Mokadelic
Il cinema italiano nelle mani di un gruppo punk
di Gianluca Vignola (Sentieri Selvaggi)
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Il cinema di genere in Italia è tornato improvvisamente in auge dopo anni di buio. A riaccendere i neon un gruppo post-rock che ha rimesso tutti in riga: semidei, celerini e gangster condannati a vivere.
Più rock che non si può
Noi fondamentalmente siamo partiti come un gruppo punk, non nel genere ma nell’attitudine: per l’approccio epidermico che abbiamo con la musica, per la relazione carnale con lo strumento”.
Bastano pochi minuti di conversazione con i Mokadelic per capire che l’industria audiovisiva italiana degli ultimi anni è stata presa in ostaggio da un gruppo di musicisti che più rock di così non si può.
C’è infatti un unico comun denominatore quando si leggono i credits di molto nostro cinema di genere, e quel fattore comune è il nome dei Mokadelic, band neopsichedelica approdata sul grande schermo nel 2004 firmando la soundtrack di Come Dio comanda e vincendo al primo colpo il Nastro d’argento per la miglior colonna sonora.
Un salto non da poco, per una band che fino a quel momento aveva fatto la gavetta vera, condividendo palchi nei live con gruppi imprescindibili per la scena postrock internazionale come gli Ulan Bator, gli Explosions in the Sky e i nostri Giardini di Mirò.
La fusione di punk e cinema
Dopo aver pubblicato due EP ed essersi portati a casa un Nastro d’Argento, i Mokadelic e il cinema diventano una cosa sola: due linguaggi diversi che si esplorano, fondendosi fino al punto che non sai più cosa sia nato prima. È il cinema ad aver influenzato i Mokadelic o sono loro a contaminare i progetti in cui sono chiamati a collaborare?
Forse allora è davvero il punk l’unica vera soluzione per riscrivere le sorti di un sistema produttivo troppo spesso incancrenito da retaggi antichi, su binari che corrono spediti verso un orizzonte comodo perché sicuro.
Nel bel mezzo del deserto, i Mokadelic sono i Sioux che assaltano la diligenza e la costringono a cambiare rotta, a riscrivere le tappe di un tragitto infinite volte già battuto con la medesima, noiosissima solerzia.
Bravissimi con le parole
Decidiamo di intervistarli al telefono, abbandonando momentaneamente la Streamingland che abbiamo raccontato nel numero 8. Non seguiremo la prassi di questi tempi che vorrebbe ad ogni costo il supporto di immagini Zoom, Skype, Meet a sostegno di ciò che si sta dicendo. Questa volta basteranno le parole, anche perché negli anni i Mokadelic sono sempre stati abilissimi nel raccontare la loro versione dei fatti, senza presenziare necessariamente sullo schermo.
È già sera quando il telefono squilla, sono loro. Siamo in macchina, fermi all’Autogrill e i fanali degli altri veicoli illuminano il nostro abitacolo con ritmo regolare.
Rispondiamo alla chiamata e sembra già di essere in un film di Stefano Sollima.
Il segno Mokadelic
Del resto, quello bazzicato dai Mokadelic è sempre stato un cinema notturno illuminato dai neon: da A.C.A.B. All Cops Are Bastards a Gomorra La serie, dal già citato Come Dio comanda a Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, il limite tra ciò che viene richiesto dalla produzione e ciò che invece è la “firma Mokadelic” sul film resta sempre molto sottile.
Le loro OST hanno accompagnato lavori spesso molto diversificati, che abbracciano più generi cinematografici pur mantenendo sempre una straordinaria coerenza di linguaggio.
“Quando iniziammo a lavorare su Gomorra venivamo dai lungometraggi, esperienze molto più rassicuranti dal punto di vista della durata — racconta Cristian Marras. C’è da dire che non siamo una realtà semplice con cui collaborare ma, malgrado questo, veniamo scelti come gruppo, non come compositori. Quindi chi poi ci ha invitato a collaborare sapeva già cosa stava cercando — aggiunge Alberto Broccatelli. Veniamo scelti per chi siamo, chi lavora con noi sa già che tipo di suono vuole”.
Il mantra della contaminazione
L’attitudine rock li ha portati a confrontarsi con forme e linguaggi differenti: il cinema, il teatro, la pubblicità. E a ogni incontro la parola d’ordine sembra essere sempre la stessa, contaminazione.
Una wagneriana gesamtkunstwerk riadattata alle esigenze contemporanee: opera e dramma si fondono e d’improvviso non riescono più a stare l’una senza l’altra.
Nella descrizione del backstage di Romulus, serie TV sulle origini di Roma ideata da Matteo Rovere, si legge: “Romulus è un incontro tra il mondo terreno degli uomini e il mondo etereo delle divinità. Due aspetti dello stesso racconto che musicalmente ispirano contaminazione”.
