avvenimento su due piani, quello “sensibile” e quello “soprannaturale”, ma non quando, più o meno esplicitamente, rimprovera a Bresson l’attenuazione e l’offuscamento del secondo.

Perché la “predestinazione”, nel film, fa corpo integralmente con le cose che, fin dalle prime immagini, rinviano a una durata che ne trascende la nuda immediatezza e anticipa il senso di quel che vedremo: la figura della madre, impietrita in una solitudine alla quale dal silenzio oscuro della chiesa non può venire alcuna risposta, è ciò che Mouchette potrebbe diventare se non decidesse di respingere da sé l’esistenza, di separarsene una volta per tutte; mentre i primi piani del nodo scorsoio del bracconiere, delle mani che preparano meticolosamente l’agguato e dell’inutile dibattersi della pernice presa al laccio, anticipano il rapporto — l’unico, ma crudamente rivelatore — che la protagonista avrà con l’uomo.

E tutta l’ambientazione non farà che accentuare questo dato di fondo, della tristezza e fatica del vivere. L’osteria del paese e la casa di Mouchette, luoghi deputati di questo desolato “mistero” bressoniano, circoscrivono una realtà fatta di miseria, malattia, alcool, scomodità e sgradevolezza del vivere insieme, un paesaggio morale il cui fondo naturalistico viene riscattato, ma non del tutto assorbito, dalla compostezza della rappresentazione, severamente scandita, secondo le consuetudini del Bresson migliore, attraverso pause interminabili e silenzi allusivi, mentre anche qui l’impiego quasi esclusivo della dissolvenza, nei passaggi e raccordi, evoca una continuità senza rotture, una monotonia che smorza e attutisce anche i contraccolpi più dolorosi.

Su questi sfondi di annientamento quotidiano, la I vicenda di Mouchette è la storia di una strozzatura dell’adolescenza: «… è ancora l’infanzia, un periodo tra l’infanzia e l’adolescenza, presa nella durezza — diceva Bresson — non nella sventatezza ma, veramente, nella catastrofe». E a proposito dell’interprete: «Sceglierò la ragazzina più maldestra, la meno attrice (…) e cercherò di tirare fuori da lei tutto ciò che essa non riuscirà a supporre che sto tirandone fuori» («Cahiers du cinema», n. 178, 1966).

Con le sue galosce troppo grandi, il grembiule sporco e sdrucito e due treccine rigide e scomposte come le ali di un uccello ferito, che incorniciano un volto selvatico e indifeso, Mouchette, come molti personaggi bressoniani, confessa subito, al suo primo apparire, la sgradevolezza di chi è “diverso” e destinato al martirio.

A scuola (queste tristi aule scolastiche del cinema francese nelle quali, da Vigo in poi, si perpetua una mostruosa esecuzione capitale dell’infanzia, è una presenza indisponente, indocile al freno di una mae-stra-aguzzina: una stonatura la sua voce rauca, che non si fonde con quelle ubbidienti e compunte delle altre ragazze che lei bersaglia, nascoste da una siepe, con palline di fango.

Il mondo degli “adulti”, dei non “amabili ordinari”, si colloca, ancora, nel segno dell’ipocrisia e della repressione. La “pedagogia” del padre è intessuta di brutalità e diffidenza: l’ariosa sequenza dell’autopista, che ci mostra una Mouchette miracolosamente allegra, leggera, liberata nell’emozione e nel gioco, si conclude con i due violenti schiaffi del padre; lo stesso brontola tra i denti un goffo elogio funebre della moglie («era una donna coraggiosa») che ha schiacciato per tutta una vita; al confronto, il rabbioso «merda!» di Mouchette diventa un commento tenero e pietoso.

Ancora ipocrisia e morte sui volti delle persone che attraversano lo sguardo della fanciulla: la padrona della drogheria, con la sua compassione obbligata e convenzionale, nel cui fondo c’è solo curiosità cattiva e bigotta; la moglie del guardiacaccia paralizzata, nei suoi rapporti con gli altri, da un moralismo gretto e irritato; e la vecchia “guardiana” dei morti, nella cui casa Mouchette con ostinazione imbratta di fango il tappeto buono, che sembra compendiare tutta una atroce religione («Andrò a vegliare tua madre. Porterò questo bel lenzuolo fine… Mi piacciono i morti»).

Anche qui la persecuzione e il “processo” passano attraverso la tematizzazione dello sguardo: occhi che spiano e si spiano, volti che si nascondono e scompaiono nel bosco, frequenza ossessiva degli sguardi. Mouchette è continuamente scrutata da occhi — la maestra, la padrona della drogheria, la moglie di Mathieu — che sospettano, frugano, si preparano ad attaccare; di fronte a loro lei abbassa la testa, ma non per paura o umiltà, sta in guardia, cerca di prevenire l’insidia. Libera da quelle premute cattive, insinuanti, prorompe infine nell’insulto, oppone la sua sfida oltraggiosa («Il signor Arsène è il mio amante. Interrogatelo, ve lo confermerà»). E non si capisce come Sémolué («Cinefonim», n. 67), dopo aver osservato che qui «aumenta la libertà di stile, diminuisce quella del personaggio», insista poi sulla assenza di “vocazione” e sulla attitudine a subire.

