Michael Sandel: L’immunità dal Covid 19 non si può comprare…
tanto altro sì
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Un problema di giustizia
Ci sono poche cose che non si possono comprare. Una di queste è la più desiderata in questo momento, cioè l’immunità dal virus che colpisce indistintamente. Certi individui e certi sistemi sociali si possono mettere meglio al riparo dal contrarlo, ma a condizioni di laboratorio siamo tutti uguali. Come lo siamo nello stato di natura.
Il denaro, che secondo Yuval Noah Harari è la più stupefacente narrazione dell’uomo, non può comprare l’immunità, l’unica che metta al riparo dal virus. Però, secondo il filosofo di Harvard Michael J. Sandel, una star del pensiero filosofico, ci sono molte cose che si possono comprare con il denaro.
Ma non finisce qui. Perché c’è un risvolto etico mica di poco conto. È giusto che il denaro in un’economia di mercato dispiegata possa arrivare dove arriva?
Per esempio: è giusto permettere alle grandi corporation di pagare per poter inquinare? È etico pagare le persone per offrirsi come cavie di nuovi farmaci o donatori di organi? È giusto pagare qualcuno per fare le guerre per procura? È etico fare delle aste per ammettere i giovani nelle università di elite? È giusto vendere la cittadinanza agli immigrati che possono permettersi di pagarla? Ha un qualche senso dare un prezzo a una vita umana in qualsiasi contesto?
A questo proposito, l’altro grande filosofo morale contemporaneo, Peter Singer, ha commentato con queste parole il valore di una vita umana nel mondo sviluppato, fissato da alcuni analisti di costi-benefici, in nove milioni di dollari: “È folle. Nei pasi poveri si può salvare una vita con 2 o 3mila dollari e si permette che molte di queste vite siano perdute”.
Per questo, dice Sandel, il problema che noi abbiamo è un problema di GIUSTIZIA.
Siamo lieti di offrire ai nostri lettori l’introduzione di Sandel al suo ultimo libro Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato edito in Italia da Feltrinelli.
… a proposito di soldi. Comprare un libro è un‘azione altamente morale, anche se le idee non hanno un prezzo.
Buona lettura.
Quasi tutto è in vendita
Ci sono cose che il denaro non può comprare, sebbene non molte, di questi tempi. Oggi quasi tutto è in vendita. Qualche esempio:
— Una cella di categoria superiore: 82 dollari a notte. A Santa Ana, in California, e in qualche altra città i criminali non violenti possono pagare per una sistemazione migliore — una cella pulita e silenziosa, lontano da quelle dei detenuti che non pagano.
— L’accesso alle corsie di car-pooling per gli automobilisti che viaggiano soli: otto dollari nelle ore di punta. Minneapolis e altre città stanno cercando di ridurre il traffico consentendo a chi viaggia da solo di transitare nelle corsie di car-pooling a tariffe stabilite in base al traffico.
— I servizi di una madre surrogata indiana per portare a termine una gravidanza: 6250 dollari. Le coppie occidentali in cerca di uteri in affitto si rivolgono sempre più all’India, dove la pratica è legale e il prezzo è meno di un terzo di quello corrente negli Stati Uniti.
— Il diritto di immigrare negli Stati Uniti: 500.000 dollari. Gli stranieri che investono questa cifra e creano almeno dieci posti di lavoro in un’area a elevata disoccupazione hanno diritto a una green card che li autorizza al soggiorno permanente.
— Il diritto di sparare a un rinoceronte nero in via d’estinzione: 150.000 dollari. Il Sudafrica ha iniziato a concedere ai proprietari di ranch il permesso di vendere ai cacciatori il diritto di uccidere un numero limitato di rinoceronti, con l’obiettivo di fornire ai proprietari dei ranch un incentivo per allevare e proteggere le specie in via d’estinzione.
— Il numero di telefono cellulare del vostro medico: a partire da 1500 dollari all’anno. Un numero crescente di medici concierge offre consulenza via cellulare e appuntamenti in giornata ai pazienti disposti a pagare tariffe annuali da 1500 a 25.000 dollari.
— Il diritto di emettere una tonnellata di anidride carbonica nell’atmosfera: 13 euro. L’Unione europea mette a disposizione un mercato delle emissioni di anidride carbonica che permette alle società di comprare e vendere il diritto di inquinare.
— L’ammissione di vostro figlio a un’università “prestigiosa”. Benché le rette non vengano rese pubbliche, i responsabili di alcune università al top hanno dichiarato al “Wall Street Journal” che accettano studenti non proprio brillanti i cui genitori siano ricchi e disposti a dare sostanziosi contributi finanziari.