Sembra l’epitaffio perfetto per chi della contaminazione ne ha fatto una vera e propria cifra stilistica. Dice Broccatelli:
“La possibilità di collaborare con le immagini è un sogno adolescenziale che si è realizzato definitivamente con il cinema. Tante delle nostre esperienze hanno una accezione liminare: non solo teatro, non solo reading, non solo audiovisivo, non solo musica. Ci sono state però delle sperimentazioni che abbiamo fatto e che avevano la stessa forza che ha il cinema, con in più la possibilità di fare tutto live, in quel momento. Essere presenti all’atto è la dimensione artistica più bella, come successo in Ancora sulla cattiva strada, spettacolo teatrale tratto da Come Dio comanda. In quel caso componente sacra, musica, cinema e reading viaggiavano insieme senza che nessuno prevalesse sull’altro”.
Oltre la delimitazione di uno spazio narrativo
Era il 2009 e il gruppo partecipava a quello che fu definito dallo stesso Gabriele Salvatores un “backstage mentale”, un diario irrazionale che sintetizzava più arti per continuare a raccontare tutto ciò che era “oltre” Come Dio comanda. In pratica Ancora sulla cattiva strada fu una sorta di spinoff del film appena diretto dal regista di Mediterraneo: un corpo espanso che riportava in scena i personaggi raccontati nel libro di Niccolò Ammaniti — da cui era tratta la sceneggiatura — e li gettava in un turbine di suoni, spezzoni tratti da Herzog, citazioni di Brecht e Pasolini.
In quel caso la pièce era percorsa da una tensione narrativa sempre oltre le righe, l’esplosione di tutto non era soltanto bramata, ma persino evocata dalle immagini proiettate in background.
A un certo punto Filippo Timi sul palco reciterà: “a cosa serve il guscio, se ti abituano a non usarlo? È meglio non averlo, stare nudi, se il guscio serve solo al coltello per ucciderti…”. Era questa la sentenza contro ogni possibile delimitazione di uno spazio narrativo, la definitiva abiura dei linguaggi a compartimenti stagni.
2 + 2 = 5
Tutto si gioca allora sul concetto di visione (o “regimi della visione”, avrebbe detto Martin Jay), intesa come “squarcio percettivo, associazione visiva, intuizione sinestetica […] che avvicina l’occhio alla mente, comprendendo sia un piano più fisico che squisitamente mentale” (cfr. Arte Contemporanea, di Francesco Poli). Dall’incrocio tra musica e fotogrammi in movimento può scaturire di tutto, fuorché la razionalità: “2 + 2 = 5”.
Allora perdono d’importanza anche le distinzioni tra immagini televisive o immagini destinate al grande schermo: “Gran parte della nostra espressività è legata a doppio filo con le esperienze cinematografiche e per la TV. Ma, nel momento che ci approcciamo all’audiovisivo, ci comportiamo sempre allo stesso modo: non esiste gerarchia tra inquadrature cinematografiche o televisive. Di certo però, quando componiamo per le immagini, la relazione che si instaura tra la nostra musica e l’aspetto visivo ci fa essere più connessi con quello che noi intendiamo arte”.
Riscrivere l’inquadratura
Come in Gomorra, progetto molto diverso da Ancora sulla cattiva strada, ma non per questo meno significativo nell’attitudine punk del gruppo nei confronti dell’immagine. Ma qual è la traccia da seguire per arrivare al suono definitivo? È l’immaginario a influenzare i Mokadelic o sono loro a riscrivere i connotati di un’inquadratura, interferendo metaforicamente con i frame che sono chiamati a commentare?
“Non c’è una regola ben precisa — osserva Marras — perché è successo un po’ di tutto durante le nostre esperienze. Per Come Dio comanda ci eravamo fatti ispirare dalle atmosfere del libro e già da lì avevamo iniziato ad immaginare degli scenari che effettivamente il romanzo di Ammaniti rievoca, con questi paesaggi selvaggi, i boschi, la pioggia. Se in quel caso quindi ci siamo lasciati guidare dalle emozioni, per la serie di Gomorra è successo esattamente il contrario.
Avevamo già visto il film di Matteo Garrone, ma il taglio che Stefano Sollima aveva in mente fu chiaro sin dalla prima puntata, che vedemmo quando ancora era in fase di montaggio. Quei primi spezzoni entrarono dentro di noi e iniziarono a contaminarci”.
Gomorra di Sollima
Che la Gomorra di Sollima abbia riscritto i canoni del gangster movie all’italiana, e quindi anche il rapporto film-spettatore, lo dimostra il proliferare di prodotti usciti in concomitanza con la serie e che spesso sembrano rievocare un universo cinematografico comune (Il clan dei camorristi, La paranza dei bambini, Suburra, Il vizio della speranza). Ma ancor più che il dato estetico, per misurare gli “effetti” di Gomorra sulla gente è utile recuperare tutti quegli epifenomeni apparentemente secondari, che pure ben sintetizzano il rapporto febbrile tra i fan e il brand.