In questo mondo dove ogni spazio si restringe e chiude sordamente, il rapporto di Mouchette con Arsène è il nucleo poetico del film. Arsène, con la sua aura posticcia di irregolarità e di mistero, accentuati da quel male oscuro che gli procura vaneggiamenti e abbandoni repentini, eccitamenti del sangue e lacerazioni della memoria, è uno strappo cruento nella opaca e sgraziata adolescenza di Mouchette, l’irruzione inattesa, e oscuramente desiderata, dell’avventura e della negazione.

«Io li detesto, terrò testa a tutti loro», ripete, con quella di Bernanos, ma con altro accento, la Mouchette di Bresson che sente per la prima volta di vivere un’esperienza tutta e soltanto sua, eccezionale e proibita. Ma se il “ciclone” di cui vaneggia l’uomo, in una notte di tempesta, è molto meno inquietante della «tromba di piombo, alta sui gorghi», che si apriva dinanzi all’Arsenio di Montale, una «ghiacciata moltitudine di morti» è davvero tutto quel che resta, dopo l’illusione e il sogno della notte, nella desolata alba di Mouchette.

Anche l’amore, su cui si chiudeva Pickpocket, ha perduto ogni suggestione e tende sempre più a risolversi nella violenza, una violenza triste come un’offesa gratuita e irragionevole. Se di fronte all’uomo ubriaco e svenuto, Mouchette ritrova, imprevedibilmente, le note della canzoncina imparata a scuola, e la intona con una dolcezza incerta e struggente, quella che l’attende è ancora una smentita.

La sequenza dello stupro, preparata e condotta con estrema discrezione ma con inflessibile necessità, è una delle pagine più ispirate e dolenti di Bresson: il racconto dell’uomo intessuto di viltà e di menzogna, la trepidazione di Mouchette nel sentirsi messa a parte di un segreto terribile di adulti, i lunghi silenzi e la rigorosa parsimonia dei dialoghi ci riportano alla inconfondibile severità della scrittura bressoniana, puntigliosissima nel circoscrivere e dilatare il significato interiore di un dettaglio quanto ellittica e reticente nello sfiorare i rapporti e le situazioni più dense e “drammatiche”.

E tuttavia, al fondo di questo rigore, troviamo ancora (ma sarà l’ultima volta) il rapporto sesso-peccato-violenza, la “macchia indelebile” di Bernanos (ma senza le enfatizzazioni dello scrittore), rapporto di cui il regista aveva anticipato la torva brutalità nella descrizione del “triangolo” Arsène-Louisa-Mathieu e nell’immagine dei ragazzi che mostrano il sesso al passaggio di Mouchette.

Solo nei reticenti e scontrosi rapporti con la madre e con il fratellino, la protagonista sembra trovare qualche raro momento di abbandono e di apertura, la tenerezza di una presentita maternità che scaturisce oscuramente dalla violenza sofferta. Ma ormai la sua breve vicenda volge al termine (tutta l’ultima parte corre con inflessibile, rovinosa necessità verso il proprio scioglimento) e si apre l’avventura nel regno dei morti. Come e più che all’inizio, le immagini della caccia, la rapida sequenza dei fucili che sparano e dell’agonia della lepre, investono il destino della protagonista, ne anticipano e accompagnano il compimento.

Mouchette sembra rotolare verso lo stagno come per gioco, poi in modo sempre più deciso, ineluttabile, per scomparire infine nelle acque, avvolta nel bianco sudario dell’abito di mussola donatole dalla vecchia. L’insostenibilità dei fatti viene trascesa e trasferita dall’immediatezza identificativa dell’immagine alla ripercussione evocativa del suono: il grido di Mouchette coperto dal passaggio del trattore, il tonfo del corpo nell’acqua, le note del Magnificat di Monteverdi che erano già risuonate all’inizio, e dopo la sequenza dello stupro mescolandosi ai singhiozzi di Mouchette e sovrastandoli, e che ora ne suggellano il destino, non «elemento fondamentale che esprime la salvezza», come vorrebbe Estève, ma austera e sconsolata celebrazione del compiersi di un’esperienza il cui segno, non contraddetto, era e resta la negazione. La “camera” si ritrae davanti al gesto di Mouchette, rifiuta di rappresentarlo: restano il campo visivo vuoto, i cerchi d’acqua che lentamente si ricompongono in superficie.