Idee per tirar su qualche soldo
Non tutti possono permettersi di comprare queste cose. Oggi, tuttavia, vi sono molti nuovi modi per fare soldi. Se avete bisogno di guadagnare del denaro extra, ecco alcune alternative originali:
— Affittare la fronte (o qualsiasi altra parte del vostro corpo) per esporre una pubblicità: 777 dollari. La compagnia aerea Air New Zealand ha assunto trenta persone disposte a radersi la testa e a portare un tatuaggio temporaneo con lo slogan “Hai bisogno di cambiare? Vola in Nuova Zelanda”.
— Fare da cavia umana nelle sperimentazioni farmacologiche per un’azienda farmaceutica: 7500 dollari. Il compenso può variare in base all’invasività dei protocolli utilizzati per testare gli effetti dei farmaci e al malessere procurato.
— Combattere in Somalia o in Afghanistan per una compagnia militare privata: da 250 dollari al mese a 1000 dollari al giorno. Il compenso varia secondo le qualifiche, l’esperienza e la nazionalità.
— Stare in fila per una notte a Capitol Hill a tenere il posto a un lobbista che vuole assistere a una seduta del Congresso degli Stati Uniti: da 15 a 20 dollari all’ora. I lobbisti pagano società che assumono persone, anche senzatetto, per fare la coda.
— Leggere un libro (per gli alunni di una seconda elementare di una scuola di Dallas a basso rendimento): due dollari. Per promuovere la lettura, le scuole pagano i bambini per ogni libro che leggono.13
— Perdere sei chili e mezzo in quattro mesi (se siete obesi): 378 dollari. Aziende e assicurazioni che vendono polizze sanitarie offrono incentivi finanziari per la perdita di peso e per altri tipi di comportamenti salutari.14
— Comprare una polizza assicurativa sulla vita di una persona malata o anziana, pagare il premio annuale mentre la persona è in vita per percepirne poi l’indennità di morte, quando l’assicurato muore: potenzialmente, milioni di dollari (ma dipende dalla polizza). Questa forma di scommessa sulla vita degli sconosciuti è diventata un’industria da 30 miliardi di dollari. Prima muore lo sconosciuto, più soldi fa l’investitore.15
Viviamo in un’epoca in cui quasi tutto può essere comprato e venduto. Negli ultimi tre decenni, i mercati — e i valori di mercato — hanno preso a governare le nostre vite come mai prima d’ora. Non siamo giunti a questa condizione attraverso una scelta deliberata. È quasi venuta da sé.
Quando finì la Guerra fredda, i mercati e la logica di mercato godettero, comprensibilmente, di un prestigio incontrastato. Nessun altro meccanismo di organizzazione della produzione e distribuzione dei beni si dimostrò così efficace nel generare ricchezza e prosperità. E tuttavia, proprio mentre un numero sempre crescente di paesi nel mondo adottava i meccanismi di mercato per il funzionamento delle proprie economie, stava succedendo qualcos’altro. I valori di mercato stavano assumendo un ruolo sempre più importante nella società. L’economia diventava un dominio imperiale. Oggi, la logica del comprare e vendere non è più applicata soltanto ai beni materiali ma governa in misura crescente la vita nella sua interezza. È arrivato il momento di chiederci se vogliamo vivere in questo modo.
L’epoca del trionfalismo dei mercati
Gli anni precedenti la crisi finanziaria del 2008 sono stati un momento di esaltazione della fede nei mercati e della deregulation — un’epoca di trionfalismo dei mercati. L’epoca iniziò nei primi anni ottanta, quando Ronald Reagan e Margaret Thatcher sostennero che fossero i mercati, e non i governi, ad avere in mano le chiavi della prosperità e della libertà. Tale credo perdurò negli anni novanta, con il pensiero liberal non ostile ai mercati di Bill Clinton e di Tony Blair, che ha attenuato e al tempo stesso consolidato la fiducia nei mercati come principale mezzo per conseguire il bene pubblico.
Oggi, questa fiducia è in dubbio. L’era del trionfalismo dei mercati sta volgendo al termine. La crisi finanziaria non ha solamente instillato il dubbio sulla capacità dei mercati di allocare il rischio in maniera efficiente. Ha anche suscitato la diffusa percezione che i mercati si siano allontanati dalla morale e si debba riavvicinarli a essa in qualche modo. Ma che cosa ciò significhi, o come dovremmo muoverci al riguardo, non è ovvio.
