Malattie genetiche: chi deve sapere?

In discussione il concetto stesso di paziente in due casi giudiziari

Mario Mancini
4 min readOct 3, 2019

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La natura di alcune mutazioni genetiche

In questa era satura d’informazione, cosa succede quando il “diritto a sapere” si scontra con il “diritto a non sapere”? L’accessibilità ai test genetici ha reso questo interrogativo attualissimo. Il patrimonio genetico, dove possono essere celate delle mutazioni origine di malattie, è qualcosa di condiviso all’interno delle famiglie. Il che significa una cosa molto importante.

I risultati di un test genetico riguardano inevitabilmente più persone e non solo la persona che l’ha effettuato. In Germania e in Gran Bretagna si sono verificati due casi giudiziari che riguardano proprio questo delicato tema della condivisione in famiglia dei risultati di un test genetico.

La questione sottostante a questi casi è fondamentale poiché riguarda la stessa identità di paziente e la riservatezza del rapporto medico-paziente, fondamentale nella pratica medica.

La malattia di Huntington

Entrambi i casi riguardano la malattia di Huntington (MH), una malattia ereditaria neurodegenerativa. È una singola mutazione genetica a generare la malattia. Il che significa che un bambino di un genitore affetto da tale mutazione ha il 50% di probabilità di ereditarla.

I sintomi, che includono perdita di coordinazione motoria, alterazione dell’umore e declino cognitivo, tendono a svilupparsi tra i 30 e i 50 anni. La malattia è fatale. La diagnosi può risultare da un semplice esame del sangue e, sebbene esistano trattamenti per i sintomi più evidenti, non si conosce alcuna cura risolutiva.

Il caso inglese

Nel caso inglese, che dovrebbe essere discusso dall’Alta Corte di Londra a novembre 2019, una donna conosciuta con la sigla ABC — per tutelare l’identità della figlia minorenne — ha intentato una causa contro un ospedale della capitale inglese facente parte del servizio sanitario nazionale (NHS). La donna ha accusato l’ospedale di non aver condiviso con lei la diagnosi della MH di suo padre.

Nel 2009, ABC era incinta al momento della diagnosi del genitore e pertanto asserisce che, qualora informata di quel test, avrebbe interrotto la gravidanza. In effetti ne era venuta a conoscenza solo dopo aver dato alla luce la figlia.

In un test successivo, lei stessa era risultata positiva alla mutazione che causa la malattia di Huntington. Il che significa che anche la figlia ha una probabilità del 50% di svilupparla.

Verso il processo

L’Alta Corte di Londra discuterà il caso della signora ABC nel mese di novembre. Una dibattito e un sentenza molto attesi non sono nel Regno Unito.

Inizialmente il caso è stato annullato, con la motivazione che procedere in giudizio avrebbe comportato il rischio di compromettere la riservatezza del rapporto medico-paziente. Ma nel 2017 quella decisione è stata rivista.

La corte d’appello ha concluso che potrebbero esserci alcune situazioni in cui il medico ha l’obbligo di informare i parenti di un paziente. Inoltre non andare in giudizio non sarebbe stato nell’interesse pubblico.

Nel Regno Unito i medici hanno il dovere, secondo la common law, di proteggere la riservatezza di un paziente e sono sollevati da tale compito solo con il consenso del paziente.

Tuttavia, organizzazioni professionali, come il General Medical Council, ammettono che, a volte, può essere necessaria una deroga al vincolo di riservatezza, in circostanze in cui non farlo potrebbe comportarne la morte del paziente o arrecargli gravi danni. L’identificazione di tali situazioni è lasciata al giudizio dei medici.

Il caso tedesco

La Corte di Cassazione federale tedesca ha rdichiarato non ammissibile il caso di una signora di Coblenza che aveva intentato causa al medico del marito divorziato per averla informata che il congiunto era positivo alla MH.

Il caso tedesco è l’immagine speculare di quello inglese. A differenza del Regno Unito, in Germania il diritto a non dare informazioni genetiche ai congiunti è protetto dalla legge. Tuttavia, nel 2011 un medico ha informato una donna di Coblenza che il marito divorziato, paziente del dottore, era risultato positivo alla MH. Ciò significava che i loro due figli erano a rischio di malattia.

La signora ha fatto causa al medico, che aveva agito con il consenso del suo paziente. Entrambi i bambini, in quanto minorenni, non potevano essere legalmente sottoposti al test per la malattia, che, come hanno sottolineato i legali della donna, è incurabile. La donna si trovava quindi nelle condizioni di non poter agire in base alle informazioni e, di conseguenza, stava soffrendo di una depressione reattiva che le impediva di lavorare.

Un tribunale distrettuale inizialmente ha respinto il caso della donna, ma quella decisione è stata successivamente annullata. Successivamente la Corte di Cassazione federale tedesca ha emesso una sentenza definitiva, respingendo nuovamente il caso.

Un’area grigia del diritto

Entrambi i casi, quindi, fanno emergere un’area grigia del diritto. Gli esiti saranno seguiti con interesse dai legali di altre giurisdizioni. Se il “diritto a sapere” verrà legalmente riconosciuto nel Regno Unito, entro la fine dell’anno, si potrebbero eliminare alcune lacune della legislazione, ma ne potrebbero presentarsene di nuove.

Per esempio, fino a che punto i medici dovrebbero cercare di rintracciare e quindi informare i familiari? Si romperà il rapporto di fiducia tra pazienti e medici se la riservatezza non è più garantita?

È compito della legge bilanciare bene questi diritti. Alcuni ritengono che questo sia un compito al limite dell’impossibile, nondimeno occorre provare.

Quando la legge è in ritardo rispetto alla tecnologia, qualcuno paga il prezzo di questo mancato allineamenti e questo qualcuno è il medico. Come dimostrano questi due casi, siamo in una sorta di comma 22: entrambe le alternative sono dannatamente difficili.

Da “The Economist”, 26 settembre 2019

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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