Omissione ed ellissi, figure abituali della discrezione e del ritegno bressoniani, si caricano di una sconsolata sacralità.

Il “cattolico” Bresson, mentre si ispira a Bernanos, continua a descrivere un mondo senza Grazia: l’impossibilità di rapporto della protagonista («sola contro tutti», diceva l’autore del romanzo) è totale, i suoi occhi si posano su un universo gretto e insensato, la sua adolescenza avverte ed esaurisce in poche stagioni (che si compendiano e precipitano negli avvenimenti di una giornata) tutta la mortificazione e il dolore di esistere. Bresson si allontana ancora dal “giansenismo” risentito, a suo modo attivo, del Condannato e dello stesso Processo a Giovanna, verso una sorta di cristianesimo ateo, senza riscatto, in cui l’unico gesto libero che l’uomo sembra poter compiere è quello di morire.

Una morte che non è più l’estrema conseguenza dell’“utopia” dei protagonisti, di fronte al “realismo” degli altri e dell’istituzione sociale repressiva, ma un triste congedo senza pretesa di “esemplarità”. Ma non senza la certezza, oscuramente cresciuta nel sangue e nel pensiero, di doversi separare da quella faticosa e mortificata contraffazione della vita che è resistenza degli altri e, in quel contesto, la propria.

Questa determinazione eroica di annullamento che accomuna, fuori di ogni pietismo consolatorio di specie cristiana e/o populistica, la grande Giovanna e l’oscura Mouchette, è qualcosa di diverso, di più umile, ma anche di più “radicale” e voluto sino in fondo, dal «nero abisso» che «accoglie solo i predestinati» (Bernanos).

Da Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro Cinema n. 25, Editrice Il Castoro, 2004, pp. 83–100

Giorgio Tinazzi

“In Bernanos mi interessa la mancanza di psicologismo letterario”, ha detto Bresson in un’intervista già citata, e in altra occasione ha precisato che in lui “c’è pittura”. Anche se il giudizio risente di un’ottica soggettiva (leggere la Mouchette di Bernanos cogliendo la mancanza di psicologismo letterario è già interpretarla bressonianamente), la dichiarazione del regista ci interessa più che altro per chiarire il processo intenzionale.

Il film è stato girato a nemmeno un anno di distanza da Balthazar (cosa rara in Bresson), quasi a mettere in luce che si tratta dei due film più “vicini”, pur nella generale omogeneità dell’opera; in effetti i richiami sono abbastanza evidenti, anche senza cercare forzate analogie: il clima di fondo, alcuni personaggi (Mouchette ricorda Maria, Arsenio Arnold, interpretato dallo stesso attore), la stessa struttura narrativa.

L’andamento è ancora quello della “parabola”, la spinta viene dalla tensione di Mouchette (anche se vaga, ma non meno percepibile), dalla situazione di attesa. La scansione dei momenti ha un ritmo classico, con tipiche elisioni e abbassamenti di tono, anche la musica non sottolinea, affidata solo al brano di Monteverdi nel finale.

Lo schema drammatico tende a rarefarsi (a diventare “elementare”), cercando la modulazione continua di poche note; e ciò proprio per dare il tragico dell’abitudine, la dimensione quotidiana, essendo la protagonista una “piccola eroina della quotidianità” (Bresson).

Le linee di sviluppo mi pare si possano rintracciare su tre piani. Il primo, più propriamente narrativo, riguarda l’articolazione in blocchi, che determinano l’itinerario (il paese, il bosco, la casa, ancora il paese, gli incontri); più precisamente si può parlare di divisione in “capitoli”. Il primo dei quali riguarda la collocazione del film: gli altri, il contrasto.

Da notare che nel libro manca la prima parte, descrittiva del paese, alcuni luoghi (il caffè) sono rivisti, cioè ricordati, narrati per cenni da Mouchette o Arsenio, altri (il Luna park) non compaiono. Bresson inserisce prima questa indagine, la amplia, sia per dare le note dell’ambiente sia per definire i personaggi; Mouchette viene perciò dopo la situazione di contrasto. Anche in questo caso è da notare che l’ostilità tra Mathieu e Arsenio è posta all’inizio del film (la caccia di frodo), ed è fatta vedere, quindi messa più in risalto.

Il secondo capitolo riguarda la notte, la violenza e il sogno. Il terzo il fatto emergente, la morte della madre. Dal quale parte la lenta progressione del quarto, la riduzione dell’immaginazione e la forza deterministica della morte.

Quello che il desiderio di altro era riuscito a deformare e colorare si smonta, il “ciclone” è stato un semplice temporale il significato della notte (la forza della “povera” fantasia) è però reso da Bresson solo allusivamente, mentre Bernanos è assai più esplicito, parlando di “disinganno d’amore”.