Alcuni sostengono che la crisi morale alla base del trionfalismo dei mercati sia stata l’avidità, che ha portato a correre rischi in modo irresponsabile. La soluzione, secondo questo modo di vedere, è tenere a freno l’avidità, esigere dai banchieri e dai manager di Wall Street una maggiore integrità e responsabilità e attuare regolamentazioni sensate che scongiurino il verificarsi di una nuova crisi simile.
Si tratta, nel migliore dei casi, di una diagnosi parziale. Anche se è certamente vero che l’avidità ha giocato un ruolo nella crisi finanziaria, vi è in ballo qualcosa di più grande. Il più grave cambiamento in atto negli ultimi tre decenni non è stato l’aumento dell’avidità. È stato l’espansione dei mercati e dei valori di mercato in sfere della vita a cui essi non appartengono.
Per affrontare questa situazione, non basta inveire contro l’avidità; occorre ripensare il ruolo che i mercati possono giocare nella nostra società. Serve un dibattito pubblico su che cosa significhi tenere i mercati al proprio posto. Per affrontare tale dibattito, occorre riflettere a fondo sui limiti morali dei mercati. Occorre chiedersi se esiste qualcosa che il denaro non può comprare.
L’estensione dei mercati e del pensiero orientato dai valori di mercato negli aspetti della vita tradizionalmente governati da norme non di mercato è uno dei cambiamenti più significativi dei nostri tempi.
Consideriamo la proliferazione di scuole, ospedali e prigioni con fini di lucro e l’esternalizzazione della guerra a compagnie militari private. (In Iraq e in Afghanistan, queste hanno di fatto superato in numero le truppe dell’esercito americano.)
Consideriamo l’eclissi delle forze di polizia pubbliche a vantaggio delle società di sicurezza privata — specialmente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove il numero di guardie private è più del doppio di quello degli agenti delle forze dell’ordine.
Oppure consideriamo il marketing aggressivo delle aziende farmaceutiche per la prescrizione di farmaci ai consumatori nei paesi ricchi. (Se vi è capitato di vedere gli spot pubblicitari durante i telegiornali serali negli Stati Uniti, siete giustificati a pensare che la prima emergenza sanitaria nel mondo non sia la malaria o la cecità fluviale o la malattia del sonno, bensì un’epidemia dilagante di disfunzioni erettili.)
Consideriamo anche l’estensione della pubblicità nelle scuole pubbliche; la vendita dei diritti di denominazione per parchi e spazi pubblici; il lancio sul mercato di ovuli e spermatozoi “griffati” per la riproduzione assistita; l’estemalizzazione della gravidanza a madri surrogate nei paesi in via di sviluppo; la compravendita, da parte di aziende e paesi, del diritto di inquinare; il sistema di finanziamento delle campagne elettorali che porta quasi ad autorizzare la compravendita dei voti.
Questi usi dei mercati per distribuire salute, istruzione, pubblica sicurezza, sicurezza nazionale, giustizia penale, tutela dell’ambiente, svago, riproduzione e altri beni sociali erano in gran parte sconosciuti trent’anni fa. Oggi li diamo ampiamente per scontati.
Tutto in vendita
Perché preoccuparsi del fatto che stiamo andando verso una società in cui tutto è in vendita?
Per due ragioni: una riguarda la disuguaglianza; l’altra la corruzione. Consideriamo la disuguaglianza. In una società in cui tutto è in vendita, la vita è più difficile per chi dispone di mezzi modesti. Più il denaro può comprare, più la ricchezza (o la sua mancanza) conta.
Se il solo vantaggio della ricchezza fosse la possibilità di comprare yacht, auto sportive e vacanze esclusive, le disuguaglianze di reddito e di ricchezza non importerebbero molto. Man mano però che il denaro arriva a comprare sempre più cose — l’influenza politica, una buona assistenza sanitaria, una casa in un quartiere sicuro, l’accesso a scuole d’élite — la distribuzione del reddito e della ricchezza assume un ruolo sempre maggiore. Laddove tutte le cose buone sono comprate e vendute, avere i soldi fa la differenza.
Ciò spiega perché gli ultimi decenni sono stati particolarmente difficili per i poveri e per le famiglie del ceto medio. Non solo è aumentato il divario tra ricchi e poveri ma, lasciando che il denaro contasse sempre più, la mercificazione di ogni cosa ha acutizzato la disuguaglianza.