Si passa dunque dagli appelli per spostare le due puntate della stagione uscite in concomitanza con Napoli Juventus — scontro al vertice della Serie A 2017/18 — , fino alle clip virali dei The Jackal su YouTube. Di non meno importanza
è però il fenomeno Doomed to Live, traccia principale della colonna sonora che caratterizza Ciro detto “L’immortale”, uno scugnizzo del sistema che sembra sia condannato a vivere in eterno. Di quel pezzo edito dai Mokadelic la rete ha rielaborato cover, bootleg, remix ufficiali e non: la creatività è andata talmente tanto oltre le aspettative, che gli stessi autori del pezzo hanno predisposto una categoria apposita sul loro sito internet ufficiale, dove è possibile reperire tutte le riedizioni di quella che è, a tutti gli effetti, una hit.
Il legame con Napoli
Il legame tra Mokadelic e la città di Napoli è ormai viscerale, al punto che in molti avrebbero scommesso che le origini del gruppo fossero proprio all’ombra del Vesuvio:
“Un sacco di persone pensavano fossimo napoletani. Dopo Gomorra, abbiamo suonato a Napoli in più circostanze e ogni volta siamo rimasti colpiti da come la musica sia un elemento vitale per la città. Ci ha molto stupito la cura per la musica: abbiamo collaborato con Ntò e Lucariello anche dopo la serie, qualche anno fa abbiamo partecipato anche al Vesuvio Sound System. Possiamo dire di aver costruito innanzitutto relazioni umane”.
Anche in quell’esperienza i Mokadelic hanno sparigliato le carte e fatto all-in su un tavolo da gioco ben diverso dalle loro sonorità canoniche. E se c’è stata contaminazione, il loro suono elettronico è entrato Int’o rione per mescolarsi al rap dialettale e ai melismi neomelodici.
La scena musicale napoletana
Che a Napoli sia necessario allegare la giusta colonna sonora alle immagini della città per poterne restituire uno spaccato il più possibile veritiero lo dimostra il fatto che Mario Martone, nella sua edizione cinematografica de Il sindaco del Rione Sanità, abbia attinto a piene mani dalla nuova scena musicale partenopea (il film iniziava proprio con un Ralph P. emblematico che cantilenava “sto esaurit’ p’cché nu veg’ nient’e nuov”).
A lui si potrebbe aggiungere il sodalizio artistico tra Edoardo De Angelis ed Enzo Avitabile, o ancora il più recente duo Francesco Lettieri-Liberato (non è forse la colonna sonora di Ultras, così come l’intero “progetto Liberato”, una riscrittura mainstream di un tracciato già percorso nottetempo dai Mokadelic?).
Ciò che però ci sentiamo di dire, riascoltando la musica partenopea degli ultimi anni, è che forse quella band dall’attitudine punk, chiamata a riscrivere la grammatica del cinema di genere, in un sol colpo abbia lasciato il segno anche in nicchie musicali apparentemente underground.
Lo dimostrano le produzioni di Peppe Soks, Golier, CoCo, ma anche gli esperimenti “mitteleuropei” — e quindi di matrice più elettronica — dei Nu Guinea, che si trasferiscono a Berlino ma intitolano un loro disco, guarda caso, Nuova Napoli.
La crossmedialità dei Mokadelic
Che siano allora gli stessi Mokadelic quelli “condannati a vivere” (alla stregua dell’immortale Ciro), con la musica che si fonde alle immagini come ai loro concerti e le tracce riprodotte in infinte variabili diverse? Ed ancora, se Gomorra è a tutti gli effetti il primo franchise nostrano, con il libro di Saviano, i film di Garrone e Marco D’Amore (suo lo spin-off L’immortale), serie TV e tanto altro materiale che deborda online, non saranno proprio i Mokadelic i veri garanti di questa odierna crossmedialità?
Se così fosse saremmo certi che le loro colonne sonore funzionerebbero anche nel caso di una tanto attesa uscita del videogioco multipiattaforma. E di questo ne abbiamo già le prove.
Discografia
2003 — Come Dio comanda
2009 — Marpiccolo
2011 — ACAB: All Cops Are Bastards
2014 — Gomorra: la serie
2016 — Chronicles
2018 — Sulla mia pelle
2019 — Gomorra: la serie
2020 — L’immortale
2020 — Romulus — L’origine di Roma oltre la leggenda
Gianluca Vignola nel 2019 Gianluca si laurea in Storiografia cinematografica con una tesi sulla nascita della critica italiana negli anni del primo cinema sonoro.
Parallelamente si diploma in Critica cinematografica presso la Scuola di Sentieri Selvaggi e scrive di cinema, teatro e cultura in generale su svariate riviste web e cartacee.
Quello stesso anno è nella giuria di Venezia Classici alla Mostra del Cinema di Venezia.
Essendo cresciuto con la scrittura digitale, oggi lavora come copywriter e si occupa di content marketing per una agenzia di settore. Ama la radio e spesso si diverte a fare lo speaker radiofonico.
Tratto da “Sentieri Selvaggi”, n. 9, 2021, pagg. 10–14