Dopo la morte lo sviluppo temporale si concentra, il tempo reale prende tutto il suo peso, la spinta deterministica (“non meno implacabile di quella che regola la caduta di un corpo”, direbbe Bernanos) si traduce in azione.

L’incontro successivo delle tre donne è l’impatto col reale, la repulsa del pietismo e dell’inquisizione. E c’è anche una sorta di forza di accelerazione, data dalla visitatrice dei defunti, dalla sua familiarità pesante e ambigua con la morte. Quasi una premonizione, verso il fatto finale, l’ultimo capitolo.

Il secondo piano di cui si parlava è quello della tendenziale “oggettività” del film: il di più di scrittura che c’è in Bernanos lascia il posto a una maggiore freddezza , in un certo senso una riduzione a fatto. Nello scrittore Mouchette vive la tragedia anche come scontro con l’immaginazione (la costante bernanosiana del sogno), nel regista questo è attutito, si scioglie maggiormente nell’evento.

Bresson ha tolto gli interventi “riflessivi” (che mantenne invece nel Diario) per un andamento diverso, da cui scompaiono anche le digressioni interne.

Il terzo piano è dato dal comportamento: quello che in Bernanos è movimento interno di Mouchette diventa comportamento, magari apparentemente “non significativo”.

I tre piani, ma soprattutto gli ultimi due, chiariscono il privilegio dato ad alcuni elementi oggettivi, come le tonalità non drammatiche dei visi, le non sottolineature, gli sguardi (un solo esempio: la sequenza tutta muta dell’abbraccio della madre e dell’uscita di casa); e naturalmente i gesti: a questo proposito va notato come le mani sono gli unici particolari emergenti nei momenti-chiave, e inoltre sono proprio i gesti a denotare l’ambivalenza di Mouchette, la sua aggressività ma anche la sua femminilità (il latte, il fratellino, le lacrime non motivate).

Anche Bernanos, singolarmente, richiama le mani: “Ognora intimidita dallo sguardo… aveva scoperto la prodigiosa facoltà d’espressione delle mani umane, mille volte più rivelatrici degli occhi, perché non sono altrettanto abili a mentire, si lasciano sorprendere a ogni minuto, occupate come sono in mille faccende materiali, mentre lo sguardo, instancabile vedetta, veglia alle mura delle palpebre …» (p. 140)

Per taluni Mouchette è certamente il film di Bresson che dà al gesto il ruolo più importante. Perciò anche lo sfondo dei comportamenti acquista particolare rilievo, come gli interni (la casa di M., il bar, la casa della visitatrice dei morti), gli oggetti.

La dialettica è tra questa spogliazione e la contemporanea ricerca di una precisa collocazione, quella campagna, quel paese (il film è stato girato in una località della Vauclause); il paesaggio diventa un microcosmo circoscritto, quel luogo di “chiusura” che altre volte era esplicito.

Proprio per rendere questa situazione emblematica Bresson ha bisogno di partire dal dato, alla cui definizione contribuiscono vari elementi, come l’illuminazione, che va dagli sfondi cupi della capanna e del bosco ai grigi quotidiani alle diverse tonalità del paese prima e dopo la notte.

Parte preminente hanno al solito suoni e rumori; si potrebbe davvero, a questo proposito, fare una sorta di inventario bressoniano: i passi di Mouchette che entra in classe (la sua “diversità”), il brusio dei ragazzi, l’ostilità dell’esterno (i rumori dei camion che passano fuori dalla casa), i rumori che denotano un ambiente (la scuola, il caffè, la chiesa, il bosco) o una situazione (la festa, con la musica che precede l’inquadratura del luogo), o sottolineano la spinta simbolica (gli animali).

Dar corpo alle cose è una delle vie, già notate, attraverso le quali l’autore, con apparente paradosso, tende alla rarefazione del racconto. Ne risulta (almeno nelle intenzioni) un rafforzamento dell’articolazione tematica, tramata di un pessimismo che rifiuta le consolazioni.

Già la prima sequenza dà il peso della situazione, la madre in lacrime di Mouchette (come nel Processo, sottolinea Sémolué, prima dei titoli di testa): “Che ne sarà di loro senza di me? Questo mi colpisce fin dentro nel petto …”. Poi la sequenza del bosco sottolinea l’ostilità e la crudeltà, gli animali: con una accentuazione simbolica anche eccessiva ritornano simmetricamente nel finale, a rinchiudere nel cerchio (il richiamo ai film precedenti è a questo punto naturale); d’altronde per la protagonista lo stesso Bernanos usa espressioni in cui ricorrono similitudini con animali (“Ora che non lotta più, Mouchette ritrova quella rassegnazione istintiva, incosciente che assomiglia a quella degli animali”).