La seconda ragione per cui dovremmo esitare a mettere tutto in vendita è più complessa da spiegare. Non riguarda la disuguaglianza e l’equità ma gli effetti corrosivi dei mercati. Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Questo perché i mercati non solo distribuiscono beni: essi esprimono e promuovono anche determinati atteggiamenti nei confronti dei beni oggetto di scambio. Pagare i bambini affinché leggano libri può spingerli a leggere di più, ma può anche insegnar loro a considerare la lettura come un lavoro e non come una fonte di soddisfazione intrinseca. Vendere all’asta al miglior offerente le iscrizioni universitarie può aumentare le entrate ma anche intaccare l’integrità del college e il valore dei suoi diplomi. Assumere mercenari stranieri per combattere le nostre guerre può risparmiare la vita ai nostri cittadini ma può anche corrompere il significato della cittadinanza.
Spesso gli economisti assumono che i mercati siano inerti, che non abbiano ripercussioni sui beni che scambiano. Ma questo non è vero. I mercati lasciano il segno. Talvolta, i valori di mercato scalzano valori non di mercato di cui varrebbe la pena tener conto.
Ovviamente, le persone sono in disaccordo su quali siano i valori di cui vale la pena tener conto e perché. Così, per decidere che cosa i soldi dovrebbero — o non dovrebbero — essere in grado di comprare, dobbiamo decidere quali valori dovrebbero governare le diverse sfere della vita sociale e civile. Come rifletterci sopra è l’oggetto di questo libro.
Ecco un’anteprima della risposta che spero di offrire: quando decidiamo che certi beni potrebbero essere comprati o venduti, decidiamo, almeno implicitamente, che è appropriato trattarli come merce, come strumenti di profitto e di consumo. Ma non tutti i beni sono in questo modo valutati correttamente. L’esempio più ovvio è l’essere umano. La schiavitù era esecrabile perché trattava gli esseri umani come merce, da comprare e vendere all’asta. Tale trattamento non riesce a valutare gli esseri umani nel modo appropriato — come persone meritevoli di dignità e rispetto, piuttosto che come mezzi di guadagno e oggetti d’uso.
Una riflessione simile può essere estesa ad altre attività o beni di affezione. Non permettiamo che i bambini siano comprati o venduti sul mercato. Anche nel caso in cui gli acquirenti non maltrattassero i bambini che comprano, un mercato di bambini esprimerebbe e promuoverebbe il modo sbagliato di valutarli. Giustamente i bambini non sono considerati come beni di consumo ma come esseri meritevoli di amore e di cura. Consideriamo anche i diritti e le obbligazioni di cittadinanza. Se siamo chiamati a svolgere un incarico da giurato, non possiamo ingaggiare un sostituto che prenda il nostro posto. Neppure permettiamo che i cittadini vendano il proprio voto, sebbene altri possano essere desiderosi di comprarlo. Perché no? Perché crediamo che i doveri civici debbano essere considerati non come proprietà privata ma come responsabilità pubbliche. Esternalizzarli corrisponde a degradarli, a valutarli nel modo sbagliato.
Questi esempi mettono in luce un aspetto più generale: se trasformate in merci, alcune delle cose buone nella vita vengono corrotte o degradate. Dunque, per stabilire dove va collocato il mercato e a che distanza andrebbe tenuto, dobbiamo decidere come valutare i beni in questione — la salute, l’istruzione, la sfera familiare, la natura, l’arte, i doveri civici, e così via. Queste sono questioni morali e politiche, non soltanto economiche. Per risolverle, dobbiamo discutere, caso per caso, il significato morale di questi beni e come valutarli correttamente.
È una discussione che non abbiamo affrontato all’epoca del trionfalismo dei mercati. Il risultato è che, senza rendercene conto, senza aver mai deciso di farlo, siamo passati da l’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato.
La differenza è questa: un’economia di mercato è uno strumento — prezioso ed efficace — per organizzare l’attività produttiva. Una società di mercato è un modo di vivere in cui i valori di mercato penetrano in ogni aspetto dell’attività umana. Un luogo dove le relazioni sociali sono trasformate a immagine del mercato.
Il grande dibattito assente nella politica contemporanea riguarda il ruolo e la portata dei mercati. Vogliamo un’economia di mercato o una società di mercato? Quale ruolo dovrebbero giocare i mercati nella vita pubblica e nelle relazioni personali? Come possiamo decidere quali beni debbano essere comprati e venduti, e quali vadano governati da valori non di mercato? In che ambiti le ingiunzioni del denaro non dovrebbero funzionare?