Come un’altra faccia di Balthazar, Mouchette è l’asse drammatico che coordina i vari episodi, attraverso i quali si disegna la preordinazione, l’ineluttabilità del male; Bresson, si sa, è di diverso avviso, e dichiara che il suicidio non è una fine, ma “deriva da un’attrattiva per il Cielo”, ma credo si possa dire sia una sovrapposizione di intenzioni, per ricondurre l’opera a una religiosità personale che, in questo caso, è rimasta seconda — nel concreto dell’opera — rispetto al pessimismo di base.

Dietro al libro c’è (anche) un risvolto “politico”; scritto negli anni della guerra di Spagna voleva esprimere anche, a detta dello scrittore, l’“orribile ingiustizia dei potenti”; questo intento manca in Bresson, anche nella sua dimensione generale, essendo come sempre attento alla dimensione individuale; né, francamente, vedrei qualcosa di più o di diverso, come fa Cavallaro, il quale sottolinea “il peso rivoluzionario dell’immagine che Bresson, negli ultimi film, dà del mondo attraverso la provincia sordida della Francia gollista”.

Perché anche l’attenzione che il regista porta all’altro tema bernano siano di tipo “sociale” (“una misera invalicabile quanto le mura di una prigione”), sembra in realtà essere motivata per il riflesso che porta alla dimensione individuale, e più ancora a una sua considerazione di ordine metafisico.

Anche Bresson è attento all’“impronta maledetta della miseria”, ma essa appare più lo sfondo concreto della parabola che una collocazione storicamente — e quindi socialmente — determinata. L’interesse, per intendersi, è più per temi di carattere ontologico, cui risalire dal riversamento esistenziale.

Anche il finale richiama queste problematiche generali. L’ambiguità del male dimostra la sua uniforme diversità, in fondo la sua inevitabilità; anche l’ambiente costringe, i meccanismi sociali rinserrano, come in altri film.

Vanno notati gli elementi attraverso i quali è scandito il finale: il paesaggio e lo sfondo rischiosamente simbolico (la caccia, i colpi, gli animali), i gesti distesi e iterati, la freddezza di registrazione del fatto (che anticipa quella di Une femme douce), la musica, l’unico intervento che sottolinea il “sacrificio». Si può osservare che le scene di caccia sono aggiunte da Bresson, anche se si è notato come “tutta la crudeltà, tutti i dettagli e il senso della bella caccia alla lepre che evoca irresistibilmente La règle du feu di Renoir, erano già in germe nella novella [ P. Renard-Georges, Bernanos et Bresson (Nouvelle historique de Mouchette et Mouchette, in Etudes bernanostennes n. 9 (La revue de lettres modernes n. 175–179, 1968)].

È proprio il suicidio finale che, per la sua radicalità ha fatto sorgere più interrogativi, cui si è risposto anche con scoperti recuperi o ribaltamenti; d’altronde lo stesso Bresson li suggerisce, affermando, oltre a quello che già si è detto, che è “una morte che non è una fine, ma un principio”.

Bernanos, dal canto suo, ha precisato le sue intenzioni: “Il suicidio di Mouchette non è un suicidio propriamente detto; ai miei occhi è la morte del toro che si è ben battuto e che non può far altro che tendere il collo. Credevo tuttavia di averlo dimostrato, di averlo detto. Mouchette non si uccide veramente. Essa cade e si addormenta dopo aver atteso fino all’ultimo un soccorso che non le giungeva”.

Qualche critico ha privilegiato il carattere regressivo del gesto: “Tutta una convergenza di notazioni e di circostanze fa pensare che Bresson ha voluto sottolineare il carattere erotico e regressivo del suicidio di Mouchette, ritorno al seno materno come sola possibilità in questo mondo” [R. Dadoun, Bilan de Bresson, in La Quinzaine Littéraire, 1530 aprile 1967, n. 26].

A me pare che la morte finale sia data nella sua ambiguità, tra costrizione e volontà, tra caso e destino e gioco tragico; annullamento e liberazione, ma con l’apertura che tende chiaramente a stingersi nella pesantezza del fondo. Credo insomma che in Bernanos vi sia soprattutto, da parte di Mouchette, la non reattività alla “tenaglia” che stringe, e lentamente l’autore “alleggerisce” la protagonista, quasi a trasfigurarla; in Bresson la morte sembra essere più un peso, fatto, destino-desiderio. Ciò non toglie che nel finale ci sia anche una forza di lievitazione, come in altri momenti.

D’altronde potrebbe essere l’esito di una alternanza di toni che c’è quasi in tutto il film, tra lirismo e crudezza (la caccia iniziale e finale, la ferita disinfettata, la rissa ecc.). Due direzioni si constatano anche nel rapporto tra le insistenze (la violenza, l’epilessia ecc.) e le ellissi: basti pensare per questo alla morte della madre di Mouchette, confrontandola con la più ampia descrizione nelle pagine di Bernanos.

Su queste alternanze si modulano i “caratteri” dei personaggi, il loro muoversi tra connotazioni realistiche e depurazioni segniche.

“C’est l’enfance prise dans la dureté” ha detto Bresson di Mouchette; è il punto focale della narrazione, l’asse tematico (l’“innocenza”, la “lesione”). Ma non per questo è monocorde, c’è anzi una problematicità che rimanda ad altri personaggi, se non altro a quelli bernanosiani del Diario (la protagonista “si colloca esattamente tra Serafita e Chantal” si è scritto), e alla Maria del film precedente (e più “vicino”).

La situazione di vittima genera l’aggressività, o procede con essa; lo stesso Bernanos insiste più volte su questa caratteristica, parla di un piacere “umile e selvaggio” (p. 15), di un viso che esprime “la rassegnazione e la scaltrezza” (p. 32), di una “esperienza precoce insieme e ingenua, del vizio” (p. 75), di un “grande orgoglio che lei ha nutrito in seguito” (p. 76).

Bresson accentua alcuni comportamenti: il fango gettato ai compagni di scuola, la tazza rovesciata nella drogheria, il tappeto sporcato dalla “visitatrice” (e l’episodio non c’è nel libro), l’offesa al padre dopo la morte della madre. In lei la repulsa al pietismo (la droghiera) si unisce al disgusto per la vecchia (“Amo i morti, li capisco molto bene”).

Vittima e complice, Mouchette fa di nuovo intravedere il tema dell’attrazione del male (gli ambigui rapporti con Arsenio). Il sesso è forse una crudele apertura, ma è soprattutto offesa: i ragazzi, Arsenio. Un erotismo imploso d’altronde sta sotto tutto il film, basti pensare ai rapporti di Mathieu e Luisa, che Bresson aggiunge e rende espliciti .

La naturalità di alcuni gesti della protagonista fa — come si è già notato — da contrappunto; si noti la fisicità di alcune situazioni (il Lunapark, la filastrocca cantata con Arsenio), oppure di alcuni comportamenti . Ma gli altri rappresentano quasi sempre l’ostilità, la scuola, il paese, il padre; si può notare che il regista aggiunge, rispetto al libro, la sequenza dopo il Lunapark, in chiesa.

Solo Arsenio è un residuo di possibilità, tra richiesta e soffocazione, vittima e causa. Torna la caratteristica dell’emarginazione (ancora la condanna, il vino di naturalistica memoria), con una sottolineatura fisica della natura di “diverso” (l’epilessia, una ascendenza troppo evidente).

Bresson modifica però gli aspetti fisici del personaggio, che nel libro è descritto come un “giovanotto” (p. 24), “il bell’Arsenio” (p. 29), con un “viso fraterno, un viso complice” (p. 49), il “bel bracconiere”; vengono anche attenuati i toni espliciti (“l’uomo che amo”, p. 80), restando nell’incertezza, tra vaga disponibilità e rudezza, sottolineata da alcune scene (la ferita disinfettata ecc.); viene ristretto anche il ruolo di “immaginazione”, di favola tragica e quindi di coinvolgimento per Mouchette.

Dietro alle due figure centrali, i segni dei testimoni “passivi”: il padre e il fratello (ancora il tema della “maledizione”, l’alcool) e la madre. Più complessa questa, presenza soffocante e ombra di morte, sofferenza e rassegnazione (“discende da una stirpe di madri rassegnate, sottomesse al bimbo come all’uomo”). Si può osservare che il regista affida questo ruolo all’unica attrice professionista del cast, e modifica anche sensibilmente l’aspetto fisico descritto nel libro.

Si torna allora al testo di partenza. Non per parallelismi o riscontri che si riducano a impropri raffronti, ma per notare alcuni elementi che meglio ci possono far comprendere le tendenze strutturali del film.

In generale è la riduttività a prevalere. Bresson, ad esempio, comprime la descrittività di Bernanos, così come porta all’essenziale i dialoghi, anche quando sono seguiti da vicino. Significativi sono anche i tagli: è abolito il racconto della “visitatrice”, sì che tutto l’episodio ne esce ridimensionato, portato a sintomo; inoltre, secondo una propensione che abbiamo già vista nel regista, vengono ristretti o tolti i passaggi relativi al passato: l’infanzia, i ricordi di Mouchette, o l’accenno all’episodio col maniscalco Pourjat, i rapporti col nonno.

Così come quello che è racconto diventa fatto (la supposta uccisione di Mathieu). Solo Luisa cresce come personaggio; nel libro c’è solo un riferimento a lei, non ampio, fatto da Mathieu, nel film si inserisce più chiaramente nella storia del guardiacaccia e Arsenio, a dare un’ulteriore piega alla loro rivalità.