Il libro cerca di affrontare tali questioni. Poiché toccano idee controverse sulla società buona e sulla vita buona, non posso promettere risposte definitive. Ma spero almeno di suscitare un dibattito pubblico su questi interrogativi e di offrire una struttura filosofica per rifletterci sopra.
Ripensare il ruolo dei mercati
Anche se foste d’accordo sul fatto che bisogna affrontare grandi questioni riguardo alla moralità dei mercati, potreste dubitare che il nostro dibattito pubblico sia all’altezza del compito. È una preoccupazione legittima. Ogni tentativo di ripensare il ruolo e la portata dei mercati dovrebbe prendere le mosse dal riconoscimento di due ostacoli scoraggianti.
Uno è il persistente potere e prestigio della logica di mercato, persino all’indomani del peggior fallimento dei mercati degli ultimi ottant’anni. L’altro è l’astiosità e la vacuità del nostro dibattito pubblico. Due condizioni, queste, non completamente indipendenti.
Il primo ostacolo è sconcertante. Nel 2008 la crisi finanziaria fu vista da molti come un verdetto morale sull’adesione acritica ai mercati, che era andata per la maggiore in tutti gli schieramenti politici per tre decenni. L’imminente collasso delle allora potenti società finanziarie di Wall Street e la necessità di una massiccia iniezione di liquidità a spese dei contribuenti sembravano destinati a suscitare una riconsiderazione dei mercati. Persino Alan Greenspan che, come presidente della Federai Reserve degli Stati Uniti, aveva lavorato come un alto prelato della fede nel trionfalismo dei mercati, confessò “uno stato d’animo di scioccata incredulità”, essendosi rivelata malriposta la sua fiducia nella capacità di autocorreggersi dei liberi mercati. La copertina dell’“Economist”, il settimanale inglese allegramente promercato, riportò l’immagine di un manuale di economia che si scioglieva in una pozzanghera sotto il titolo Quello che è andato storto nell’economia.
L’era del trionfalismo dei mercati era giunta a una fine rovinosa, a cui senz’altro sarebbe seguita una fase di valutazione morale, una stagione di sobri ripensamenti sulla fiducia nei mercati. Nei fatti non è andata così.
In generale, l’impressionante fallimento dei mercati finanziari non riuscì a scoraggiare granché la fede nei mercati. La crisi finanziaria screditò infatti più il governo che le banche. Nel 2011 alcuni sondaggi rivelarono che l’opinione pubblica americana incolpava più il governo federale che le istituzioni finanziarie di Wall Street — in una misura più che doppia — per i problemi che il paese si trovava ad affrontare.
La crisi finanziaria aveva gettato gli Stati Uniti e gran parte dell’economia globale nella peggiore recessione dai tempi della Grande Depressione, lasciando milioni di persone senza lavoro. Tuttavia, non ha suscitato un ripensamento sostanziale dei mercati. Piuttosto, la sua prima, importante conseguenza politica negli Stati Uniti è stata la nascita del movimento del Tea Party, la cui ostilità nei confronti del governo e la cui adesione al libero mercato avrebbero fatto arrossire Ronald Reagan.
Nell’autunno del 2011 il movimento di Occupy Wall Street ha portato la protesta nelle città degli Stati Uniti e nel mondo. Queste manifestazioni hanno avuto come bersaglio le grandi banche, le prerogative societarie e le crescenti disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Nonostante i loro differenti orientamenti ideologici, sia il Tea Party sia gli attivisti di Occupy Wall Street hanno dato voce all’indignazione popolare verso le operazioni di salvataggio della finanza.
Malgrado queste voci di protesta, un dibattito serio sul ruolo e sulla portata dei mercati rimane largamente assente dalla nostra vita politica. I democratici e i repubblicani discutono, come hanno fatto per molto tempo, di tasse, spesa pubblica e deficit di bilancio; solo che ora lo fanno con maggiore faziosità e con una scarsa capacità di ispirare e persuadere. La disillusione nei confronti della politica si è aggravata, mentre cresce nei cittadini la frustrazione per un sistema politico incapace di agire per il bene comune o di occuparsi delle questioni che contano di più.
Questo stato precario del dibattito pubblico è il secondo ostacolo a una discussione sui limiti morali dei mercati. In un’epoca in cui il dibattito politico consiste soprattutto in confronti dai toni accesi in televisione, in un livore fazioso alla radio e in battaglie ideologiche al Congresso, è difficile immaginare un dibattito pubblico che rifletta su questioni morali controverse quali il giusto modo di valutare la procreazione, l’infanzia, l’istruzione, la salute, l’ambiente, la cittadinanza e altri beni. Eppure, credo che un simile dibattito sia possibile e che possa rinvigorire la nostra vita pubblica.