È l’unico ampliamento in una generale spinta all’essenziale. Ma, come è chiaro, il processo di rarefazione è soprattutto stilistico, secondo le linee già tracciate. Ed è qui che si colgono i limiti, che emerge il rischio. La rigida scansione, l’itinerario lasciano il sospetto della predeterminazione, come si diceva per Balthazar, e ciò si può cogliere anche in taluni particolari, nella simbologia (gli animali), in certo didascalismo (il fango gettato alle compagne che si danno il profumo), in alcune scoperture (il velo bianco finale): concessioni di maniera, che a qualche critico hanno lasciato un’impressione estesa a tutta l’opera, “un film à la manière de Bresson” (“Cahiers du cinéma” n. 189).

Ma la difficoltà sta forse prima, ed è nell’equilibrio tra spinta metaforica e tono naturalistico; Bresson si tira fuori dal naturalismo e dal determinismo riproponendo in cinema il racconto dopo quasi trent’anni; ma qualcosa gli resta addosso, e le insistenze o i sovraccaricamenti sono di peso al lavoro di depurazione, e quindi di allusione.

Da: Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, Venezia, 1976, pp. 105–110

Maurizio Ponzi

Mouchette è un’adolescente, vive in un paese agricolo della Provenza, circondata da una misera realtà familiare. La sua abitazione consiste di un’unica stanza, che serve da dormitorio, bagno e cucina. Sull’unico letto della «casa», giace la madre, afflitta da una penosa malattia.

La ragazza deve curarla. Anche il fratello più piccolo, un bambino ancora in fasce, dipende in tutto e per tutto dalla giovane. Il fratello maggiore e il padre di Mouchette sono dei contrabbandieri. La ragazza viene continuamente umiliata e derisa dagli adulti e dai coetanei.

Mouchette reagisce come può, con dei dispetti infantili. Anche a scuola, Mouchette patisce umiliazioni e isolamento da parte degli insegnanti.

Nel poco tempo libero che le resta lavora in un bar, per pagare quello che il padre beve. Arsène, un bracconiere, e Mathieu, la guardia forestale, sono entrambi innamorati di Louisa, la padrona del bar. Quest’ultima, però, ama solo Arsène.

Un giorno, tornando da scuola, Mouchette viene sorpresa da un temporale, e cerca riparo sotto un albero, nel bosco. Casualmente assiste a un diverbio tra Arsène e Mathieu. Ben presto i due rivali vengono alle mani, e nel trambusto della colluttazione scivolano nel greto di un torrente.

Poco più tardi, Arsène sorprende Mouchette, bagnata e infreddolita. La ragazza dice di essersi perduta, e Arsène la conduce nella sua capanna, quindi esce a recuperarle le scarpe che ha perso nel fango.

Al suo ritorno l’uomo confessa di avere ucciso Mathieu, ha bisogno di un alibi, e Mouchette accetta di aiutarlo. Arsène ha una crisi di epilessia, Mouchette lo assiste amorevolmente: appoggia la testa dell’uomo sulle sue ginocchia, gli asciuga la saliva che cola dalla bocca, gli canta una canzone per tranquillizzarlo.

Dopo essersi rimesso, Arsène si getta su di lei, Mouchette cerca di sottrarsi, ma alla fine subisce la violenza del bracconiere. La ragazza torna a casa, vorrebbe confidare tutto alla madre, ma la trova in punto di morte.

La madre si spegne prima che Mouchette possa dirle qualcosa. Il giorno dopo gli abitanti del paese commentano con malignità l’apparente indifferenza della ragazza di fronte alla morte della madre.

Mouchette si ribella alla loro curiosità, cerca di nascondere i segni dello stupro. Mathieu, che non è morto, la interroga sull’alibi di Arsene, che nel frattempo è stato arrestato dalla polizia.

Mouchette confessa di aver passato la notte con Arsène di sua spontanea volontà, perché è il suo amante, poi se ne va. Un’anziana donna la invita a entrare nella sua casa, le parla a lungo del culto dei morti, e infine le regala un pacco di vestiti.

Mouchette arriva su una piccola collina sovrastante il mare. Si avvolge dentro uno dei vestiti che teneva sotto il braccio, una sorta di mussolina bianca, molto leggera, simile a un velo nuziale. Quasi per gioco si lascia rotolare sul pendio, una volta, due volte. Viene trattenuta da un cespuglio sulla riva del mare.

Al terzo tentativo il suo corpo sparisce nell’acqua. Poco dopo la superficie dell’acqua si acquieta.

Mouchette è un passo avanti nell’opera di Bresson? Se è vero, come credo sia vero, quello che sostiene Susan Sontag circa lo scopo di Bresson — paragonato acutamente a Cocteau — di «creare un’immagine dallo stile spirituale», allora Mouchette, più di Balthazar, è l’audace tentativo, legittimo come aspirazione, di creare un’immagine dello stile spirituale di una creatura spiritualmente debole, Balthazar era solo istinto, Mouchette sembra esserlo altrettanto, ma è un essere umano.

Mouchette non ha conflitti, la sua esistenza è completamente determinata dagli altri: Bresson filma l’assenza di un conflitto spirituale. E Mouchette è un film che sa di morte, girato contro il romanzo di Bernanos, contro la disperazione e la sconsolatezza che una simile storia può ispirare. S

e Un condamné à mort s’est échappé è un inno all’uomo, alla vittoria della sua parte migliore, Mouchette appare come il funebre itinerario di una creatura che muore perché incapace di scoprire nell’orrore — nel carcere — in cui vive qualcosa per cui valga la pena lottare.

Cosa pensa Mouchette? Non lo sapremo mai, forse non pensa, comunque non sarà Bresson a dircelo (di Fontaine sappiamo quello che fa non quello che pensa). Se sul piano contenutistico Mouchette non è che il contrario di Fontaine o del curato di campagna e una variazione dell’asino Balthazar, sul piano dell’espressione essa richiede una maggiore esasperazione, una maggiore secchezza.

Se la recitazione è «citante» e statica in tutti gli attori di Bresson, quella di Nadine Nordier lo è ancora di più. Il suo viso è e resta senza luce per tutto il film immobilità valorizzata dalla sola sequenza in cui Mouchette sorride, quella del Luna Park, la sequenza più terribile, in quanto eccezionale nel suo contesto, che Bresson abbia mai diretto.

L’incontro col ragazzo che sembra volerla corteggiare è l’unico spiraglio per un possibile conflitto capace di sollevare Mouchette, lascia intravedere un film diverso. Tutta la sequenza è costruita rimandando a un Bresson più morbido, più generoso verso la vita.

Innanzitutto non si vede chi regala il biglietto a Mouchette per salire sulla pista delle automobili; poi Mouchette è sballottata dagli scontri e corteggiata da un ragazzo con una certa insistenza, si accende qualcosa in lei: Mouchette reagisce positivamente a una situazione «scomoda», ovviamente allusiva; infine, terza parte della sequenza, Mouchette prende un’iniziativa.

L’unica del film che non sia di negazione, segue il ragazzo e scambia con lui un sorriso. L’intervento violento di suo padre, che la schiaffeggia, riporta il film sui suoi binari, sul suo ritmo opaco, orizzontale, sottolineandone così la caratteristica. Simile è l’intervento della musica, il Magnificat di Monteverdi, una musica glorificante di grande contrasto.

Se l’uso degli oggetti in Bresson è sempre studiato, in Mouchette lo è di più perché, mancando un’evoluzione — un conflitto — nella protagonista, la differenza di quelli con questi è attenuata.

Le scarpe di Mouchette sono importanti quanto il viso del padre o la stamberga in cui abita. Esse vivono laddove il volto di Mouchette non mostra segni vitali. Dapprima vengono contrapposte a quelle delle sue compagne di scuola: sono grosse, trasandate, inadatte a lei; fanno un rumore diverso: le sentiamo senza vederle quando Mouchette entra in classe in ritardo, un rumore colpevole e sfacciato; assente, invece, nel ritorno a casa, nottetempo, dopo l’avventura con Arsene.

Poi tornano durante la pioggia nel bosco: Mouchette ne perde una che Arsène le riporterà. Ed è con esse che Mouchette esprime il suo disprezzo per la vecchia che le parla di morte: le sporca il tappeto di fango, furtivamente; eccetera.

Il grande valore di Mouchette, nuova tappa del discorso bressoniano, risiede in un suo potere di affermazione, un’affermazione di validità di una poetica.

Bresson, al suo ottavo film, rasenta il virtuosismo del regista che dopo aver filmato i conflitti interiori dei suoi personaggi, ora filma la loro assenza o carenza, nella suprema conferma dell’essenzialità, della assoluta verità di ciò che mostra.

Da Cinema & Film, a. 1, n. 4,1967

Wim Wenders

Robert Bresson ha girato un film di pari delicatezza e vulnerabilità [a Ucciderò Willie Kid di Abraham Polonsky, 1969], arrivato in questi giorni nei nostri cinema: Mouchette. Circa settant’anni orsono, un uomo ha costruito la prima macchina da presa ed è riuscito a fissare il movimento con una successione di immagini che poi fanno riconoscere sullo schermo quello che si era visto nell’obbiettivo: ad esempio uno che gira la testa, le nuvole che passano nel cielo, gli steli d’erba tremolanti, un viso che mostra gioia o dolore. Quell’uomo avrebbe capito il film di Bresson.

E si sarebbe rallegrato di essere l’artefice di un’invenzione che può essere usata in modo così incredibilmente bello.

Da Filmkritik, dicembre 1969; ora in W. W., Stanotte vorrei parlare con l’angelo a cura di Giovanni Spagnoletti e Michael Tòteberg, Ubulibri, Milano 1988, p. 43)

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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