Alcuni vedono nella nostra politica rancorosa un eccesso di convinzione morale: troppe persone credono incondizionatamente, con troppa veemenza, nelle proprie convinzioni e le vogliono imporre agli altri. Io penso che questa sia un’interpretazione errata della nostra difficile situazione. Il problema della politica non è l’eccesso di argomentazione morale, ma il suo difetto. La politica ha assunto toni troppo accesi perché è per lo più vacua, svuotata di contenuto morale e spirituale. Non riesce a impegnarsi nelle grandi questioni a cui tengono le persone.
La vacuità della politica contemporanea ha diverse fonti. Una di esse è il tentativo di bandire l’idea di vita buona dal dibattito pubblico. Nella speranza di evitare conflitti settari, spesso pretendiamo che i cittadini si lascino alle spalle le proprie convinzioni morali e spirituali quando entrano nell’arena pubblica. Ma, nonostante le buone intenzioni, la riluttanza ad ammettere in politica discussioni sulla vita buona ha spianato la strada al trionfalismo dei mercati e alla perdurante tenuta della logica di mercato.
A suo modo, la logica di mercato svuota di argomentazione morale anche la vita pubblica. Parte del fascino dei mercati si spiega col fatto che essi non giudicano le preferenze che soddisfano. Non chiedono se alcuni modi di valutare i beni siano più nobili o più validi di altri. Se qualcuno è disposto a pagare per il sesso o per un rene, e un adulto consenziente è disposto a venderlo, l’unica questione che l’economista si pone è: “A quanto?”. I mercati non rimproverano. Non discriminano tra preferenze ammirevoli e preferenze spregevoli. Ciascuna delle parti di un affare decide autonomamente quale valore attribuire ai beni al centro dello scambio.
Questo atteggiamento non giudicante nei confronti dei valori sta al cuore della logica di mercato e spiega gran parte del suo fascino. Ma la nostra riluttanza a impegnarci nell’argomentazione morale e spirituale, insieme con la nostra adesione ai mercati, ha avuto un prezzo elevato: ha svuotato di energia morale e civile il dibattito pubblico e ha dato un contributo alle politiche manageriali e tecnocratiche che affliggono oggi molte società.
Un dibattito sui limiti morali dei mercati potrebbe consentirci, come società, di decidere dove i mercati sono utili al bene comune e dove invece non devono stare. Rinvigorirebbe anche la nostra politica, accogliendo nell’arena pubblica idee concorrenti sulla vita buona. Infatti, a quale esito potrebbero portare simili argomentazioni altrimenti? Se siete d’accordo sul fatto che comprare e vendere certi beni li corrompe o li degrada, allora riconoscerete che alcuni modi di valutare questi beni siano più appropriati di altri. Non ha molto senso parlare di corruzione delle attività umane — il ruolo del genitore, per esempio, o la cittadinanza — a meno che non si pensi che certi modi di essere genitori o cittadini siano migliori di altri.
Simili giudizi morali sostengono i pochi limiti ai mercati che ancora osserviamo. Non permettiamo ai genitori di vendere i figli o ai cittadini di vendere i voti. E una delle ragioni è apertamente moralista: crediamo che vendere queste cose significhi valutarle in modo sbagliato e faciliti comportamenti dannosi.
Analizzare a fondo i limiti morali dei mercati rende ineludibili tali questioni. Richiede di ragionare insieme, pubblicamente, su come valutare i beni sociali a cui diamo un prezzo. Sarebbe folle pretendere che un dibattito pubblico moralmente più robusto, anche al suo meglio, possa condurre a un accordo su ogni questione controversa. Produrrebbe però una vita pubblica più sana. E ci renderebbe più consapevoli del prezzo che paghiamo vivendo in una società in cui ogni cosa è in vendita.
Quando pensiamo alla moralità dei mercati, pensiamo innanzitutto alle banche di Wall Street e ai loro spericolati misfatti, agli hedge funds, alle manovre di salvataggio della finanza e alle riforme della regolamentazione. Ma la sfida morale e politica che affrontiamo oggi è più diffusa e più banale: consiste nel ripensare il ruolo e la portata dei mercati all’intemo delle nostre attività sociali, delle relazioni umane e della quotidianità.